I giorni se ne andavano pigri, lenti e disgraziati. Me ne stavo steso, con le braccia conserte e sudavo. Pensavo alla bottiglia vuota sulla moquette, con gli occhi che puntavano il soffitto. Aspettavo la fortuna, una donna o un amico. La solita inutile attesa che m’intorpidiva l’anima. Già, l’anima. A che serviva l’anima? Non l’avevo mica capito. Mai curata. Sì, perché anche l’anima s’ammala. Dipende da come la trattano. La mia non valeva molto. Gli anni in Danimarca l’avevano segnata e non poteva più stare con le altre. Me l’ero giocata a dadi e avevo perso.
Mi avevano avvertito. È delicata, corporea e palpabile. All’inizio non ero sicuro, poi riflettendoci, gli diedi ragione. L’anima si può tastare, fiutare, appendere ad un chiodo e proseguire senza. In tanti lo fanno. Li vedo per strada quando camminano vuoti, con un sorriso stampato e ipocrisia celata da vaghe ambizioni.
Le donne senz’anime sono le più comuni. Hanno simboli fallici tatuati dietro i sederi e i cervelli di glicerina. Quante ne ho scopate! Italiane, spagnole, francesi, inglesi, danesi, etc.. Tanti coiti per non arrivare a nulla. Succhiavano la vita come carta assorbente. Dopo le gettavo come mozziconi nella cenere dei ricordi e tiravo avanti.
Non ero il solo a pensarla così. Ne ho incontrati molti. Farzam fu il primo: un concentrato d’allegria; poi arrivarono Sadi, Thimo e Andrea. L’ultimo Jan Vinte, danese. Drinkava una birra dietro l’altra senza mai ruttare. Era un’anima sensibile. Applaudivamo sconcertati senza che nessuno fosse mai riuscito ad eguagliarlo. Farzam tentò un pomeriggio. Bevve cinque litri di birra e passò la notte ad orinare sulla tazza. Il mattino seguente non poté alzarsi perché le gambe erano rosse e gonfie.
Conoscevo anche donne in gamba. Studiavano italiano all’Aarhus Universitet. Le incontrai per caso, quando mi chiamarono all’International Student Centre per organizzare una festa italiana. Mi venne da ridere. Non sopportavo la gente ben vestita e impacciata, con gli sguardi furtivi in cerca di donne, i bicchieri di birra nella mano destra e incapaci di simulare espressioni intelligenti sui visi di cartone. Ad ogni modo ci lavorai al meglio, ma non fu un successone. La musica italiana fece cagare anche i freddi scandinavi. Rimasero tutti seduti ed immobili.
Non la presi male perché i ristoratori italiani sponsorizzarono i beveraggi. Ne ebbi per una settimana.
Lene mi guardava sbalordita. Non credeva che un italiano potesse bere tanto. Alla fine di ogni bicchiere la prendevo e piroettavamo sulla pista, con la camicetta di raso sbottonata e i seni raccolti dal bra. Purtroppo l’alito le puzzava di Tantum Verde e non la baciai. Non si sposava con il vino rosso.
Lei insistette. La fissavo negli occhi, mentre lei avvicinava la nuca. Tentai, ma fu inutile. Preferivo l’amicizia e le amiche. Mi presentò Mia e Neel. Mia aveva gli occhi che quasi ipnotizzavano. La guardavo come un ebete. Cristo che donna! Anche Neel si difendeva! Era di poche parole. La bocca pareva dipinta. Quando ballava si strofinava al punto di accenderti.
Le ero solo simpatico. Si limitava a baciarmi, ma a scoparmi manco a parlarne. Le interessavano solo i tedeschi. La nonna le raccontò come un militare tedesco delle squadre d’assalto l’avesse violentata a tredici anni. Ascoltava i particolari erotici tutti i fine settimana e ne rimase affascinata. Da allora solo teutonici alti, muscolosi e biondi. Al confronto ero un bacherozzo sfigato.
Non fu un problema. Le altre me la fecero dimenticare.
Poi conobbi Abdullah il marocchino, fisico scheletrico e snodato. Il cranio era rasato e le orecchie sventolavano come bandiere. Lo avevo sempre tra i piedi. Non mancava d’incontrarlo nella Kantine1 dell’università o all’I.S.C.
All’inizio pensavo che fosse per rimorchiare. Ci aveva quasi convinto. Le avvicinava tranquillo, sicuro, con l’andatura sciolta e molleggiata, poi le bloccava alzando il palmo destro. Andavano pazze per lui. Lo trovavano sensuale, dolce e avvenente. Per me era mezzo frocio. Parlava sempre a tre centimetri dal naso. Avrei potuto leccarlo per vedere se era di cioccolata.
Una volta Edoardo si chiuse in bagno con lui perché voleva farselo, ma gli andò male. Provò a palpeggiarlo e accarezzarlo mentre orinava, poi uscì dal bagno nero e fumante, si fermò davanti una colonna portante di cemento e batté la testa per un’ora buona.
Abdullah ne aveva messi parecchi fuori gioco. Un vero figlio di puttana. Prima provocava, poi si nascondeva dietro un sorriso amichevole.
Volevo essergli amico perché avevo da imparare.
Un giorno non ce la feci. Lo bloccai davanti al muro e glielo chiesi.
"Che cazzo ci fai in Danimarca? Avanti parla!"
Stette a fissarmi con le pupille nere che si muovevano nelle orbite rosse. Faceva paura. Mi poggiò una mano sulla spalla e sorrise.
"Wilem!", esclamò con esitazione, "Certe cose è meglio non saperle."
Andai su tutte le furie.
"Dimmi cosa ci fai qui!"
Alitò e puzzava come se masticasse vermi.
"Allora?"
"D’accordo. Te lo dico. Ti consiglio però di non farne parola con nessuno. Potresti pentirtene."
"No te preocupes!", ribattei convinto.
"Ho un giro di droga."
Per così poco…
Scoppiai dal ridere e lo abbracciai.
Thimo lo conobbi al corso di danese, a gennaio. Partecipai perché era gratuito e conoscere la lingua mi avrebbe aiutato. Thimo era lì da nove mesi e non parlava ancora dansk. Io capitai negli Intermediates e lui tra i beginners.
Una mattina facemmo il giro del centro con tutto il gruppo. Lui mi camminava vicino, mentre dispensava consigli su come rimorchiare. Non me ne andò bene uno. Mi mandavano a quel paese una dopo l’altra. Feci a modo mio. Le presi direttamente dalla pista, dopo che avevano ingollato litri di birra. Thimo non fu da meno. Andava al bar e offriva da bere. Faceva l’intellettuale. Parlava di ragni e loro ne rimanevano affascinate.
Odiavo gli aracnidi. Ce n’erano troppi nella mia stanza. Ne ammazzavo uno dopo l’altro, ma raddoppiavano come in un maledetto videogioco. Colpa del riscaldamento, dicevano. Così cominciai a dormire con la finestra aperta. L’estate lottavo con le mosche, a settembre con gli acari.
A Thimo andò peggio. Conobbe una finlandese di Turku, alta e formosa. Quando andava in bicicletta, i seni poggiavano sul manubrio. Un’elefantiasi credo, ma n’era valsa la pena. La chiavò per un mese, poi smise perché gli attaccò le piattole. Camminava grattandosi le palle come un gibbone in calore. Poi partì per l’Africa e non ne seppi più nulla.
Sadi era una persona speciale come tutti gli arabi. Se non fosse stato per loro, non so come sarebbe finita. Mangiavamo assieme perché i miei soldi andavano via con il bere. Loro le conoscevano queste cose. C’erano passati e la comunità li aveva aiutati. Io non appartenevo a nessuna comunità. Ero un senza Allah, come sosteneva Ali.
Farzam era tra i migliori. Sadi lo seguiva di un paio di distanze, perché bloccato dalla famiglia e da amanti che reclamavano la loro dose d’amore giornaliera. Appariva all’improvviso come uno Yeti dalle nebbie, con una bottiglia di spumante, una stecca di sigari e un programma mensile delle migliori discoteche. Quando non era in giro, andava in Germania per affari. Così raccontava alla moglie. La verità non era lontana dal sospetto. Si vedeva con la migliore amica della consorte. La vidi in fotografia. Aveva circa diciotto anni, avvolta da un lenzuolo turchese e un sorriso pronunciato che celava il dolore per la vita. Lo immaginavo scoparla nella vecchia B.M.W., con i sedili sfondati e la spugna che si sbriciolava ad ogni stantuffata.
Ma c’era un problema.
Tutte le fiche che Sadi scopava erano senza clitoride. Questo è quello che alcuni arabi fanno alle donne.
Ma Sadi era convinto che godessero. E ne parlava felice.
Beato lui.
A me invece non rimaneva che l’alcol, lo stress e un fegato spugna, che certe mattine faceva un male cane.
Così mi limito a starmene steso, fissare il soffitto e ricordare.
Inquietudini
Piergiorgio Leaci