Il nonno cercò sempre di essere, per quanto gli fu possibile, un uomo onesto e simpatico, nonostante le avversità lo avessero costretto, prima su di una sedia a rotelle e poi, in età più tarda ad aver bisogno di assistenza 24 ore su 24.
Il ricordo che di lui mi è più caro è legato alla mia infanzia, quando, tenendomi sulle ginocchia, mi raccontava le sue imprese giovanili, infarcendole di una quantità tale di astruserie da poter strappare un sorriso anche ad un pezzo di marmo. Lo amavo. Purtroppo
(e questo lo ricordo a fatica, poichè ai bambini si tengono sempre nascoste certe cose), era soggetto a delle tremende crisi cicliche, in cui la sua mente era preda di incontrollabili follie.
Mi fu sempre tenuta nascosta l’origine del suo male, e mi si fece credere che ogni uomo anziano passasse, nel corso della sua vita, periodi simili a quelli di cui mio nonno soffriva da sempre.
Ma quando, alla soglia della mia sofferta laurea in medicina, osai chiedere a mio padre spiegazioni sulla malattia mentale del nonno, a quel tempo immobilizzato in un letto, egli non mi seppe tacere la verità: era malato di solipsismo.
Non volli sentir altro, e mi rinchiusi nella biblioteca medica della facoltà: trovai, con un po’ di fatica, la parola e ciò che lessi non mi piacque per niente.
Il solipsismo è una forma estremamente rara di follia paranoica e chi ne è affetto è convinto di essere l’unica persona reale al mondo, e che questo, con tutto ciò che lo compone, sia solo un prodotto illusorio della sua mente.
Il solipsista crede che, se smetterà di pensare al creato, esso non farà altro che scomparire nel nulla.
Chiusi il libro con amarezza: era veramente crudele la tragedia che mio nonno aveva subito, costretto a letto da un fisico malfermo credendo di essere il creatore del mondo mentre non era signore neanche delle proprie gambe.
Nei seguenti quattro anni non pensai più molto alla vicenda, assorbito com’ero dalla mia occupazione di medico a tempo pieno, e scordai anche di fare una qualche visita a mio nonno, che nel frattempo era sempre più fragile e vicino alla morte.
Ma si sa: la vita lascia poco tempo per sentimenti quali la compassione, e con la lontananza, sbiadisce anche l’amore. L’ultima volta che ho visto mio nonno è stato tre giorni fa, la vigilia di
Natale: la sera della tragedia.
Il nonno, oramai allo stremo, espresse il desiderio di riunire tutti i parenti per un’ultima volta, per passare una bella serata assieme.
Nessuno si sentì in grado di mancare, tanto più che ognuno sapeva che poteva essere l’ultima occasione per vedere l’amato parente ancora vivo.
Il convivio fu decisamente gradevole, nonostante il nonno, che doveva farsi imboccare dall’infermiera e biascicava oscenamente ad ogni boccone. Quando oramai la cena volgeva al termine, con un colpo di mano veramente inaspettato, il vecchio fece cadere il piatto dalle mani dell’assistente, ottenendo nella stanza un silenzio subitaneo che ebbe l’effetto di una doccia gelata per tutti i presenti. Aprì lentamente le labbra: “Non avete mai capito niente”. Un brivido mi corse giù per la spina dorsale, ero eccitatissimo: forse mi sarebbe stato concesso di assistere ad una delle crisi misteriose da cui ero sempre stato escluso da bambino.
L’infermiera, sbalordita, cercò con parole dolci di portarlo in camera da letto, conoscendolo e presagendo il peggio: ma il nonno, con una spinta vigorosa, davvero sorprendente per un uomo così malridotto, la spinse contro la parete; ottenendo così dalla platea una totale attenzione. Accertatosi di non poter essere più interrotto, riprese a parlare:
“Razza d’incapaci. In tutti questi anni non avete mai capito niente.
Non siete neanche arrivati vicini alla realtà. Ma ora capirete, dovrete capire.”
La scena era cristallizzata, il tempo sembrava aver cessato la sua corsa: eravamo tutti immobili in quella stanza, a pendere dalle labbra di un vecchio pazzo. Continuò: “Io sto per finire. Mi rimane poco da vivere, ma quando finirò, e sarà tra breve, voi finirete con me. Solo che voi, poveri idioti, non lo ammettete, non lo avete mai ammesso.
Dopo di me …” e qui alzò la voce fino ad urlare, “… rimarrà un sublime, magnifico, incontrastato Nulla e …”.
Il suo grido divenne un rantolo soffocato: l’infermiera, unica indifferente alla malia che aveva colto tutti noi, era riuscita a prendere alle spalle il vecchio, praticandogli un’iniezione calmante che lo aveva fermato.
La maledii dal profondo del mio cuore. Portata a letto la vecchia carcassa, siccome tutti erano molto scossi dall’accaduto, non si volle parlare dell’attimo di follia del nostro caro parente, e insieme si rincasò. Il nonno morì la notte stessa.
E’ una mattina triste e nebbiosa questa, e faccio parte del corteo che accompagna nell’estremo saluto il mio caro nonno.
Guardo la bara, anche altri lo stanno facendo, con un segreto senso di sollievo che faccio fatica ad ammettere: dopotutto il vecchio è morto e noi siamo ancora qui.
E’ una giornata strana: i contorni delle case sono vaghi e inconsistenti, e non c’è nessun rumore, tranne lo scalpiccio dei nostri piedi, che turba l’avanzata di questa mesta processione che si muove, senza incontrare alcun ostacolo, nella nebbia sempre più fitta.
Una sensazione di disagio si è impadronita di me, da quando ho guardato l’orologio: dovremmo essere già arrivati da tempo, ma stiamo ancora camminando. Io però sono un uomo razionale e ciò mi basta.
Altro tempo è passato: ho paura; i miei dubbi sono diventati un’assurda certezza da quando mi è capitato di guardarmi le scarpe: non riesco a vederle, e non solo, ma anche parte del polpaccio è scomparsa.
Una donna sviene: anche gli altri sanno! Stiamo svanendo.
Siamo soli sull’ultimo lembo di terra rimasto, ora sappiamo che oltre il muro nebbioso il mondo ha cessato di vivere per sempre.
Restiamo così, inermi, in attesa che questo ultimo lembo di terra si richiuda, come un sudario di fango e di anime, sul corpo del nostro irriso, umiliato, mal sopportato creatore: il nonno.
Il nonno
Andrea Toni