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The Wrestler

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Un corpo votato al sacrifico, quello di Randy “The Ram” Robinson (Mickey Rourke), nell’ultimo film di Darren Aronofsky. Un corpo che affronta una passione tutta terrena, in cui dolore e spettacolo, masochismo ed esibizionismo si mischiano in una performance che emana un’aurea unica e irripetibile. Perché The Wrestler è un film che senza il corpo di Mickey Rourke non avrebbe ragione di esistere, perché quel corpo è la testimonianza visibile delle scelte e degli errori di tutta una vita. Le cicatrici, i lividi, le ferite sono segni su una mappa fatta di carne e sangue, sulla quale ripercorrere gli eccessi di un attore che non si mai tirato indietro nella sua esplicita sfida allo star system hollywoodiano, dopo averne fatto parte per un lungo periodo. Mickey Rourke mette in scena se stesso, Aronofsky non può fare altro che seguirlo, macchina a mano, pronto a cogliere gli scatti, le cadute, le esplosioni di quell’ammasso di carne, che forse merita la solitudine, ma non l’odio, soprattutto non quello della figlia, con la quale Randy cerca di ricostruire un rapporto, fallendo però ancora una volta, a cuasa delle proprie debolezze, per poi rialzarsi e tornare a combattere.
Ed è un’altra presenza femminile, quella della splendida Marisa Tomei, ad assottigliare ancora di più la nostra distanza da quei corpi, a rapire attraverso la femminile magia delle sue movenze lo sguardo e il cuore di Randy e dello spettatore, le immagini di Aronfsky riescono così ad oltrepassare la cornice dello schermo per arrivare dritte nell’animo di chi le guarda, creando un’empatia impossibile da realizzare se non ci fosse una autenticità che si sprigiona, a volte accecante, dai gesti e dagli sguardi degli attori, dal loro carico di dolore e bellezza, dai loro fallimenti, dagli irripetibili frammenti di felicità, dalle perdite.
Il cinema, in questo modo, si muove in territori in cui finzione e realtà si confondono e si alimentano, rielaborando il vissuto di un attore in funzione narrativa, trasformando la sua storia personale in un racconto che sappia superare i limiti dell’individuo per diventare una parabola della condizione umana, fragile ed ironica, drammatica e commovente.
Randy sa che il vero dolore è quello della solitudine, della lontananza dal suo pubblico, come ammette prima del combattimento finale. E’ fuori dal ring che mi faccio più male. E con ultimo, coraggioso (e forse mortale) salto dalle corde, Randy si libera nel vuoto e scompare al di fuori dell’inquadratura, fuori dalle immagini e dal cinema stesso, per atterrare in quel luogo misterioso e pulsante che è il cuore di ogni spettatore.

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