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Memoria

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Memoria

Il sonno cessò di stringere la sua morsa tiepida e l’uomo si svegliò. Una voce arrivò ovattata, incomprensibile e attraversò la sua mente ancora nel dormiveglia. Prima che riuscisse a distinguere le parole pronunciate dalla voce, essa cessò e l’uomo si svegliò completamente. La memoria era scivolata via, così come il suo senso di sicurezza. Non sapeva dove si trovava, né chi era, né perché era lì.
Riflettè sulle presunte parole della voce, aspettando che il senso di inquietudine crescesse al punto da spingerlo a tentare di capire empiricamente lo stato delle cose. Raccolse le forze rimaste e cercò di alzarsi, ma lo slancio fu troppo rapido e picchiò la testa contro una superficie metallica, ricadendo in ginocchio. Capì di trovarsi, scalzo e infreddolito, chino su un terreno coperto di fango. Immaginò il suo alito sottoforma di vapore. Si mosse carponi in avanti, ma toccò quasi subito un’altra parete metallica. Ritentò verso differenti direzioni ma si trovò ogni volta bloccato.
Cominciò a credere ai propri sensi: era prigioniero, mani legate, bendato. Comprese almeno la parte della realtà all’interno della prigione di ferro in cui, a quanto sembrava, si trovava, e l’inquietudine l’abbandonò, per lasciar posto ad una strana, sconfortante, consapevolezza. Rimase inginocchiato, dilaniato dalle ansie, pensando freneticamente, cercando di ritrovare qualche ricordo nella sua mente e una serie di veloci fotogrammi di soldati e di fitta vegetazione gli attraversarono i pensieri.
All’improvviso la sua attenzione fu attratta da un rumore, qualcosa di simile a una finestra che si apriva e poi chiudeva. Ora qualcuno batteva contro il metallo. "Mangia" fu l’unica parola che sentì. Esitò, poi, preso dalla foga e dalla fame, cominciò, cieco a causa della benda sugli occhi, a sondare il terreno con la faccia in cerca di qualcosa. Trovò una ciotola che quasi rovesciò nel fango, c’era del cibo dentro. Non aspettò altro e cominciò a raccoglierne il contenuto con la lingua. Masticò un paio di volte e si rese conto che quello che teneva in bocca si stava muovendo. Vomitò nella ciotola e si ritrasse con stizza, schifato e pervaso da brividi di ribrezzo. Tentò di urlare degli insulti a qualcuno che probabilmente era rimasto nei dintorni per godersi la scena, ma si accorse di parlare a stento. La lingua era gonfia e le uniche parole che riuscì a proferire furono monosillabi privi di senso. Qualcuno là fuori rise. Qualche grido di scherno, sassi tirati sul metallo. Poi le voci si zittirono completamente. Un rumore stridente di ferro contro ferro e, ancora una volta, una piccola apertura si aprì da dietro il soldato. Tentò di girarsi ma non fu abbastanza rapido. Qualcosa, proveniente dall’apertura, lo punse senza provocare dolore. Tentò di gridare, di supplicare ad alta voce una improbabile libertà, ma ancora una volta le parole non riuscirono a superare l’handicap della lingua gonfia.
Attese in silenzio, sperando di udire qualcosa dall’esterno. I suoi ansimi furono l’unico suono che si sentì per qualche secondo, poi qualcuno riprese a tirare sassi contro la prigione. Nessuna voce. L’uomo pensò di gridare qualcosa, senza possibilità di essere capito, poi cominciò a comprendere che forse non erano sassi quelli che udiva contro le pareti di ferro. I battiti del suo cuore lo confondevano, non sapeva più distinguere i suoni, non vedeva nulla, si sentì male. Nausea e fitte al torace lo costrinsero a terra. Cominciò a respirare affannosamente, la percezione attraverso i sensi si attutì, il mondo circostante divenne una fantasia, solo un insieme di pensieri intricati per una mente sopraffatta dal dolore come la sua.
Sentì il freddo insinuarsi viscido tra le ossa, solleticando le pareti dei polmoni e impigliandosi nella cassa toracica. Come un vecchio serpente strisciò attraverso le sue viscere e lasciò la vecchia pelle nel suo stomaco. I denti cominciarono a battere e si frantumarono cadendo in parte a terra e in parte rimanendo in bocca, scivolando lentamente giù per la gola. Sentì una lama penetrare nella pianta di un piede e cominciare a lacerarne la carne. Si spinse dal tallone fino alle dita e, una ad una le segò via dal resto dell’arto. Gli fu concessa una breve pausa dal dolore, qualche pensiero raccapricciante, poi il senso di freddo tornò a zampettare attorno al collo. Si arrampicò su per il mento e cominciò ad esplorare l’interno della bocca. Sfiorando le gengive sanguinanti e scavalcando la lingua si mosse verso la gola e percorse tutta la laringe, strofinandosi con il suo corpo peloso lungo le pareti di carne, fino ad inoltrarsi nello stomaco per cibarsi della pelle di serpente marcescente. Un calore improvviso crebbe nel suo stomaco, accompagnato da un persistente formicolio, come se centinaia di minuti organismi stessero piano piano logorando le pareti interne del suo corpo. Si dimenò, urlò, tentò di rizzarsi ancora in piedi e di nuovo battè la testa. Svenne e il dolore scomparve.
Per lunghi attimi fu solo buio e assenza di coscienza.
Quando si risvegliò scoprì di trovarsi seduto su di una poltroncina in vimini, sopra morbidi cuscini, nella veranda di una casa di legno. In mano reggeva una tazza di tè, sul tavolino davanti a lui c’erano una teiera e un giornale scritto in una lingua orientale. Non si chiese chi fosse o dove fosse, sorrise solamente, guardando verso l’esterno della casa e ammirando la rigogliosa vegetazione. Abbassò lo sguardo sul suo tè, pronto a sorseggiarne una discreta quantità. Nella tazza, un insetto nero, con molte zampette e il corpo segmentato, si dimenava prigioniero. Per un singolo, mortale istante il terrore sconquassò il cuore del soldato. Con un gesto di stizza buttò la tazza fuori dalla veranda, verso le larghe foglie del sottobosco asiatico.


Emanuele Ravasi

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