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L’uso legittimo delle armi

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(immagine[1])
 
Puoi fare molta più strada con una parola gentile e una pistola,
 che con una parola gentile e basta.
Al Capone
(Robert De Niro in “Gli intoccabili”, 1987)
 
La dottrina giuridica definisce “cause di giustificazione” (o scriminanti), quelle situazioni, previste precisamente dalla legge, in presenza delle quali viene meno il contrasto tra un fatto corrispondente ad una fattispecie penale e l’ordinamento giuridico. In altri termini, al ricorrere di una causa di giustificazione un fatto che, in teoria, sarebbe un reato, tale non è perché la legge non solo permette quel comportamento “apparentemente” criminale, ma addirittura, per certi versi, lo impone. In presenza di una causa di giustificazione, il bene-interesse non è più tutelato dalla norma penale, e di conseguenza viene meno l’offesa in senso giuridico, pur essendo in presenza di un’offesa in senso materiale: ciò giustifica la “non punibilità” del soggetto agente[2].
Il Codice Penale italiano nel suo LIBRO PRIMO, rubricato “Dei reati in generale”, al Titolo IIIDel reato (artt. 39-84), al Capo I, Del reato consumato e tentato, riconosce come scriminanti, il consenso dell’avente diritto (art. 50 c.p.), l’esercizio del diritto o l’adempimento del dovere (art. 51 c.p.), la difesa legittima (art. 52), l’uso legittimo delle armi (art. 53 c.p.) e lo stato di necessità (art. 54 c.p.). Tralasciamo un esame particolare degli articoli 50 e 54, che potrà essere oggetto di futuri contributi, per considerare le figure dell’ “esercizio del diritto o adempimento di un dovere” e della “difesa legittima” come “propedeutiche” all’esame dell’ “uso legittimo delle armi”[3].
La prima ipotesi (art.51 c.p.), nelle sue linee essenziali, riguarda i casi in cui “l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità[4]. La norma si riferisce in particolare al caso dell’adempimento del dovere, il quale può essere imposto da una norma giuridica oppure da un ordine cd “legittimo”, della cui liceità cioè, sia formale che sostanziale, il subordinato ha il diritto e il dovere di giudicare[5]. Le due scriminanti sono disciplinate congiuntamente, in quanto accomunate dalla medesima ratio, ovvero il principio di non contraddizione, secondo cui l’ordinamento non può da un lato riconoscere al soggetto la possibilità di agire in un certo modo (apparentemente illecito) e, dall’altro, punire tale suo comportamento. La differenza si situa poi nel fatto che l’esercizio del diritto presuppone un potere di agire riconosciuto dalla legge, mentre l’adempimento del dovere si riferisce a un obbligo (e non a una libera scelta) di agire per il soggetto.
La seconda ipotesi di causa di giustificazione concerne la legittima difesa (art.52 c.p.), per cui “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. La ragione giuridica alla base di questa scriminante è il principio del c.d. bilanciamento degli interessi, che fa prevalere l’esigenza di tutelare l’interesse di chi viene ingiustamente aggredito, rispetto all’interesse dell’aggressore.
A questo punto il legislatore ha voluto inserire nel codice penale la figura dell’uso legittimo delle armi, pienamente autonoma rispetto all’esercizio del diritto e all’adempimento del dovere, fattispecie alle quali veniva in precedenza assimilata, quindi con funzione integrativa e specificativa. L’art.53 del codice penale, infatti, inizia con la clausola: “Ferme le disposizioni contenute nei due articoli precedenti” ad indicare che l’istituto opera solo qualora manchino i presupposti della legittima difesa e dell’adempimento del dovere.
La disposizione continua, al I comma, sancendo che “…non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità e comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona.”.
Questa scriminante è riconoscibile solo in capo a soggetti determinati, qualificabili come “pubblici ufficiali”, che abbiamo definito in molte altre occasioni come coloro che “esercitano una funzione legislativa, amministrativa o giudiziaria con o senza rapporto di impiego con lo Stato, temporaneamente o permanentemente[6]. “Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi” (art.357, II comma c.p.)[7].
Per questi soggetti, l’uso dell’arma dovrà essere considerato solo al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio ovvero, secondo l’interpretazione di parte della dottrina, per eliminare un ostacolo che si frappone tra il pubblico ufficiale stesso e il dovere da adempiere. Questa impostazione porta ad escludere l’esistenza della causa di giustificazione non solo nei casi in cui il soggetto abbia agito per un fine privato (come uno scopo di vendetta), ma anche nei casi in cui lo scopo sia l’adempimento di una semplice “facoltà”, non di un dovere del proprio ufficio[8].
In sostanza sono due i casi in cui è possibile che il pubblico ufficiale faccia un uso legittimo delle armi: o quando sia costretto dalla necessità di respingere una violenza (rivolta nei confronti del pubblico ufficiale stesso o di cose o persone che questi ha il dovere di tutelare), o quando sia costretto dalla necessità di vincere una resistenza, fermo restando che sarà, in ogni caso, compito del Giudice valutare concretamente se queste erano tali da dover essere ottenute con le armi. Si ricordi che la resistenza di cui parla la norma è intesa come resistenza attiva (si pensi ad esempio al caso di colui che al momento dell’arresto esplode un colpo di pistola contro il pubblico ufficiale e poi si dà alla fuga). Non vi rientrano, dunque, i casi di resistenza passiva, che è, per esempio, quella opposta dagli scioperanti che si distendono sui binari per impedire il passaggio dei treni[9].
L’ultima parte del I comma dell’art.53 c.p. è stato modificato dalla l. 22 maggio 1975, n. 152 (art.14)[10]. La “legge Reale” inasprì la legislazione penale allo scopo di contrastare e combattere il fenomeno del terrorismo politico durante gli anni di piombo[11]. Mediante l’estensione della previsione normativa dell’art. 53 c.p., si è permesso alle forze dell’ordine di usare legittimamente le armi non solo in presenza di violenza o di resistenza, ma comunque quando si tratti di “impedire la consumazione” di reati, molto gravi, come quelli elencati[12]. Questa modifica è stata oggetto di numerose critiche, dal momento che il concetto di violenza da respingere integrerebbe di per sé i vari delitti specificati. Inoltre la dottrina si è chiesta se la locuzione “per impedire la consumazione di delitti” permetta l’uso delle armi anche per impedire atti meramente preparatori, prodromici al tentativo, interpretazione che suscita non poche perplessità[13].
Il II comma dell’art.53 c.p. recita poi: “La stessa disposizione si applica a qualsiasi persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale, gli presti assistenza. Di conseguenza la scriminante in esame opera anche nei confronti del cittadino privato, ma solo nel caso in cui la richiesta di intervenire, rivoltagli dal pubblico ufficiale, sia stata fatta nei limiti e nei casi previsti dagli artt. 652 c.p. e 380 c.p.p.[14]. A questo proposito si ricordi che occorre distinguere il caso in cui sia il pubblico ufficiale che fa direttamente uso o ordina di far uso delle armi, dal caso in cui chi ne fa uso agisce per ordine del superiore: nella prima ipotesi opera la scriminante dell’uso legittimo, mentre nella seconda si ha l’adempimento del dovere, se ed in quanto ne sussistano i presupposti.
L’ultimo comma dell’art.53 c.p. stabilisce che: “La legge determina gli altri casi, nei quali è autorizzato l’uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica. Infatti, quasi inaspettatamente (?), sono diversi i casi nei quali le leggi italiane consentono l’uso delle armi, ad esempio, per l’esecuzione dei provvedimenti di pubblica sicurezza, quando gli interessati non vi ottemperino spontaneamente (art.5 T.U.L.P.S.[15]), o per impedire i passaggi abusivi delle frontiere dello Stato o per arrestare persone in attitudine di contrabbando (v. l. 4 marzo 1958, n. 100[16]) o di armi per impedire le evasioni dei detenuti o violenza tra i medesimi (art. 41, l. 26 luglio 1975, n. 354[17]).
Per riassumere e completare consideriamo alcune recenti pronunce della Corte di Cassazione riguardanti gli aspetti più rilevanti dell’“uso legittimo delle armi”: i Giudici Supremi elencano, anzitutto, le condizioni in presenza della quali è da escludersi la responsabilità dell’agente (Pubblico Ufficiale), per il verificarsi dell’evento più grave da lui non voluto (anche nei confronti di terzi estranei al reato) con l’uso dell’arma in dotazione,
a) che non vi sia altro mezzo possibile;
b) che tra i vari mezzi di coazione venga scelto quello meno lesivo;
c) che l’uso di tale mezzo venga graduato secondo le esigenze specifiche del caso, nel rispetto del fondamentale principio di proporzionalità tra azione e reazione[18].
Inoltre, il ricorso all’uso delle armi deve costituire l'”extrema ratio” nella scelta dei mezzi necessari per l’adempimento del dovere, essendo esso ammissibile solo quando non sono praticabili altre modalità d’intervento; in un caso concreto la Corte ha ritenuto non provato il rispetto del principio di proporzione[19], e ha annullato (con rinvio all’organo giudicante nel merito) la sentenza che aveva ravvisato l’esistenza della scriminante in esame per due poliziotti i quali, nel corso di inseguimento di alcuni individui su un motociclo, approfittando di un momento di quiete del traffico, avevano esploso verso l’alto un colpo di fucile il cui proiettile, per cause accidentali, aveva colpito (“attinto” in gergo tecnico) gli inseguiti omettendo, tuttavia di accertare se, anche alla luce della condotta tenuta da questi ultimi, gli agenti potessero utilmente intervenire in altro modo[20]. Infatti, in una diversa situazione, la Corte ha ritenuto corretta la condotta di agenti di Polizia i quali avevano accompagnato coattivamente presso i propri uffici un individuo a cui era stato richiesto di dichiarare le proprie generalità, e dopo che lo stesso, in un gruppo di persone ostili alle Forze dell’Ordine, si era limitato alla “fugace” esibizione di un documento di identità. Il rifiuto opposto da una persona alla richiesta, da parte di un ufficiale o agente di polizia, di dichiarare le proprie generalità legittima l’accompagnamento coattivo del soggetto negli uffici di polizia e giustifica l’uso di un mezzo di coazione fisica, come la forza muscolare, ove a tale accompagnamento venga fatta resistenza (anche meramente passiva); l’uso della forza deve, ancora una volta, essere rigorosamente proporzionato al tipo ed al grado della resistenza opposta[21].
 
Ricordati che l’arma ti è data per difendere e non per sopraffare
Proverbio fascista

[1] Nell’immagine: momenti di addestramento presso il Poligono di tiro multimediale-interattivo della Polizia di Stato, in Nettuno (Roma).

[2] Cfr. Alberto Monari: Kultunderground n.131-GIUGNO 2006, “La difesa legittima del domicilio privato”, rubrica Diritto

[3] Per armi si intendono quei “mezzi materiali” individuati ai fini della legge penale nelle due categorie delle armi proprie, ovvero quelle da sparo e tutte le altre strutturalmente destinate all’offesa della persona, e delle armi improprie, comprensive di tutti gli strumenti atti ad offendere, dei quali è vietato dalla legge il porto in modo assoluto, ovvero senza giustificato motivo., cui sono poi assimilate le materie esplodenti, i gas asfissianti o accecanti.

[4] Per esemplificare un caso rilevante di esercizio del diritto, si ricorda ad esempio il diritto di cronaca giornalistica (il diritto di narrare, attraverso parole o fotografie, i fatti che avvengono), garantito dall’art. 21 Cost., nell’esercizio del quale possono figurarsi situazioni che offendono l’onore e la reputazione di una persona (anch’essi beni costituzionalmente tutelati v. artt. 2 e 3 Cost.), presupposti del reato di diffamazione; tuttavia qui interviene la scriminante, a patto che vengano rispettati determinati limiti ricavabili dall’ordinamento (tradizionalmente si richiede che la notizia pubblicata sia vera, che esista un interesse pubblico alla sua divulgazione e che l’informazione sia esposta in maniera obiettiva, con un linguaggio necessariamente corretto e di per sé non offensivo).

[5] Si pensi ai soggetti coinvolti in rapporti di subordinazione di natura militare o assimilati (es.: agenti di polizia, pompieri etc.), basati sull’obbligo di obbedienza. L’insindacabilità, infatti, è solo formale mai sostanziale, nel senso che il subordinato potrà verificare: la forma dell’ordine; l’attinenza dell’ordine al servizio; la competenza dell’autorità ordinante. Nell’ipotesi di manifesta criminosità dell’ordine (il caso dell’ufficiale di polizia, ubriaco o impazzito che ordina di sparare su una pacifica folla), avrà il diritto-dovere di opporre un rifiuto.

[6] Cfr. Codice Penale, LIBRO SECONDO – Dei delitti in particolare, Titolo II – Dei delitti contro la pubblica amministrazione (artt. 314 – 360), Capo III – Disposizioni comuni ai capi precedenti, Articolo 357.

[7] Esempi di pubblici ufficiali sono l’ufficiale giudiziario, il consulente tecnico nel processo giudiziario, il testimone, l’assistente universitario, l’ispettore sanitario di un ospedale, i membri della commissione edilizia comunale, il portalettere, i carabinieri ed gli agenti di Pubblica Sicurezza, il geometra tecnico dell’ufficio comunale, il notaio, il segretario comunale ecc.

[8] L’esibizione dell’arma di ordinanza sarà concepibile solo al fine di impedire un’azione violenta in corso ma non certo con finalità di “minaccia” per ottenere, per esempio, la consegna del documento d’identità.

[9] La dottrina penalistica più recente ha, tuttavia, criticato questa impostazione, argomentando che la norma in esame non distingue tra resistenza passiva e resistenza attiva e concludendo così che sarebbe ammissibile l’uso legittimo delle armi anche se vi è una condotta passiva che mira a contrastare l’intervento dell’autorità, autorità che, in ogni caso, deve rispettare il criterio della proporzione tra azione e reazione.

[10] La legge (Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico) fu promulgata nella VI Legislatura sotto il quarto governo Moro e il principale redattore della legge fu l’allora Ministro di Grazia e Giustizia, del Partito Repubblicano Italiano, Oronzo Reale, col nome del quale è d’uso chiamare la norma.

[11] Fonte Wikipedia.

[12] La “violenza” in diritto penale è un concetto ampio, comprensivo della violenza diretta sulle cose o a soggetti diversi dalla vittima, che può consistere sia nell’uso dell’energia fisica da cui derivi una costrizione personale (c.d. violenza propria), sia nell’uso di un qualunque altro mezzo capace di coartare la libertà morale della vittima, come ad esempio l’ipnotizzazione o la somministrazione di sostanze stupefacenti (c.d. violenza impropria).

[13] Nel giugno 1977 il Partito Radicale presentò richiesta di referendum abrogativo della legge n. 152/1975., richiesta che fu ritenuta ammissibile dalla Corte Costituzionale, con sentenza n. 70 del 1978. Il Partito Comunista Italiano, pur essendo stato contrario all’introduzione della legge, si schierò contro la sua abrogazione, qualificando come “eversivi i favorevoli”. Emblematica in tal senso fu la dichiarazione con cui il giornalista di area PCI Emanuele Rocco introdusse il servizio sul referendum al TG2: «Oggi sperano in una vittoria del Sì (all’abrogazione) fascisti, brigatisti e mafiosi».
Il Referendum si tenne nelle giornate dell’11 e 12 giugno 1978 ma ebbe esito negativo, pertanto la legge non fu abrogata. Fonte Wikipedia

[14] Art.652c.p. Rifiuto di prestare la propria opera in occasione di un tumulto “Chiunque, in occasione di un tumulto o di un pubblico infortunio o di un comune pericolo, ovvero nella flagranza di un reato, rifiuta, senza giusto motivo, di prestare il proprio aiuto, o la propria opera, ovvero di dare le informazioni o le indicazioni che gli siano richieste da un pubblico ufficiale o da una persona incaricata di un pubblico servizio, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 a euro 15.000…” Art. 380 c.p.p. Arresto obbligatorio in flagranza.

[15] R.D. 18-6-1931 n. 773, Approvazione del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza. Pubblicato nella Gazz. Uff. 26 giugno 1931, n. 146. Capo II, DELLA ESECUZIONE DEI PROVVEDIMENTI DI POLIZIA, art.5.

[16] L. 4-3-1958 n. 100, Uso delle armi da parte dei militari e degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria in servizio alla frontiera e in zona di vigilanza. Pubblicata nella Gazz. Uff. 7 marzo 1958, n. 58.

[17] L. 26-7-1975 n. 354, Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. Pubblicata nella Gazz. Uff. 9 agosto 1975, n. 212, S.O.

[18] Corte Suprema di Cassazione Sez. IV penale, Sentenza 22-05-2014, n. 6719.

[19] Inteso come necessario bilanciamento tra interessi contrapposti in relazione alla specifica situazione.

[20] CSC Sez. V pen., Sentenza 16-06-2014, n. 41038.

[21] CSC Sez. VI pen., Sentenza 18-03-2015, n. 22529.

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