Giuliano, in un monastero della Grecia, ripensa al suo passato, alla vita intensa e sofferta che ha avuto. L’essere figlio del defunto imperatore di Bisanzio non è stata una fortuna, ma ha costituito la base del percorso insondabile attraverso il quale, dopo gioie e soprattutto sofferenze, è finalmente approdato alla pace interiore.
Condotto con un ritmo lento, quale si addice a una storia di riflessioni, L’abitudine al sangue non è tuttavia solo la vicenda di Giuliano, dalla gloria quale condottiero e certamente non voluta perché gli ripugna uccidere altri uomini, alla quiete della vita monastica dopo anni in cui ha conosciuto l’amore, ma anche l’orrore della guerra, ha subito torture, si è macchiato di un delitto commesso su sangue del suo sangue.
Infatti questo libro presenta molteplici chiavi di lettura che ne fanno un’opera per certi versi ardita, ma che nel complesso costituisce il positivo esordio letterario dell’autrice.
Premessa indispensabile è che non si tratta di un romanzo storico in senso stretto, perché se è vero che la localizzazione è Bisanzio, capitale del Romano Impero d’Oriente, l’epoca non è esattamente determinata, pur presentando caratteristiche tipiche dell’alto medioevo; anche per i personaggi non vi sono diretti riscontri, pur se in un’attenta analisi alcuni possono essere ricondotti a figure che hanno caratterizzato alcuni secoli di quel periodo.
C’è indubbiamente il tentativo della scrittrice, appassionata di storia bizantina, di fornire l’immagine di quel che era quel lontano impero, caratterizzato da faide nella famiglia regnante con frequenti delitti particolarmente riprovevoli, quali il parricidio e il fratricidio, e in questo senso l’impostazione dell’opera assume i toni di una tragedia che richiamano opere di Shakespeare, in primis l’Amleto. E. come dice Giorgia Lepore nell’intervista, questo è un romanzo di relazioni, fra padre e figlio, fra fratelli, fra figlio e madre, fra uomo e donna, ma soprattutto fra uomo e Dio. Nessuna esclude le altre, ma costituisce una serie di tappe, di anelli di una vicenda che porta al rapporto più importante, a quello che è uno dei maggiori temi dell’opera, cioè alla ricerca in se stessi dell’originario spirito divino per potersi accostare a Dio.
In questo contesto c’è un fatto determinante e che può ricondurre anche all’individuazione dell’epoca; c’erano molte sette eretiche, ovviamente combattute, non solo dialetticamente, dalla Chiesa ufficiale e fra queste ce n’era una che aveva una precisa localizzazione ai confini orientali dell’impero. Questa setta era portatrice di un’eresia da noi conosciuta come paulicianesimo, caratterizzata dal dualismo, che portava a considerare l’esistenza di due Dei, il Dio crudele dell’Antico Testamento, creatore del mondo, e il Dio buono del Nuovo Testamento, artefice dello spirito e dell’anima, e quindi l’unico degno di essere seguito. Ora, il periodo più disgraziato di Giuliano inizia con il rifiuto di fare strage di questi eretici, che sarà poi effettuata poco dopo da un altro generale. Storicamente questo avviene nel X secolo d.C. e quindi il periodo in cui si snoda la vicenda è quello.
Ma il paulicianesimo richiama anche ad altre chiavi di lettura nel rapporto tra padre e figlio, in cui il primo assume le caratteristiche del Dio malvagio dell’Antico Testamento, mentre il rifiuto della violenza e il desiderio di amore di Giuliano finiscono per introdurre alla sua relazione con Dio, laddove, pur credente, e a differenza del priore del convento Johannes, che è stato chiamato dal Supremo, in lui predomina la necessità di non essere scelto, ma di scegliere. La differenza è sostanziale (nel caso di Johannes la chiamata è venuta dal cielo, mentre per Giuliano è frutto di una sua libera scelta) e serve a portare ad ancora un’altra visione dell’opera. La storia è frutto di decisioni assunte secondo il principio del libero arbitrio, oppure è qualche cosa che è già scritto nel libro del destino, senza che noi possiamo interferire con esso? Domanda a cui possono essere date risposte diversamente articolate, ma senza che una possa prevalere decisamente sull’altra.
Giuliano è indubbiamente un personaggio complesso, tanto che Giorgia Lepore lo ha definito una sintesi di “colonne portanti” della storia bizantina, che vanno da Giuliano l’apostata a Basilio II.
Insomma, a un protagonista, che non è mai esistito, è stato affidato il difficilissimo incarico di rappresentare un mondo in più epoche, di nobilitare nell’uomo il senso della vita con una scelta individuale per l’amore verso Dio, di essere così antico e al tempo stesso moderno, anzi addirittura senza tempo.
L’abitudine al sangue, come è possibile comprendere, è un libro che induce a continue riflessioni, e quindi da leggere con calma e attenzione, ma anche da rileggere più volte per scoprire qualche cosa di nuovo, aprendolo al nostro cuore.
Giorgia Lepore, 39 anni, è nata e vive a Martina Franca ma lavora all’Università di Bari, in qualità di assegnista di ricerca presso la cattedra di Archeologia e Storia dell’Arte Paleocristiana e Altomedievale. È inoltre archeologa, specializzata negli scavi presso le chiese rupestri pugliesi, e docente di Storia dell’Arte nelle scuole superiori. Negli anni scorsi ha partecipato a vari convegni nazionali e internazionali e pubblicato numerosi articoli e saggi in riviste specializzate, tra cui alcuni contributi nel volume Puglia Paleocristiana (a cura di G. Bertelli, 2004) e la monografia Oria e il suo territorio nell’altomedioevo (2004). E proprio dai suoi interessidi archeologa e di studiosa di Storia bizantina prende le mosse il suo romanzo d’esordio, ambientato appunto nell’Impero romano d’Oriente nell’Altomedioevo, ma mancano, per precisa scelta dell’autrice, riferimenti topografici e l’indicazione di un arco temporale nel quale si svolge la vicenda.