Venezia 2009
L’organizzazione
La sesta edizione dell’era Marco Müller conferma il buon livello di organizzazione ed il consolidamento di certi schemi ormai affinati. Ovviamente qualche ritardo nelle proiezioni o problemi con i sottotitoli si possono sempre verificare, ma in generale non ci si può lamentare. Quest’anno in particolare, con la partenza dei lavori per il nuovo Palazzo del Cinema, secondo le previsioni da terminare per l’edizione del 2011 durante i festeggiamenti dei 150 anni dalla nascita della Repubblica Italiana, ha mutato l’organizzazione degli spazi e degli accessi alle aree nella zona della Sala Grande. Paradossalmente si è avuto un miglioramento della mobilità generale, con l’inserimento di una nuova sala di circa 450 posti, che ha consentito una maggiore scelta nella selezione delle pellicole. Avendo, quest’anno, posticipato di una settimana il periodo del Festival, su esplicita richiesta degli addetti ai lavori per evitare forzati rientri dalle ferie, sarebbe curioso verificare le presenze rispetto alle precedenti edizioni. Sicuramente si sono notate minori code e meno caos nell’accesso alle sale, probabilmente non tanto per una diminuzione di persone, ma per la maggiore dispersione creata dalla nuova organizzazione degli spazi. C’è stata, ad esempio, maggiore elasticità nelle priorità d’ingresso, che di fatto non è stata mai applicata, a differenza dei precedenti Festival. Anche il pubblico non accreditato, pur non potendo accedere direttamente agli spazi del Festival, ha potuto meglio avvicinarsi al clima della manifestazione, e l’eliminazione di sovrastrutture del Red Carpet, ha giovato a questa situazione.
La selezione
La selezione è stata in linea con le precedenti edizioni. Un discreto livello di pellicole, molte nazioni rappresentate, molti generi, registi giovani e più consolidati, attori esordienti e star di Hollywood. Ed il direttore Marco Müller amabile padrone di casa.
La politica è da sempre un aspetto importante delle opere presentate al Festival di Venezia. Quest’anno le pellicole come quella di Michael Moore “Capitalism: A Love Story” e per alcuni aspetti “The Informant!” di Steven Soderbergh, od il documentario di Oliver Stone, “South Of The Border”, sul presidente venezuelano Hugo Chávez, si sono interrogate sul capitalismo, sugli effetti disastrosi dell’eccessivo liberismo del sistema finanziario, e di come il governo degli Stati Uniti abbia sempre cercato di imporre la propria economia ai paesi sudamericani ed in generale a tutto il mondo globalizzato. In particolare Moore, mette in discussione l’idea, da sempre condivisa dalla politica americana, che il capitalismo rappresenti il miglior sistema economico che può esprimere una società democratica. Partendo proprio dagli ultimi crack finanziari, il regista si avvicina a quella che rimane l’essenza di una società capitalistica controllata dalle Corporation, denaro ad ogni costo sopra tutto e tutti, dimostrando che contrariamente a quello che si è sempre affermato, il capitalismo va contro a quei concetti di libertà, solidarietà ed onestà che invece faceva propri associando il proprio modello, ad esempio, ai valori cattolici. In un mondo globalizzato, dove gli Stati Uniti non rappresentano più l’unica potenza economica di riferimento, leadership che era nata soprattutto nel periodo dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando le nazioni concorrenti erano state spazzate via dal conflitto bellico, si manifestano difficoltà economiche al proprio interno, creando diseguaglianze sociali e comportamenti illeciti nei confronti dei propri cittadini. E la politica interviene con atteggiamenti aggressivi verso paesi che possono rappresentare mercati e risorse. Nel documentario di Stone, è ben chiara come la storia sudamericana degli ultimi cinquant’anni, dalla Rivoluzione Cubana in poi, è stata pesantemente indirizzata dall’influenza americana, con l’appoggio a governi fantoccio ed il sistematico boicottaggio di governi eletti dalla maggioranza della gente. In questo preciso momento storico, dove molti stati sudamericani, i cosiddetti paesi bolivariani (perché si rifanno alla figura di Simón Bolívar), hanno eletto dei leader di sinistra, il governo degli Stati Uniti, attraverso la stampa e l’opinione pubblica, crea nuovi demoni da combattere, nel nome della libertà e della democrazia. È interessante vedere nel documentario riuniti insieme tutti questi leader, nell’intento di creare un giorno un’unione sudamericana, che vada al di là dei confini dei singoli stati.
Altro aspetto politico del Festival, ed inevitabile, visto i recenti fatti, è stata la questione iraniana, rappresentata in questa edizione da un paio di pellicole: “Ruzhaye Sabz (Green Days)” di Hana Makhmalbaf e “Zanan Bedoone Mardan (Women Without Men)” della regista Shirin Neshat, pellicola, quest’ultima, premiata con il Leone d’Argento per la migliore regia. Il film descrive il momento storico che porterà poi alla Rivoluzione Islamica in Iran, attraverso l’analisi della figura di quattro donne.
Il dibattito politico ha riguardato anche casa nostra, soprattutto con la versione personale che Michele Placido fa del suo 68, “Il Grande Sogno”, pellicola autobiografica che descrive quel particolare momento storico reso famoso dagli scontri di Valle Giulia (criticati fortemente da Pasolini), quando un giovane Michele Placido, poliziotto emigrato a Roma con sogni di attore, cominciava ad avvicinarsi e a capire quel mondo che si ribellava contro il Vietnam e le ingiustizie sociali. Al di là degli aspetti formali e soprattutto storici che non danno niente di più a quanto già si sapeva del periodo e che, francamente, andrebbe abbandonato a favore di argomenti più legati alla quotidianità, la discussione politica si può tranquillamente archiviare con due momenti della conferenza stampa qui al Lido: Carlo Rossella che dichiara di “aver fatto il 68” ed il regista Michele Placido infuriato con una giornalista spagnola che gli chiede perché il suo film fosse distribuito da Medusa (Berlusconi). In un Festival che ha tristemente concesso la passerella anche a Papi-Noemi e Patrizia D’Addario, una pellicola come “Videocracy (Videocrazia)” del regista italo-svedese Erik Gandini, che analizza la televisione commerciale italiana degli ultimi trent’anni e gli aspetti politici e dell’informazione ad essa legata (tuttora nelle sale con grande successo), od il doc-film “Di me cosa ne sai” di Valerio Jalongo, che analizza invece parallelamente il declino cinematografico italiano degli ultimi trent’anni, e dove per alcuni aspetti la televisione ritorna (profetiche e suggestive le interviste a Fellini che contestò fortemente, all’epoca, l’inserimento della pubblicità televisiva che interrompeva i film), inevitabilmente prima o poi sarebbero state girate, anche se tristemente inutili nello scopo di risvegliare le coscienze. Meglio forse allora rifugiarsi in una pellicola come “Cosmonauta” di Susanna Nicchiarelli (Premio Controcampo Italiano) e rimpiangere l’epoca in cui si era comunisti e si sognava un mondo migliore andando nello spazio.
Ma la selezione non ha proposto solo politica. Da segnalare pellicole come “Lourdes” di Jessica Hausner, in concorso, ironica e distaccata visione della fede e nel suo rapporto con i miracoli; “The Men Who Stare At Goats” del regista americano Grant Heslov, divertente commedia antimilitarista con un cast d’eccezione, George Clooney, Ewan McGregor, Kevin Spacey, ed uno spettacolare Jeff Bridges in versione grande Lebowski; “Det Enda Rationella (Una Soluzione Razionale)” di Jörgen Bergmark, gelida commedia svedese, in uscita ora nelle sale, dove i protagonisti, comici nella loro tragicità, devono soccombere alla razionalità dei propri atteggiamenti, incapaci di controllare le passioni che li divorano. Alla selezione di Venezia, rivestono particolare importanza i documentari, numerosi e spesso interessanti. Fra i tanti di questa edizione ne vorrei segnalare uno che mi ha particolarmente colpito e che probabilmente non si vedrà mai, solamente forse su qualche tv tedesca satellitare: “Villalobos” del regista tedesco Romuald Karmakar. Ricardo Villalobos, cileno di nascita, ma trasferitosi con la famiglia in Germania all’età di tre anni, è un dj molto famoso a livello internazionale per il genere house. Questo documentario lo ritrae mentre lavora in studio ed in alcune performance dal vivo. Per chi fino ad ora pensava, come me, che fare il dj fosse un semplice lavoro di missaggio, si dovrà ricredere. Il lavoro che sta dietro ad una performance dal vivo ed in particolare la passione che Villalobos mette nel suo lavoro, nella ricerca dei suoni e della loro purezza, mi ha molto affascinato. Consigliato, se ne avete la possibilità.
Ultime considerazioni le merita il cinema italiano visto qui al Festival. Se per i film in concorso la maggioranza degli spettatori non ha bocciato le opere presentate, e sicuramente non si è assistito ai disastri di alcuni lavori proposti negli ultimi anni, si è ancora comunque lontani rispetto ad altre cinematografie. In generale, non si riesce ad esprimere ancora un cinema brillante, gli argomenti hanno in sé una pesantezza strutturale che li rende poco commestibili, troppo legati al passato, ancora fissati sull’analisi di problemi familiari, sul male di vivere nella società che ci circonda, e ci si può stupire positivamente se una pellicola come “La Doppia Ora” di Giuseppe Capotondi, sia sorprendentemente associabile ad un thriller. In fondo il premio ad un film dell’anno scorso come “Pranzo di Ferragosto”, ha dimostrato che si può fare buon cinema senza grandi mezzi, con una buona idea e non necessariamente drammatico.
I premi
In generale, i riconoscimenti assegnati quest’anno sono sostanzialmente condivisibili. La politica dei premi, al Festival di Venezia, è quella di accontentare un po’ tutti, quindi particolari contestazioni non si possono fare, anche se ogni anno ci si lamenta perché i film italiani non vengono premiati (ma in realtà quando meritano, qualche premio lo prendiamo anche noi, es. “Pranzo Di Ferragosto”, “Nuovomondo”). Ho già accennato ai film italiani in concorso, posso solo aggiungere che rispetto ad altre cinematografie siamo evidentemente indietro, e fin che sarà così, non rimarrà che rassegnarci ai premi per gli attori: Premio Marcello Mastroianni a un giovane attore o attrice emergente a Jasmine Trinca nel film “Il Grande Sogno” e Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile a Ksenia Rappoport nel film “La Doppia Ora”. Scontato, per la bravura, il premio come miglior attore, assegnato d’ufficio alla fine della visione, a Colin Firth nel film “A Single Man” di Tom Ford.
Il Premio Speciale della Giuria a “Soul Kitchen” di Fatih Akin, è strameritato perché, al di là delle valutazioni artistiche per una pellicola che è semplicemente una commedia, intelligente, ben girata, ma senza particolari contenuti politici o sociali, è giunta in sala come una liberazione dopo una settimana di film spesso pesanti e a volte opprimenti. Chiaramente la visione ha creato un effetto euforia che può aver falsato in positivo il giudizio complessivo, ma comunque ha riportato ad una dimensione più leggera il contesto del Festival ricordando che un cinema di qualità, anche all’interno di un Festival Internazione, non deve trattare necessariamente solamente argomenti seri o drammatici. Il Leone d’Oro per il miglior film a “Levanon (Lebanon)” di Samuel Maoz (Israele, Francia, Germania), è condivisibile, per l’importanza dell’argomento, la prima guerra del Libano, e per la particolare costruzione cinematografica. Riguardo al Leone d’Argento per la migliore regia a Shirin Neshat per il film “Zanan Bedoone Mardan (Women Without Men)”, di cui si è parlato precedentemente, è chiaramente un premio politico, visto la situazione iraniana, e credo che ci possa stare, anche se personalmente non ho particolarmente apprezzato la pellicola, considerando il cinema anche un veicolo politico e di denuncia. Credo che la pellicola di Michael Moore avrebbe meritato almeno un premio. Anche se ha utilizzato una costruzione standard per il suo tipo di cinema, il documentario inchiesta sulla situazione americana contemporanea, alternando notizie dell’attualità con filmati d’epoca, il tutto condito con molta ironia, ho trovato questa pellicola migliore rispetto agli ultimi suoi lavori (“Fahrenheit 9/11” e “Sicko”), ed interessante l’analisi sul sistema capitalistico nella società americana contemporanea.
Unico vero rimpianto in un Festival che ho apprezzato, è stata l’impossibilità di vedere l’ultimo film di Todd Solondz, vincitore del premio Osella per la migliore sceneggiatura con la pellicola in concorso “Life During Wartime”, geniale e politicamente scorretto regista americano, uno di quei personaggi i cui lavori difficilmente vedono la luce nelle sale italiane, e si è già fortunati nel vederli ai Festival. Speriamo che il premio possa aiutarlo ed aiutarci.
I peggiori
Ero incerto se segnalare le pellicole più deludenti della Mostra di quest’anno, ma ho optato di mettere in guardia chi per caso dovesse incrociarle in sala. Da evitare il film egiziano “Al Mosafer (The Traveller)” di Ahmed Maher, che potrebbe anche essere distribuito, facendo leva sul nome e sulla locandina di Omar Sharif, attore che probabile che non riuscirete neanche a vedere, comparendo infatti solamente nell’ultima parte del film, quando voi ormai sarete già usciti. Fra la schiera degli italiani presenti quest’anno in concorso e non, la più irritante e deludente è stata la pellicola di Luca Guadagnino, “Io Sono l’Amore” (e non solo per l’ennesimo titolo italiano con la parola amore), che nonostante un ottimo cast e la presenza della magnifica Tilda Swinton, qui in versione russa, è riuscito a rovinare una pellicola partita con buone premesse, ma risolta perdendosi in un finale melodrammatico e scontato, costringendoci però prima ad una serie di immagini stile “quaderni pigna” (per chi se li ricorda). Fra i registi già conosciuti, si possono segnalare il nuovo capitolo di Tetsuo, di Shinya Tsukamoto, “Tetsuo The Bullet Man”, rapidamente da archiviare come oggetto inutile alla prosecuzione della saga (ma è davvero necessario continuare il filone? Non si era già detto tutto), e “Repo Chick”, di Alex Cox, film non comico, non particolarmente irriverente, non punk, non visionario. Vorrebbe esserlo, ma non ci riesce. Sostanzialmente superfluo.
Il Festival che non capisco
– La polizia in assetto antisommossa. Capisco che dall’undici settembre 2001, l’organizzazione abbia attivato controlli e creato zone di accesso esclusive per gli accreditati, a sicurezza delle aree del Festival, e che questo, in qualche modo, ha contribuito a migliorare la fruizione degli spazi e dell’evento. Capisco anche che nel corso degli anni, ad allarme terrorismo placato, i controlli si siano fatti meno serrati, anche se le forze dell’ordine siano comunque rimaste sempre presenti in maniera rassicurante nelle aree dell’evento. Perché, allora, avere ancora l’appoggio del numeroso gruppo di polizia in assetto anzi sommossa? Dobbiamo proteggere la passerella dalla “folla” dei fan (bastano già le transenne), oppure difenderci dai gruppi di protesta, esempio insegnanti, che periodicamente vengono al Lido in questa occasione, per avere visibilità mediatica?
– Il presenzialismo forzato delle pseudo starlet televisive o del gossip politico (Noemi e D’Addario sopra tutte), ma anche Afef o Ventura. Va bene l’evento mondano, ma loro cosa centrano con il cinema? Sono già più che sufficienti gli attori, i registi, e le star di Hollywood che si alternano sul Red Carpet, ed un Ligabue in Giuria, per avere il richiamo mediatico. Non abbiamo bisogno di altro.
– La poca elasticità degli accreditati. Capisco che l’accreditato debba sopportare lunghe file agli accessi, e spesso non riesca nemmeno ad accedere, capisco che alcune sale ricavate possano essere non perfettamente funzionanti, impianti di climatizzazione troppo freddi o troppi rumori esterni alle sale, ma trovo eccessivo cercare ogni occasione per prendersela, soprattutto se a puro scopo di rivalsa, con l’organizzazione di un Festival di questo tipo, una macchina complessa che deve coordinare molti film e molte delegazioni, nonché garantire accessi umani ad un pubblico numeroso. Non è possibile fischiare e sollecitare una delegazione che rimane fuori dalla sala pochi minuti per le fotografie di rito, “costringendo” il pubblico a ritardi della pellicola di ben dieci minuti. Credo che, alla fine di un Festival, anche l’accreditato culturale più sfigato, con un minimo di organizzazione, riesca a vedere la maggior parte delle pellicole proposte. O perlomeno negli ultimi anni è stato così.
– I luoghi comuni. È mai possibile che il Festival di Venezia sia ogni anno un immenso luogo comune? Gli addetti ai lavori di Roma che sembrano usciti dai “Cesaroni”, i pizzettari di Napoli, i fotografi stile ultras che invocano le star a colpi di grida dal vago accento inglese, cui fanno seguito dei “buuh” se le star si concedono poco, le forze dell’ordine che pomodoreggiano con le addette alle sale. Portale Italia. Mancano solo i mandolini…