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Un ragazzo – Nick Hornby

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DIVERSI.

 

Così, ecco cos’erano diventati allora: un’enorme, felice famiglia allargata. È vero, questa famiglia felice comprendeva un bambino invisibile di due anni, un dodicenne balordo e una madre con manie suicide; ma la legge degli sfigati imponeva che questo fosse proprio il genere di famiglia alla quale finivi con l’appartenere se non ti piacevano le famiglie in linea di principio“.

(Nick Hornby, “Un ragazzo”, Dodici, p. 77)

 

Spaccato della frammentata società inglese degli anni Novanta, fedele rappresentazione del disagio, del malessere e della disperata gioia di vivere dei suoi isolati e ipercomunicativi individui, “Un ragazzo” segna, nella produzione di Nick Hornby, un primo sensibile distacco dal personaggio centrale dei precedenti romanzi: l’ossesso fanatico di dischi e football, trasfigurazione letteraria dell’autore, qui torna a galla occasionalmente, con timidezza e incertezza. L’ambizione era, con ogni probabilità, quella di dar vita a un’opera che non fosse soltanto maniacale (e geniale) riproduzione e alterazione dell’io: Hornby cercava il respiro del grande romanzo, della storia paradigmatica, specchio d’uno stato e d’una condizione dei “neo-nuclei” o “para-nuclei” famigliari del nostro tempo.

 L’esito è altalenante. La narrazione è brillante e coinvolgente, come nei primi libri: Hornby è in grado di presentare situazioni drammatiche (un tentativo di suicidio d’una madre divorziata, una serie di prevaricazioni e violenze subite dai compagni, a scuola, da un adolescente, e via dicendo) con non comune leggerezza, costeggiandole d’ironia e di grottesco, senza tuttavia prendersene gioco o “negarle”: l’umanità e l’empatia dell’artista di Maidenhead impediscono la percezione d’un’adozione artificiosa di espedienti narrativi, o dell’esasperazione delle tragedie per finalità varie, che qui non serve elencare.

 

La questione, però, è altra: “Un ragazzo” è libro a tratti frammentario e ondivago, non privo d’autoreferenzialità (Will, uno dei protagonisti, incontrerà una donna ad Holloway, nel Championship Vinyl di “Alta Fedeltà“; la squadra di calcio di riferimento dei personaggi non può che essere l’Arsenal, come in “Febbre a 90°“, e via dicendo).

È un romanzo grazioso e appassionante – ma da Hornby possiamo e dobbiamo attenderci qualcosa di sublime, sempre. Siamo stati viziati.

 

TRAMA e INTERPRETAZIONE

 

1993. Will Freeman (misteriosamente ribattezzato “Lightman” nella quarta di copertina) è un trentaseienne che vive dei diritti d’autore d’una canzone del padre: un one-hit singer passato alla storia del pop per un brano dedicato alla Superslitta di Babbo Natale (Otto, p. 52).

Felicemente disoccupato, Will si dedica alla cura del suo aspetto e a quello che definiremmo, in altro contesto, cazzeggio, con encomiabile dedizione: vestito all’ultima moda, ascolta i dischi che fanno tendenza (purtroppo, Snoop Doggy Dogg: fortunatamente, i Nirvana) e corrisponde alla categoria del fico in tutti i test proposti dalle riviste (Due, p. 13). “Quanto era fico Will Freeman? Fico così: negli ultimi tre mesi gli era capitato di andare a letto con una donna che non conosceva molto bene (cinque punti); aveva speso più di trecento sterline per un giubbotto (cinque punti); aveva speso più di cinque sterline per un taglio di capelli (cinque punti) (…) aveva venduto i suoi album di Bruce Springsteen (cinque punti); si era fatto crescere il pizzo (cinque punti) e se l’era anche tagliato (cinque punti). Il guaio era che non aveva mai fatto sesso con una donna la cui foto fosse apparsa sulla pagina di costume di un giornale o di una rivista (meno due punti) e che in tutta onestà – l’unica cosa vagamente simile a un principio etico in Will era la sua convinzione che mentire su se stessi nei test fosse del tutto sbagliato – continuava a credere che con una macchina veloce è facile far colpo sulle donne (meno due punti) (…)“.

 

Incontriamo Will in procinto d’avviarsi alla carriera di “Serial bravo-ragazzo” per donne con figli e senza marito (Quattro, p. 30): meno impegnative, meno disposte a legarsi, più disponibili per incontri esclusivamente erotici, facilmente consolabili e fatalmente inclini a lasciare il serial-compagno, dopo qualche settimana, consapevoli ad un tratto di “non poter dare abbastanza” o di qualcos’altro di sottilmente femminino, e dello stesso stampo. Will interpreta con l’integralismo d’un Robert De Niro la parte del ragazzo padre presso il GASS (Genitori soli – soli Assieme: Sei, p. 38), nel tentativo di risultare più appetibile e più a portata di mano alle sue prede. È uno dei due uomini iscritti al gineceo: recita, ma non è un impostore (Sei, p. 42), è il grande attore che si sta godendo un nuovo (e potenzialmente interattivo) pubblico.

Inventa “Ned”, un figlio di due anni, e costruisce, non senza difficoltà, una amarissima e lacerante vicenda d’abbandoni del tetto coniugale e di comunicazioni difficili con il marmocchio: quando si trova a giocare con i bambini degli altri, è perfettamente a suo agio (godibilissima la descrizione nel capitolo Otto, p. 56) – e sa essere, per qualche istante, un adorabile Peter Pan. Ma il suo obbiettivo è chiaramente un altro: le mamme.

 

Per chiarire questo aspetto, è eclatante il paragrafo che a breve riporterò, tratto dal capitolo Dodici, p. 57: Will parla della spedizione dei curriculum a vuoto, e spiega: “In realtà non l’aveva mai contattato nessuno, anche se di tanto in tanto aveva ricevuto una lettera standard di rifiuto. La verità è che non gliene importava nulla. Si proponeva per questi lavori con lo stesso spirito con cui era diventato il padre di Ned: faceva tutto parte di una realtà alternativa, onirica, che non toccava affatto la sua vita reale, qualunque fosse questa sua vita reale. Non aveva bisogno di un lavoro. Stava benone come stava. Leggeva molto, di pomeriggio guardava dei film, faceva jogging, cucinava delle buone cenette per sé e per i suoi amici e ogni tanto – quando la noia raggiungeva la fase acuta – andava a Roma, a New York e a Barcellona…Non poteva dire di bruciare dal desiderio di cambiamenti“.

 

Nella vita di questo splendido nullafacente, che si diletta a infilarsi nel traffico per provare l’ebbrezza di imprecare, come ogni lavoratore che si rispetti, entrano due persone. Una mamma, Fiona, e il suo bambino, Marcus, incappano nel cammino dell’eterno ragazzo in via del tutto accidentale, tramite una delle signore del gruppo dei genitori soli, Suzie, da poco e precariamente entrata nell’orbita di Will.

 

Fiona è rimasta, nell’anima e nella visione del mondo, una hippie. Non è mai stata sposata, per sfiducia nei confronti dell’istituzione del matrimonio: ha trentotto anni, ascolta esclusivamente Joni Mitchell e Bob Marley, è reduce dalla rottura d’una nuova relazione e si è da poco trasferita, col figlio, da Cambridge a Londra. Musicoterapista, di rado e male pagata, è in piena crisi depressiva. Will la vedrà, la prima volta, mentre Suzie tenta di rianimarla, dopo un tentativo di suicidio.

 

Marcus ha dodici anni e un cespuglio di capelli ricci. Odia il calcio, ed è fin troppo serio. Non riconosce il sarcasmo, e ascolta solo i dischi di Joni Mitchell. Ha un pessimo rapporto col padre, che se ne è andato di casa quattro anni prima. Marcus è un bambino un po’ atipico (non solo per via di Joni Mitchell): ad esempio, canta senza accorgersene, in classe e nei negozi, e i coetanei lo prendono in giro. Si veste male, è trasandato e sempre trasognato. In fin dei conti, sta vivendo una pessima adolescenza: va male a casa, con la madre in pieno crollo nervoso, e va male a scuola, professori e compagni uniti per isolarlo e umiliarlo.

 

Quando incontra Will, Marcus sogna che diventi il nuovo compagno della mamma: invano, perché Will sente che Fiona appartiene a un altro mondo. Non che non la ammiri: è stupefatto quando la sente “cantare sul serio, con trasporto” (Quattordici, p. 92), sembra riconoscerle stile, in diverse circostanze, e comprensione per il suo tremendo male di vivere: ma non basta.

In compenso, Will diventa il papà che Marcus non ha mai avuto: nonostante la sua immaturità e la sua inesperienza, l’eterno ragazzo sa ascoltare e sostenere il bambino che a tutti appare “vecchio”, per quanto è maturo e profondo.

E poi, è un modello: Marcus è rapito dal suo hi-fi, dalle centinaia di cd e dalle migliaia di vinili e cassette archiviate sugli scaffali del suo appartamento, dalle foto dei musicisti e dalle locandine dei film affisse sulla parte, dalla sua brillantezza nella conversazione – Will ci sa fare, Marcus si sente un imbranato e probabilmente ha bisogno di qualcuno che sappia aiutarlo a cambiare.

Ma: deve essere lui a sceglierlo. E Marcus sceglie bene.

 

Nasce questa singolare amicizia, ibrido tra un rapporto genitore-figlio e Peter Pan-bambino, davvero indefinibile e avvincente e commovente: Will cambierà la sorte di Marcus, avvicinandolo a una nuova concezione della vita e delle relazioni con i suoi coetanei, Marcus guiderà Will verso una maturità che sembra essere alle porte – nella sua nuova relazione sentimentale, smetterà a un tratto di mentire e si presenterà per quel che è, evitando mascherate e artifici.

 

La musica sarà il sentiero eletto di trasformazione e liberazione: il grunge di Kurt Cobain e dei Nirvana unirà Marcus a una ragazzina, e segnerà il suo passaggio dallo status di alienato a quello di “allineato” – a una minoranza, certo: ma è inevitabile, per caratteristiche e sensibilità del bambino, che sia così. Del resto, era uno che “a casa stava benone, ad ascoltare Joni Mitchell e a leggere libri, ma questo a scuola non gli serviva a niente. Strano: la gente probabilmente pensava il contrario, che leggere libri a casa dovesse per forza risultare utile, ma non era vero; lo rendeva diverso, e dato che era diverso si sentiva a disagio, e dato che si sentiva a disagio si sentiva trascinare via dalla corrente, lontano da tutti e da tutto, compagni, insegnanti e lezioni” (Tre, p. 21).

Incipit vita nova, Marcus.

 

 

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.

 

Nick Hornby (Maidenhead, England, 17 aprile 1957), ex insegnante di Letteratura. Narratore, sceneggiatore, giornalista e critico letterario inglese.

 

Nick Hornby, “Un ragazzo”, Guanda, Parma, 1998.

Traduzione di Federica Pedrotti.

Prima edizione: “About a Boy”, 1998.

 

Il libro è strutturato in trentasei capitoli, numerati progressivamente e sprovvisti di titolo.

 

Info in rete: Penguin.

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