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Il vecchio che leggeva romanzi d’amore

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Il vecchio che leggeva romanzi d’amore

Il periodo delle feste natalizie coincide solitamente con un’offerta cinematografica qualitativamente inadeguata. Quest’anno, eccezionalmente, si è visto anche qualcosa al di fuori delle solite proposte commerciali, capitanate senza dubbio dal piccolo capolavoro di Aki Kaurismaki "L’uomo senza passato", anche qui particolarmente ispirato, un concentrato di ironia con un’incredibile carrellata di personaggi surreali, oppure la pellicola inglese "Sognando Beckham" (in verità film un po’ troppo leggero), commedia che racchiude in sé temi cari alla cinematografia anglosassone, il calcio ed il rapporto delle nuove generazione indo-londinesi con la propria tradizione familiare e la società in cui vivono. Mi interessava parlare però, di un’altra piccola pellicola, passata o in passaggio in alcune sale d’Essai, "Il vecchio che leggeva romanzi d’amore" di Rolf de Heer, tratto dal romanzo omonimo di Luis Sepulveda, e curioso caso cinematografico, essendo non l’ultimo lavoro del regista olandese (ma australiano di adozione), ma il penultimo, ripescato dopo le lusinghiere critiche veneziane della sua ultima fatica, "The Tracker".
In un remoto villaggio della regione amazzonica degli indios Suar, El Idilio, vive un uomo bianco, Antonio Josè Bolìvar, un sessantenne che ormai tutti conoscono come "Il vecchio", arrivato in questi luoghi incontaminati molti anni prima, spinto dalle promesse del proprio governo di un’illusoria nuova vita.
Il Vecchio è un
personaggio strano: vive solo in una piccola capanna costruita da lui su un terreno che lui si è scelto, sopravvissuto a vent’anni di giungla, che però non ha risparmiato la moglie, uccisa dalla malaria all’inizio della loro avventura, salvato da una tribù di indios, che lo ospita e lo accetta nella loro comunità, insegnandogli a vivere in quell’ambiente apparentemente ostile. E il suo destino sarebbe legato per sempre a loro se proprio la colonizzazione di quei luoghi dell’uomo bianco non lo separasse traumaticamente dalla sua nuova "famiglia".
Ed è da allora che il Vecchio vive solo, e sembra abbia trovato il modo per sopravvivere alla giungla ed hai propri infelici ricordi: la lettura, scoperta quasi per caso, e fortificata dalla conoscenza della bella Josefina, cameriera del volgare ed odioso sindaco Luis Agalla, nonché prostituta del villaggio, che lo rifornisce di romanzi d’amore, i suoi tesori. Fa da tramite a questo rapporto l’unico amico del Vecchio, Rubicondo il dentista, donnaiolo e fortemente riluttante allo stato ed a qualsiasi autorità che lo rappresenta.
La vita del Vecchio procede tranquillamente fra la lettura di nuovi romanzi d’amore, che accrescono anche la passione per Josefina, ed i ricordi che gli evocano, finché un giorno, un cacciatore di pelli americano viene trovato morto nella giungla da un gruppo di Indios. Accusati immediatamente dal sindaco come esecutori dell’omicidio, sarà proprio il Vecchio Bolivar a farli immediatamente scagionare: il cacciatore è stato ucciso da un giaguaro, precisamente la madre dei piccoli cui lui aveva massacrato e tolto le pelli. Ma un giaguaro ferito che ha assaggiato il sangue e l’odore umano non si ferma, ed infatti in pochi giorni ci sono altre vittime. A questo punto diventa necessaria una battuta di caccia, ed il Vecchio viene obbligato a fornire la propria esperienza nella
cattura e nell’uccisione dell’animale. Questo nuovo e forse ultimo viaggio per il Vecchio, rappresenterà una sorta di resa dei conti anche con il proprio passato ….
Il film non è clamoroso anche se Richard Dreyfuss, nei panni del Vecchio Bolivar, ne rende bene i contorni e le sfaccettature. La storia è un po’ troppo romantica, sia nel contesto, che nei personaggi, ed a volte può risultare un po’ fastidiosa. Apparentemente il parallelo con un film-romanzo come "Il vecchio ed il mare" sembra scontato, anche se la simbolica lotta fra l’uomo solo e l’animale, racchiude una ricerca che non è solo sopravvivenza, è anche espiazione di errori passati e volontà di chiudere con la propria cattiva coscienza per passare ad una tranquillità spirituale completa e all’amore. Questa pellicola è resa più interessante nel messaggio soprattutto se accostata al suo ultimo lavoro, "The Tracker". Rolf de Heer rappresenta un caso tipico nella cinematografia italiana. Regista di grande talento, e letteralmente esploso con il film "Bad Boy Bubby", vincitore con questa pellicola del Premio Della Giuria alla Mostra di Venezia del 1993, ha continuato nel corso di questi anni a girare una discreta quantità di materiale cui è stato lasciato poco spazio in una normale programmazione cinematografica. Ci siamo trovati così di fronte, rispetto ai suoi primi film tesi ad analizzare i complessi rapporti all’interno di situazioni familiari "particolari" (il già citato "Bad Boy Bubby", "La Stanza di Cloe", "Balla La Mia Canzone"), con questi suoi due ultimi lavori, ad un Rolf de Heer impegnato in un tema di estrema modernità, il distruttivo rapporto che c’è ora fra il nostro ricco mondo occidentale, con le altre popolazioni del globo, a netta maggioranza di individui poveri, e con la natura che ci circonda, rapporti da sempre fatti di sfruttamenti economici e di predazioni di elementi naturali e culturali. De Heer torna forse con queste due pellicole alle origini di questa nefanda distruzione, analizzando due paesi cosi distanti fra di loro come l’Australia ed il Sud America, e le loro popolazioni di origine fortemente integrate nella natura che le circondava, appestate dal mondo occidentale e ridotte a poca cosa. In entrambe le pellicole la nostra "civiltà" è simbolicamente rappresentata da un ragazzo non ancora corrotto e da un vecchio che tanti anni di esilio hanno depurato della componente conquistatrice, e loro diventano testimoni finalmente credibili, perché provengono da lì, della follia del loro mondo (che è poi il nostro). Un messaggio quasi profetico nella realtà che ci circonda oggi, destinata, distruggendo il resto, a distruggere se stessa. Ancora il cinema testimone e specchio crudelmente fedele. Poche le speranze, perché De Heer parte proprio dal passato, e ci si accorge che nulla è mutato. Vedremo …..

Andrea Leonardi

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