Labbra rosse turgide emergono, violando il codice cartaceo, socchiuse a mostrare denti precisi, affatto minacciosi. Una copertina accattivante e magnetica, richiama gli occhi verso un titolo che non si lascia pregare, che seduce – in senso latino, trae a sé – il lettore che inconsapevole scoprirà una salivazione degna del cane di Pavlov. Richiamo di copertina che invita ad addentrarsi, o più precisamente lo ingiunge, agendo su atavici repertori iconografici, simbolo- promessa di lussuria e godimenti polposi.
Cosi le pagine scorrono a velocità vorticosa, verso un mondo parallelo, sconosciuto alla maggioranza di noi, architettura essenziale di uno degli ultimi tabù quasi universalmente riconosciuti: la coppia e la fedeltà reciproca. È una storia dentro, questa. Così ci ammonisce Thomas, uno dei due protagonisti della storia, che ci avvisa tra le righe della premessa, fornendoci un riferimento ma anche un’avvertenza prima di lasciarci al racconto di Didi, la moglie, sapientemente reso da Francesca Mazzucato, ascoltatrice discreta e confessore compiacente.
Pare appunto di ritrovarsi – ascoltatori spioni arrapati quasi morbosi – al cospetto di un confessionale, non catodico, bensì di quelli delle chiese di paese, in legno scuro, con spesse cortine purpuree a suggellare riservatezza e segreto, intrisi d’incensi e peccati. Al di là della grata, chi siede prende nota, in modo meticoloso preciso quasi scientifico, di una vita fiera e dissoluta, narrata con dovizia di particolari da chi, nonostante le ginocchia doloranti, non pare intenzionato a pentirsi, ma più che altro ad intrigare se possibile, a traviare. Con leggerezza noncuranza spavalderia.
Non c’è solo erotismo in questo libro. C’è qualcosa di più contorto. Leggiamo – è vero – delle vicende della coppia scambista, seguendone la nascita, l’evoluzione e la stasi, attraverso brani incalzanti che travolgono, impediscono di staccare gli occhi e non possono non coinvolgere le viscere, attorcigliandole ad immagini rosse ed acuminate. Immagini che hanno il sapore dei libri del divino marchese, tratte quasi da un boudoir settecentesco, ma rivestito in PVC.
L’erotismo permea la scrittura ma non la limita, si rende invece membrana trasparente, permettendoci di intravedere cosa si celi nelle sue cavità. Scopriamo allora il processo che conduce verso lo scambismo, la curiosità dell’inizio, la brama poi, e la necessità ulteriore di porre steccati e regole a quanto di più sregolato si possa immaginare, per non rinunciarvi. Per non rimanerne soggetti. Ma il dubbio che i protagonisti finiscano col divenirne schiavi consapevoli solo per gioco, rimane. Non mi ha abbandonata fino alla fine.
C’è ansia in questa confessione. Ansia di confessarsi, anzitutto, di essere in qualche modo capiti, confermati ed incoraggiati dall’accorrere di un pubblico prevedibilmente numeroso. Non importa quale sarà il giudizio, solo che se ne parli, che si possa rendere partecipe qualcuno del peso non trascurabile di certe esperienze. La stessa ansia che inizialmente spinge Didi a creare il blog, ad ottenere altri consensi, uscendo parzialmente dalle viscere claustrofobiche, talora fetide, della notte che la vede attrice del proibito, di ciò che “si fa ma non si dice”. Ma questa inquietudine vorace e bulimica, che tutto ingoia salvo poi doverlo rivomitare in scrittura, s’adombra ovunque dalla prima all’ultima riga, penetrando più livelli, mai abbandonando la vita dei protagonisti.
È proprio questo l’impeto che spinge i due a volere sempre di più, a non accontentarsi, a spingersi sempre più in là e poi a perpetuare l’esorcismo sempiterno della crisi. Una crisi di coppia, inevitabile dunque temuta, evocata tante notti e tante notti tramortita e sanguinariamente uccisa, in un rito che vuole essere propiziatorio. Che la allontani, non le lasci spazio né materia da corrodere. È la celebrazione di un ossimoro, l’infedeltà fedele e complice che rivelerebbe una coppia stabile, forte, inattaccabile. Eterna come l’idea stessa dell’amore, che gioca ogni volta con la propria morte, in una sorta di gaia relatività carnevalesca, quale Baktin teorizzò.
Il tradimento, quindi, come oggetto di apologia, qui come nel l’opera di Anais Nin “Una spia nella casa dell’amore”, parallelo che ricorre spesso nonostante siano diverse le motivazioni e le modalità, sebbene in quest’ultimo vi sia un’aura d’ inconsapevolezza che è stata invece completamente sorpassata nelle “Confessioni”. Assolutamente bandita, pericolo latente, in nome della padronanza completa degli eventi e delle situazioni. Poiché si tratta di un gioco pericoloso, dal meccanismo delicato, con regole da non sottovalutare, affinché quell’infedeltà mimata negli scambi, non prenda piede, divenendo un luogo mentale ed assoluto, potenziale bestia che con violenza inaudita scardinerà i portali del tempio dell’amore, violandolo e facendolo tremare o magari crollare.
C’è infatti, a mio parere, una dicotomia di corpo e spirito – piuttosto maschile – sottintesa a questo libro, all’intera vicenda di Didi e Thomas, in virtù della quale il sentimento risiede nella parte mentale e spirituale della coppia, ed il corpo in fondo resta un involucro, certo fondamentale, ma per certi aspetti condivisibile, smerciabile. Come nel “Doppio sogno” di Schnitzler la minaccia più subdola si cela insomma nella possessione mentale, la vera fuga è quella compiuta ad occhi chiusi, attraverso le volute della mente, mentre il nostro partner dorme. Ma non sempre funziona in questo modo, la natura umana non soggiace facilmente a canoni esterni e come si potrà dedurre dalla narrazione, in Didi il dualismo si fonderà ad un certo punto divenendo materia infiammabile.
I protagonisti sono dunque funamboli ubriachi sul filo dell’amore, si prestano ad un gioco accattivante, col coraggio che pochi hanno ma ne sono gestiti e lasciano che sia così, ormai soggiogati dal fascino della perversione in cui si specchiano. Sono poveri esteti, che praticano la bellezza come regola di vita, perpetuandola, sempre timorosi della banalità del quotidiano, continuamente in cerca di qualcosa di meglio che renda completo il quadro patinato che ancora non pare rappresentarli. Una coppia molto borghese, permettetemi un po’ di critica sociale, che sarebbe stata degna protagonista de “Il fascino discreto della borghesia”, quintessenza bunueliana dell’incapacità di godere appieno della vita, nei piaceri anche elementari. Sofisticata in tutto, galleggiante nel proprio vuoto perfettibile.