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Bang Bang Baby

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Tra le tante produzioni cinematografiche o televisive che usano gli anni ’80 come ambientazione storica ce n’è una, italianissima, che forse è passata un po’ in sordina, nonostante, a mio parere sia assolutamente un capolavoro: Bang Bang Baby – diretta da Michele Alhaique, Giuseppe Bonito e Margherita Ferri e in qualche modo basata sul L’intoccabile, biografia romanzata di Marisa Merico. La storia si sviluppa a metà degli anni ’80 vicino a Milano – la Milano di Cologno Monzese, delle TV commerciali, in un periodo in cui tanto sembrava promettente e dorato, anche i problemi sindacali e il bullismo a scuola – ma parte in realtà in Calabria, un po’ di anni prima, quando la protagonista, Alice Barone (Arianna Becheroni), vede suo padre morire ammazzato davanti ai suoi occhi, mentre è al Luna Park. Alice poco dopo si trasferisce al nord, portata via dal suo paese d’origine dalla madre, che farà di tutto perché la loro vita non sia più collegata a quell’ingombrante cognome, Barone, e possa invece fondersi con un quel nuovo presente più spensierato che gli anni ’80 promettevano.

Quando però Alice scopre, guardando una foto su un giornale, che suo padre non sembra davvero morto (viene arrestato perché, in mutande, si mette a litigare con la polizia!) tutto cambia rapidamente, e la ‘ndrangheta – a cui la famiglia del padre è collegata – torna ad essere una pericolosa costante nella sua vita quotidiana (anche) di studente.

Ma una costante quasi surreale, in un mondo a tratti onirico, in cui i simboli degli anni ’80 – cartoni animati giapponesi inclusi – si fondono con disturbi alimentari, con la necessità di ribellarsi alla madre, e di essere amata e “vista” dal padre e apprezzata dagli amici e dai compagni. Si sofferma sugli oggetti e le musiche di quegli anni, per mostrarci un secondo dopo sparatorie, inseguimenti e persone senza scrupoli – parte delle quali in qualche modo vittime anche loro di qualcosa, di una parte che li definisce, o di una aggressività che li aiuta a nascondere qualche aspetto della loro vera natura. Facendo alternare il criminale pronto ad uccidere per vendetta, al capo fabbrica che nasconde qualche verità ai dipendenti. O mettendo vicini il giovane ‘ndranghetista che non ha problemi a spostare droga o armi, e il bulletto della scuola che non ha scrupoli a prendersela con qualcuno più queer – entrambi affascinati dalla stessa figura.

Non c’è però un tentativo di giustificare nulla – la “nonna eroina” o i vari capi a più livelli nelle gerarchie criminali, pur strappando un sorriso qua e là, non diventano eroi. Neppure la protagonista forse lo è, anche se nel suo caso l’astuzia e la capacità di improvvisare e portare a termine piani sempre più impossibili, è almeno supportata da una qualche forma di amore. Ma tutto si muove in fretta, tutto è immerso nella realtà del periodo, tutto è azione e intrighi. Malavita e polizia. Lussuria e amore. E quindi ogni pensiero, ogni riflessione sulle brutture – sul male – che ci viene proposto, viene smussato dall’abilità di chi ha sceneggiato quest’opera, che imita a tratti Lupin III, ma che parla di criminalità tutta nostrana, per fornirci una serie TV davvero unica.

Va visto, per capirne l’alto livello. Per gustare la bravura di tutti gli attori, inclusi quelli più assurdi a cui la storia regala magari giusto qualche scena, e quel ritmo speciale che c’è nei libri, ma che spesso, riportato in video, diventa sfuocato. Ma non qui.

Doveva esserci una seconda stagione, ma questa serie ha già un paio d’anni e quindi chissà. Io incrocio le dita e vi consiglio di darci almeno una occhiata.

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