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Ragù di Capra

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Ragù di Capra

Ragù di Capra è il nuovo romanzo delle edizioni Flaccovio, collana Gialloteca.

E’ un giallo puro, un esperimento interessante, una storia avvincente. Cattura e trascina pagina dopo pagina in una corsa perfetta verso il finale. I personaggi sono ben tratteggiati, l’ambiente della Locride reso con efficacia, le abitudini e le caratterizzazioni locali sono perfette. Il dialetto calabrese e milanese che affiora qua e là tende a ravvivare la narrazione offrendoci gradevoli macchiette.

Ma il punto di forza è assolutamente lo stile. Artistico, elegante, graffiante, innovativo.

Turano sa sorprenderci anche nei momenti narrativi più banali, nelle descrizioni di contorno, non si rilassa mai, tiene sempre alta la nostra attenzione, anche il passaggio più periferico, quello collaterale, il brano di collegamento, quello introduttivo o riflessivo, sono potenti mezzi espressivi posti al servizio di una storia tutto sommato niente male.

Nel 1924 Richard Austen Freeman scriveva "i critici e i letterati di professione tendono a bandire con disprezzo il romanzo poliziesco come qualcosa che si colloca al di fuori del dominio della letteratura e a considerarlo un prodotto di scrittori rozzi e assolutamente incompetenti, destinato a fattorini, commesse e, insomma, ad un pubblico privo di cultura e gusto letterario"

In seguito Borges riscattò l’intero genere affermando che "in un periodo letterario caotico, c’è una sola cosa che, umilmente, ha conservato le virtù classiche: il racconto poliziesco. Non è possibile concepire un racconto poliziesco senza principio, parte centrale e fine. (…) il romanzo poliziesco non ha bisogno di difese; letto con un certo disdegno, ora sta salvando l’ordine in un’epoca di disordine. E questa è una prova meritoria, di cui dobbiamo essergli riconoscenti"

Non è dunque un caso che ultimamente in un periodo letterario piuttosto piatto, le uniche novità degne di nota, guizzanti e vitali, ci pervengano proprio da questo settore letterario di nicchia, a lungo denigrato, ed ora in via di definitiva riscossa e riabilitazione.

Ragù di Capra è la storia intrigante, e per certi versi ironica, di un rampante industriale milanese che, oberato dai debiti, decide di simulare il naufragio del suo yacht e di fingersi morto. Naturalmente ha bisogno di un complice per sbrigare le pratiche con l’assicurazione, e di un luogo sicuro in cui nascondersi, in attesa di lasciare il suolo patrio per avviare una nuova impresa commerciale in Transilvania. Trova appoggio logistico e supporto nel suo socio milanese, di origini calabresi, che rimane in azienda a gestire gli affari, a riscuotere i soldi del premio assicurativo, e lo invia nel suo paese natio per una comoda e confortevole latitanza.

Lo sbarco di questo milanese arrogante sul suolo della Locride è una delle scene meglio riuscite di tutto il romanzo, e il confronto tra l’infiltrato e la popolazione locale costituisce il fulcro centrale di tutta la narrazione, fino alle pagine del disfacimento finale, dove l’autore tocca dei toni drammatici e desolanti, in un crescendo di situazioni negative che, come nei Malavoglia, conduce il protagonista a una rapida quanto incresciosa fine.

Non poteva mancare ovviamente il piccolo finale a sorpresa tipico di tutti i gialli, che contribuisce a donare a quest’opera l’ultimo guizzo di una vitalità sapientemente espressa e a mala pena contenuta dello stile fantasioso e attentamente costruito di questo autore, mostratosi capace di non badare solo alla storia, ma anche alla forma espressiva, e in maniera veramente pregevole.

Le contrapposizioni quasi da contralto tra le abitudini locali, gli accenti calabresi, gli atteggiamenti delle ‘ndrine malavitose, e la mentalità del protagonista, convinto di poter impiantare a sua volta un clan personale reclutando giovani sbandati e nullafacenti tra i ragazzi del paese, sono un crescendo musicale, che ci conduce passo passo verso una fine praticamente annunciata, ma non per questo meno accattivante.

Un libro raramente ben impostato dove nulla viene lasciato al caso. Non c’è personaggio per quanto secondario che non sia abilmente tratteggiato, non c’è passaggio narrativo che non goda di un’abilità descrittiva veramente fuori dal comune, non c’è dettaglio che non venga illuminato dalla giusta luce.

Si ha l’impressione di trovarsi davanti a un’opera ben stutturata, articolata e complessa. I piccoli colpi di scena che ci accompagnano nella lettura sono passaggi d’obbligo, tipici della narrativa del genere, ma anche se ogni impostazione classica viene qui perfettamente rispettata, permane il senso di profonda soddisfazione che si prova quando ci si trova a leggere qualcosa di diverso, sostanzialmente innovativo e fortemente vigoroso.

Ma d’altronde non fa meraviglia quando si scopre che Turano fa il commediofrago, che è uno che sa come si muovono i fili, che ha dimestichezza con gli intrecci narrativi di un plot coionvolgente come questo.

E allora ben vengano i cari vecchi canta-storie che, in spiccato anacronismo con le attuali tendenze della moda letteraria, ci convincono ancora una volta della bontà di coloro che scrivono senza pretese, semplicemente per raccontare. A chi come noi vuole solo essere deliziato da un libro e convinto da una bella storia narrata bene.

Il che dimostra che per fare buona letteratura non è necessario trattare di temi impegnati o socialmente coinvolgenti, non è indispensabile aspirare alle vette dell’olimpo o ripiegarsi nella mistica contemplazione di se stessi.

La realtà è a portata di mano ed è fonte inesauribile di vicende talmente coinvolgenti da rendere inutile qualsiasi altro tipo di ispirazione.

Complimenti dunque a questo autore e alla nuova collana della Flaccovio che ultimamente non sbaglia un colpo, e che ci invita ad aspettarci presto altri gradevoli sorprese.

Sabina Marchesi

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