KULT Underground

una della più "antiche" e-zine italiane – attiva dal 1994

Il figlio

7 min read

Fratelli Dardenne, 2002

Olivier, proprietario di una falegnameria che è centro di formazione professionale, accoglie tra i suoi allievi il sedicenne Francis (che proviene da cinque anni di riformatorio), pur sembrando essere a conoscenza del rapporto esistente tra questo ragazzo e l’assassinio, avvenuto cinque anni prima, di suo figlio adolescente. Macchina a mano fluida a ridosso dei personaggi, assenza di musica; un verace realismo, fatto di sguardi. I Dardenne lavorano per sottrazione, e arrivano al coinvolgimento attraverso l’essenzialità, l’asciuttezza dello stile. Braccato dalla cinepresa, Olivier è inseparabile dalla suspense colma di pathos che imbeve lo spettatore, inducendolo a vivere insieme a lui il dilemma morale che, progressivamente, si definisce.
 
1. La paternità come scopo di vita – attraverso uno scandalo.
La paternità è il tema centrale di questo formidabile film, tra i meno noti dei fratelli Dardenne, vincitori di due palme d’oro (Rosetta, 1999; L’enfant, 2005), e creatori di un cinema tanto “rigoroso” e asciutto nello stile, quanto più “bressonianamente” denso di valori morali.
La paternità. Più esattamente, il rapporto con il proprio passato, e soprattutto con il proprio futuro, in relazione all’educazione alla vita di un “figlio”, quale esperienza in cui la propria stessa vita acquista un fine e un senso.
La circostanza da cui questo tema trae spunto è il ritorno di un “vissuto interrotto” (che resta fuori dal film, nel passato, ma che si intuisce attraverso i confronti/scontri fra Olivier e la sua ex moglie), sotto la forma “scandalosa” di un padre che – dapprima confusamente – sente ridestarsi dentro lo spirito di paternità, e infine sembrerà ritrovare un figlio proprio nell’assassino del proprio figlio. Si è detto “scandalosa”, laddove “fare scandalo” è da intendersi propriamente in senso “evangelico”, per cui la fede – o più in generale il credere a uno scopo, a un senso esistenziale – si dà attraverso uno “scandalo”: vedi Kierkegaard, e vedi, nel cinema, tra gli altri, i danesi Dreyer (Ordet) e Von Trier (Breaking the waves – Le onde del destino).
 
2. Dilemmi morali.
Come negli altri film dei Dardenne, il film racchiude un dilemma morale. E la possibile soluzione di questo dilemma la si intravvede soltanto nell’ultima inquadratura, fortemente simbolica – le travi di legname che si avviano ad essere legate fra loro. Suggerita questa soluzione, il film bruscamente termina, senza preavviso.
Il rapporto maturo di loro due avrà inizio di lì. Appena la pellicola termina, supponiamo debba avere inizio la vera storia che riguarda i due personaggi: la sfida-scommessa esistenziale, per il padre, di tornare a essere padre (nella forma di “tutore” e insegnante di un mestiere concreto come quello di falegname), e, per il figlio, di diventare adulto provando a lasciarsi alle spalle tutto ciò che immaginiamo possa aver vissuto fino a quel momento (fino a poco prima che la pellicola termina, è ben lontano da esserselo lasciato alle spalle. Ha detto che “gli dispiace certo”, per quello che ha fatto, soltanto perché “cinque anni dentro non sono uno scherzo”).
Il dilemma morale sta ovviamente nello scandalo che Olivier stesso prova nei confronti del proprio istinto, che lo porta ad avere attenzione per l’assassino di suo figlio: un istinto che si evolve, nel corso del film, da quella che probabilmente in origine è solo morbosa curiosità, e rischia anche di trasformarsi in sentimento di rivalsa, in un abbozzo di istinto paterno, passando attraverso il bisogno di “capire” come possa un ragazzino uccidere un altro ragazzino.
 
C’è poi un altro dilemma, strettamente connesso al primo.
La figura della ex moglie esercita una notevole influenza morale. Perché Olivier le mente, la prima volta? Perché ha paura che lo scandalo e il rigetto che potrebbe avere la madre del figlio assassinato, nei confronti di quello che sta facendo, siano giustificati. Cioè Olivier pensa di star facendo qualcosa di male. La sua progressiva convinzione di non far nulla di male, lo porta a confessarlo alla ex moglie. Ammettendo comunque di non sapere “perché” lo stia facendo. Avvenuto questo, la ex moglie scompare dal film. Insieme con lei, sparisce il vincolo morale che Olivier ancora sentiva e che lo bloccava. D’ora in poi, grazie al fatto di averlo detto a lei, si emanciperà dal vincolo costituito dalla consapevolezza di far del male alla ex moglie, disposto a perderla definitivamente non potendo assolutamente lei comprendere le vicende interiori che lo porteranno – è presumibile – ad accogliere la richiesta del ragazzo, divenendone tutore.
 
3. Svolte drammaturgiche.
Se ci si concentra sulla focalizzazione del racconto e sulle svolte drammaturgiche, notiamo che il film è strutturato in tre parti.
1) la prima parte si conclude quando lo spettatore è finalmente messo a conoscenza (dopo 33 minuti di film – un terzo del film) del fatto che il ragazzo è l’assassino del figlio di Olivier. Tale rivelazione avviene casualmente attraverso le parole dell’ex moglie di Olivier, quando questi la va a trovare a lavoro alla pompa di benzina.
2) da questo momento, smettiamo di interrogarci “alla cieca” su Olivier e su quale sia il motivo del suo interesse per quel ragazzo, e sul motivo dei suoi atteggiamenti turbati e contrastati. L’attenzione dello spettatore si allarga (non si sposta, ma si allarga) al ragazzo. Lo spettatore adesso si chiede: cosa vuole veramente Olivier? E inizia anche a “temere” vagamente che voglia fare del male al ragazzo, si preoccupa per lui. Nasce così una suspence (di marca classica, hitchcockiana), in cui lo spettatore sa qualcosa che uno dei personaggi principali (il ragazzo) non sa, qualcosa di potenzialmente pericoloso per lui. In questo modo, inoltre, i Dardenne ci impediscono di provare mai orrore per quel ragazzo, e ci permettono di sentirci vicini a lui: cosa che non sarebbe accaduta se ci avessero messo subito al corrente che quel ragazzo è stato autore dell’assassinio di un coetaneo.
3) la terza e ultima svolta drammaturgica avviene quando anche il ragazzo scopre chi è Olivier: che è il padre del ragazzino che lui ha ucciso. Ciò avviene all’interno dell’ultima lunghissima sequenza, presso l’isolato deposito di legname, quando già abbiamo visto Olivier portare il ragazzo in un luogo isolato, a chilometri di distanza da un centro abitato, e abbiamo visto crescere la tensione in Olivier (abbiamo osservato atteggiamenti verbali aggressivi da parte di Olivier, e non sappiamo ancora cosa abbia in mente. Il ragazzo, fino a quel momento, ci era sembrato inerme in balìa di ciò che non sospetta). Appena anche il ragazzo sa tutto, scappa terrorizzato. Solo a partire da questo momento, entrambi i personaggi condividono con lo spettatore ogni informazione che li riguardi. 
 
4. Far sentire, prima di far capire.
Il film, a una prima visione, per essere compreso necessita di un’elevatissima, quasi faticosa attenzione. L’immedesimazione con il punto di vista di Olivier, soprattutto all’inizio, è quasi totale. Ma, all’inizio, lo spettatore ancora non sa chi è Olivier, né dove si trovi: gli viene prima fatto “sentire” il contesto, piuttosto che spiegato. Viene subito, brutalmente immerso in un universo sensoriale pervaso dagli intensi e disturbanti rumori di falegnameria.
Inoltre, le inquadrature mosse e strette, a ridosso dei personaggi (con la mdp a mano, nervosa) trasmettono ansia e addirittura malessere allo spettatore.
Ma c’è qualcosa in più che crea disagio: soprattutto all’inizio del film vi sono delle pareti, degli ostacoli posti tra la mdp e l’oggetto della visione, che a volte è addirittura impedito. “Non lo prendo”, dice Olivier. Però subito è attratto dal ragazzo, corre, cerca di scorgerne il volto di nascosto dietro il vetro di una porta. Ma la vista del ragazzo gli è per ora impedita, e come a lui, allo spettatore.
Tutto il film è un progressivo emergere della visione e del senso, dall’oscurità alla chiarezza, dal non sapere e essere spaesati (del personaggio e dello spettatore) al comprendere e trovare una ragione.
 
5. Il finale
Il ragazzo scappa tra il legname, terrorizzato. Olivier lo raggiunge, nel bosco, lo mette a terra e gli tiene per qualche secondo le mani attorno al collo, facendogli vivere la stessa sensazione di terrore provata dal proprio figlio prima di morire strangolato. Poi lascia la presa. E torna, da solo, al deposito di legname. Dopo qualche attimo, anche il ragazzo, lentamente, torna. Ha capito che Olivier non lo vuole ammazzare, e da lui fa ritorno. Oliver gli appare il suo unico possibile orizzonte.
L’ultima inquadratura è molto particolare, e fortemente simbolica. Le travi del legname stanno per essere legate insieme da un laccio per mano di Olivier. Ma la pellicola ha un taglio di montaggio del tutto inusuale, interrompendo il gesto a metà. Fondo nero, titoli di coda, niente musica.
Il finale già di per sé sarebbe un finale del tutto aperto sulle possibilità future del rapporto fra i due. Ma il fatto che il taglio di montaggio avviene quando il gesto descritto dalle immagini non è ancora terminato, e in un momento in cui ciò che sta per essere legato non è tuttavia ancora legato (ma con tutta probabilità lo sarà…), è altamente significativo.
E’ un finale aperto, possibilista, indica una strada. E’ un finale di speranza.

Commenta

Nel caso ti siano sfuggiti