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Beckett e Keaton – Sandro Montalto

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Lo scorso novembre, a Milano, durante le manifestazioni per il centenario della nascita di Samuel Beckett, sono stati presentati diversi saggi italiani, tra cui quello di Montalto e il più circoscritto Beckett e l’Italia  a cura di Giancarlo Alfano e Andrea Cortellessa. Un Beckett che, nella memoria collettiva, ci riporta ad Aspettando Godot, la pièce con Vladimir ed Estragon, i due protagonisti che porteranno alla ribalta il tema dell’attesa, della solitudine dell’uomo in lotta contro il destino del proprio annientamento, fin tanto da temere insita nella stessa morte una qualche forma di residua (r)esistenza, aggiungerei alla luce della lettura del saggio di Montalto. Film, il tema trattato nel libro, è un corto realizzato in bianco e nero nel ’64. Montalto non solo ha voluto testimoniarlo attraverso un’attenta e mai pedante interpretazione, ma è andato oltre, spingendosi dove la critica all’autore definito tra i più “chiosati” non era ancora arrivata. Lo fa in una serrata e avvincente analisi comparata, sino ad addentrarsi nell’impianto del secolo, in un parallelo ed omogeneo ripercorrere il contesto storico e filosofico. Un film che, attraverso le sue pagine, diviene compendio del percorso di tutta la produzione beckettiana. Il testo analizza subito circostanze e dettagli della pellicola, a partire dallo script e dalle tecniche utilizzate: una “camera a mano” che, indubbiamente, vivifica corrispondenze e azioni tra Og, un ormai anziano e malandato Keaton, ed Oc, ovvero l’occhio che lo riprende, in un cortometraggio anacronisticamente muto, dove incombe “un silenzio drammatico quanto parodistico”. Tutta la tensione iniziale dell’esterno girato in strada ed il relativo inseguimento si sposta poi nella “stanza-utero della madre”, colei che “costringe ad esistere” e dove, infine, si consuma l’agonia di Og. Finale che si gioca sull’eliminazione delle possibilità di “essere percepito”, nella negazione della propria esistenza, attraverso la soppressione delle “scorie della memoria”, ovvero le fotografie di un’intera vita. I titoli di coda compaiono con “un primissimo piano dell’occhio di Keaton” definito “torbido, dalla palpebra squamosa”. La morte diviene quindi un atto pietoso e l’altrui percezione, oltre ad essere una violenta invasione nella nostra esistenza, ne diviene anche conferma. Keaton, tanto come personaggio a sé quanto in relazione a Beckett, è altrettanto scrupolosamente analizzato. Un protagonista definito cinematografico rispetto all’essenza “smaccatamente teatrale” di un Chaplin precedentemente contattato per svolgere lo stesso ruolo. Forti i richiami, a partire dall’ambientazione, al cinema d’autore surrealista, in particolare ad Etoile de mer di Ray per talune tecniche di ripresa e, più in generale, nell’onnipresente occhio, sebbene l’espressionismo, nell’ “esigenza di controllo assoluto di tutti gli elementi della messa in scena”, sembrerebbe prevalere. Tra la lunga sfilza d’intellettuali analizzati per paragrafi, risalta Bergson, per via di quella “anestesia momentanea del cuore” che suscita il riso. “Il comico e l’angoscia d’esistere”, infatti, è sottotitolo e tema, perno tra Beckett e Keaton. Non si tralascia nulla, neppure le attestazioni negative che la pellicola ha suscitato e i remake, inclusi quelli ipotizzati, dove compare persino il nome di Gassman. Con Film, tutto il peso del Novecento, proteso alla fuga ma imbrigliato in gabbie accademiche, diviene chiave di svolta per approdare all’assopimento creativo della soggettività sovrapposta in un’alternanza di percepito e percepente. Non citato nel testo, Ezra Pound, a tal proposito, mi sovviene per la “distanza trascorsa fra il mondo del Novecento e quello della serenità”. E’ comunque il tema della vecchiaia ad incalzare nei retaggi proustiani di un tempo che “consegna al fallimento le aspirazioni umane costringendo l’uomo ad un aborto del desiderio”. Tutto diviene vacuità, drammatica e dagli inevitabili, nonché cinici, risvolti comici. Anche l’esistenzialismo, quell’ultimo blasonato baluardo dell’epistemologia eretto ad estrema difesa dell’uomo, viene scavalcato. Un uomo che, con Beckett, non ha più vie d’uscita. Il tempo, i ricordi, la propria immagine riflessa allo specchio, unitamente alla profonda consapevolezza di una lunga ricerca intercorsa nei secoli precedenti, altro non sono che pietra che si sgretola lentamente, lasciandoci impotenti, abbandonati nel moto perpetuo del dondolo, tanto caro alla simbologia dell’autore e che, non a caso, anche qui ricorre. L’angoscia della vita, forse, si concretizza tutta lì, celata in quel breve intervallo intercorso nell’oscillazione.

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