A dicembre 2008 è uscito per i tipi delle Edizioni Diversa Sintonia il primo libro della collana music book, Godzilla e altri sogni – Blue Öyster Cult, autore Marco Milani, dedicato al gruppo storico dell’Hardmetal.
Una biografia come tante?
No. Già solo l’intro, una sorta di rivisitazione in chiave letteraria dell’incipit del film l’ombra dello scorpione, tratto dall’omonimo romanzo, uno dei capolavori del periodo più fecondo di Stephen King. Una rivisitazione densa di atmosfera, di impressioni dettate dal ritmo di Don’t Fear the Reaper, che impone il suo colore per tutte le pagine successive, le quali si dipanano tra biografia, autobiografia, zen, letteratura e riflessione generazionale. Un percorso anomalo e inconsueto quello di Marco Milani, frutto di anni in cui l’appassionato, il fan, dei BOC si è mescolato allo scrittore e poi al maestro di filosofie orientali, trasfigurando la loro musica in un qualcosa di vissuto, una sorta di compagna di vita con cui poter dialogare e meditare. Il risultato? Questo libro, all’apparenza limpido e leggero come l’acqua, ma che sotto questa calma apparente ci apre squarci di potenza, puro metallo, potremmo quasi definirlo metallo metafisico, stellare, rendendo in questa chiave ciò che sono stati e sono tutt’ora i BOC.
E non poteva essere diversamente.
Per lo stesso modo di porsi di questo gruppo nato ufficialmente come Culto dell’Ostrica Blu nel 1970, nei confronti non solo dell’Hardmetal, ma della musica in genere. Uno stile caratteristico e peculiare, forgiato in oltre trentacinque anni di viaggio attraverso le difficili lande di una terra di mezzo, costituita da una base metal con venature rock, blues, jazz ed il giusto gradiente di elementi progressive. Una storia particolare, quindi, difficilmente incanalabile in un filone di genere ben definito la quale se da una parte ha sempre spaccato la critica nei suoi giudizi, dall’altra ha catalizzato nel corso del tempo esperienze di ascolto da parte di generazioni di appassionati, le canzoni e il sound di Donald “Buck Dharma” Roeser e compagni a fare da sottofondo, a stratificare fantasie, sogni in sfaccettature diverse, cangianti, sorprendenti, nel lungo viaggio della vita di ciascuno di essi. Come quello di Marco Milani, appunto.
E quel che ne è risultato è senz’altro un tributo ai Blue Öyster Cult come pochi altri gruppi hanno avuto. Un tributo non solo bio-bibliografico, ma anche del tutto personale, intimo, ricco di quella linfa vitale che si trasmette a doppio senso tra il musicista e l’ascoltatore: in poche parole: una contaminazione.
Se poi l’autore ha anche “uno strano background formativo parecchio orientalizzato'”, ecco che l’elemento personale, si arricchisce di potenza visionaria ed evocativa, al ritmo di Astronomy, Don’t fear the Reaper, Godzilla e altri capolavori dei BOC. Come nel capitolo ASTRONOMY, ZEN E DINTORNI, da cui il breve estratto, riferito ad Astronomy, appunto:
“…presagi terrificanti. Lo scontro e la musica ampliano l’aspettativa e la portata oltre il cielo, verso l’universo, con la visuale che si innalza oltre’ a inglobare pianeti, un sole sbiadito e appena presente nonostante tutto, e un vuoto di punti stellati che non ha senso osservare. All’assolo portante, duraturo, favoloso che Buck Dharma inizia similmente a un gong tibetano, piazzando ulteriori poche e significative note simili a mazzate su un incudine per poi scatenarsi in una sonata da far invidia allo stesso Creatore di tutto, per gli Dei è nuovamente battaglia. Figure ancora più gigantesche all’apparenza, nel concerto universale sono solo esplosioni in allontanamento su un pianeta. La musica prosegue e invade l’Intero, l’universo trema, prende ad aprirsi e a perdere le prime briciole, a essere percorso da immense e potenti energie che spaccano il continuum come un foglio di giornale strappato. Il nero del nulla’ prende a farsi largo nel nero dell’universo’ che sta surclassando i colori della battaglia, in uno scalare di sovrapposizioni in cui, finita la musica, finisce la visione… nel niente.
È silenzio.
I pochi attimi successivi paiono secoli di fermo-immagine in cui nulla pare crescere in se stesso. È un’assurdità visiva: fissità-mobile… ma è proprio lei, è così, indescrivibile almeno fino a che un punto luminoso, subito dopo riconoscibile in una figura dorata seduta nella posizione del fior di loto, si ingrandisce fino a poterlo discernere in un Buddha immobile con la chitarra in grembo…”
Eccoci al significato di quanto scritto sopra: contaminazione. Ciò che un gruppo di musicisti, un’esecuzione personale-universale può creare, indurre, trasmettere, il canale che si stabilisce non solo nell’ascolto singolo, individuale, chiusi tra le quattro mura di una camera, ma anche e, soprattutto, nei live, nei concerti in cui l’a tu per tu tra le due parti dello stesso tutto non può non unirsi in qualche modo. E di live, in trentacinque anni e passa, i BOC ne hanno fatti molti. Godzilla e altri sogni è anche questo, una restituzione di energia, di vibrazioni, assorbite attraverso le canzoni, gli album a lungo ascoltate, una restituzione all’immaginario collettivo degli hardmetallers di quelle atmosfere live e irripetibili.
Prendendo spunto da quest’ultimo termine, hardmetallers appunto, utilizzato per unificare le diverse etichette, come scrive l’autore stesso:
“Mettiamo anche questo punto fisso ad evitare confusione, finché siamo in tempo. Hardmetal, heavymetal, powermetal, epic, deathmetal, metaldark, hardrock, pre-hardrock, proto-hardrock, arena-rock, sotto-poprock, progressive-rock, hard-boogie e comprendiamo tutti i vari black, dark, blues, country ecc. in incroci, sottoincroci e varianti di Hard, Rock, e Metal, sono solo nomi, tanti, anche inutili, che stanno a specificare e a dividere ulteriormente un soggetto’ unico.
Ebbene sì! Il mio intento è di riunire e non dividere…”
Unificare, quindi. Ma non solamente in senso orizzontale, riferendomi a tutte le categorie e sottocategorie più o meno elitarie, a tutti i rivoli in cui l’hardmetal, anche per attitudine congenita, tende a dividersi. Ma anche in senso verticale, in termini di prospettiva temporale. Cercare, in perfetta linea zen, un trait d’union che ricostituisca un comune senso di essere e di riconoscersi. E che sia in grado di trovare il proprio equilibrio anche attraverso le generazioni.
“Si espresse un saggio in tempi passati e non sospetti: “Cerco ciò che sono! Ma come posso cercare ciò che già sono… son forse pazzo?” Concetto riproposto con terminologia più attuale dai Led Zeppelin, in una frase di Stairway to Heaven: “…se ascolti molto attentamente alla fine la melodia verrà da te, quando tutti sono uno e uno è tutti, per essere una roccia e non rotolare via…”
Da qui il termine hardmetal, tentativo di riunificare, di porsi a metà strada tra l”ancient great metal’ delle generazioni alternative anni Sessanta e il nuovo “headbangers” o “metalhead” a connotare i più recenti. Un tentativo di riunificare, di trovare una radice comune, non solo nomotetica ma anche culturale, in termini di modalità di vita e di porsi nei confronti del mondo circostante. Perché, parafrasando l’autore, le radici sono tutto. Anche se il tentativo di sintesi non è facile.
Non resta da chiedersi: il tentativo è ben riuscito?
Qualunque ne sia la risposta è bene ricordare, come in un articolo di Priulla citato dall’autore:
“L’heavy metal non possiede alcun riferimento politico e storico a livello ideologico. Non esiste un progetto, un’idea di società, sotto le sue chitarre; non è alfiere di un cambiamento determinato del mondo…è libertà di libertà.”