Il Festival di quest’anno conferma lo stato di grazia già messo in evidenza lo scorso anno, e ci regala un Concorso Ufficiale di grande interesse, quasi ad anticipare una stagione cinematografica che si spera possa riproporre i grandi contenuti di quella passata. Raramente mi era capitato di apprezzare quasi tutti i film del Concorso, ed anche in quelli più maltrattati dalla critica ufficiale, ho trovato degli spunti interessanti. Filo comune di molte pellicole è stata l’ambientazione storica. Pochi film hanno trattato della società contemporanea, e, seguendo l’attuale tendenza, si sono riscoperti i generi classici cinematografici, magari riproposti in chiave più autoriale. Non è un caso che due premi di quest’anno siano andati a due western: “The Ballad of Buster Scruggs” dei fratelli Coen e “The Sisters Brothers” di Jacques Audiard, ottima dimostrazione che il genere western, se raccontato da registi importanti, non è un genere finito, ma può ancora offrire molto. Il film dei fratelli Coen, vincitore del Premio per la Migliore Sceneggiatura, si compone di sei storie sulla frontiera americana, sei capitoli di un libro che racconta il west, geniale in alcune sue parti, un classico Coen d’autore. “The Sisters Brothers” ha vinto invece il Leone d’Argento – Premio per la Migliore Regia, ed è una bella storia anch’essa sulla frontiera americana, originale western girato principalmente in Europa, che mette al centro del racconto due fratelli fuorilegge (i fratelli Sisters=sorelle). Anche “The Nightingale” di Jennifer Kent, unica regista donna in Concorso, vincitore del Premio Speciale della Giuria (e Premio Marcello Mastroianni al giovane attore emergente Baykali Ganambarr), richiama il genere western. Ambientato nella Tasmania del 1825 dove gli aborigeni vengono massacrati dall’esercito inglese, Clare, una giovane detenuta irlandese, cerca vendetta per le violenze subite dai suoi carcerieri inglesi. Il film ha generato polemiche di cattivo gusto e in qualche modo piuttosto inquietanti, vicenda che non starò qui ad illustrare, ma che invito a recuperare perché rappresenta un ottimo spunto, sulla società odierna, su cui riflettere. Il Leone d’Oro è andato ad Alfonso Cuarón con “Roma”, oggettivamente uno dei vincitori, degli ultimi anni, più semplici da pronosticare. Chiunque sia uscito dalla sua proiezione veneziana, lo ha immediatamente indicato, perlomeno, come sicuro vincitore di un premio, anche se erano evidenti i tratti, per estetica e consistenza, del vincitore della 75a Mostra del Cinema. Il film è praticamente perfetto, per la narrazione, per come è girato, per la drammatica testimonianza di un periodo doloroso della storia messicana. Il titolo della pellicola, per evitare gaffe a chi non l’ha ancora vista, non richiama la capitale italiana, ma era semplicemente un quartiere di Città del Messico degli anni settanta, abitato prevalentemente da ricche famiglie borghesi. Ultimo film premiato del Concorso Ufficiale è stato “The Favourite” di Yorgos Lanthimos, Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria. Il regista greco, ha accantonato temporaneamente per questo film di ambientazione storica (l’Inghilterra del XVIII secolo), gli incubi dei suoi precedenti lavori, proponendoci una pellicola più distesa con i ritmi di una commedia (una commedia, in ogni caso, alla Lanthimos…), ed un cast di attrici eccezionali, che ha portato anche la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile ad Olivia Colman. La Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile è andata invece a Willem Dafoe per “At Eternity’s Gate” di Julian Schnabel, film su Vincent Van Gogh, che non rappresenta solo una biografia del pittore olandese ma che analizza anche il significato dell’essere artista.
Ma come già anticipato, oltre alle pellicole premiate, il Concorso ha offerto diversi spunti di riflessione, ad esempio, con “Doubles Vies” di Olivier Assayas, nuovamente in grande forma con questa commedia che analizza le dinamiche della new economy generata dal mondo digitale ed il suo rapporto con la tradizione culturale, economica e sociale. Ma soprattutto anche la capacità delle persone di accettare e di adeguarsi ai cambiamenti, rapidi e spesso imprevisti, di questi processi e di come essi ci possano influenzare emotivamente. Credo che questo film, più di ogni altro, abbia centrato in pieno quello che sta attraversando attualmente anche il mondo del cinema e che al Festival di quest’anno, si sia evidenziato in maniera prepotente. Innegabile che, nonostante i tentativi di un Festival come quello di Cannes di negare e rifiutare le opere cinematografiche sponsorizzate dai nuovi colossi dell’e-commerce e di internet, ci si aspettava che prima o poi, una di queste pellicole, si sarebbero rese protagoniste nei grandi festival internazionali, e puntualmente quest’anno Venezia ha di fatto legittimato questa posizione. “Roma” e “The Ballad of Buster Scruggs” sono Netflix, ma non solo, “Suspiria”, in Concorso, è targato Amazon, ecc… Prendere atto di questo cambiamento, cavalcarlo se gli straordinari budget accrescono comunque la qualità dei lavori (che dovrebbe essere l’unica priorità), non demonizzarlo in nome di una stucchevole difesa della tradizione a tutti i costi, ma nemmeno esaltarlo come unica ancora di salvezza o nel nome di una modernità intoccabile da inseguire senza alcun dubbio, che potrebbe rivelarsi imprevedibile e anche rapidamente breve, sarebbe auspicabile. È necessario esserne coscienti, senza lasciarsi travolgere da isterie collettive, perché in ogni caso il futuro rimane imponderabile.
Si citava precedentemente “Suspiria”, il che apre il consueto capitolo sulle pellicole italiane. “Suspiria” di Luca Guadagnino, come ormai noto, è il remake-omaggio del Suspiria di Dario Argento. Questo, del Concorso veneziano, è indiscutibilmente il “Suspiria” di Luca Guadagnino, estremamente estetico e “poco horror” (apparentemente l’horror sembra inserito “controvoglia” per giustificare l’aggancio con l’originale). Personalmente mi ha lasciato con un giudizio neutro, ma cogliendo le voci di chi aveva visto di recente l’originale di Dario Argento, lo ha trovato migliore, se non altro per una sceneggiatura coerente e logica, che il Suspiria originale non aveva, ed anche per una collocazione storica interessante. Le altre due pellicole italiane del Concorso Ufficiale erano “What You Gonna Do When The World’s On Fire?” di Roberto Minervini, interessante docu-film sulle attuali condizioni dei neri americani sotto la reazionaria presidenza di Donald Trump e “Capri-Revolution” di Mario Martone, ispirato alla comune che il pittore Karl Diefenbach creò a Capri all’inizio del Novecento. Roberto Minervini continua nel suo percorso di analisi della società americana, dove peraltro vive (attualmente abita a Houston in Texas), che aveva contraddistinto i suoi precedenti lavori, Stop the Pounding Heart e Louisiana. Anche Mario Martone ripropone, con la sua consueta visione estetica, come in altri suoi ultimi lavori, l’analisi storica dell’Italia degli inizi del secolo, alla faticosa ricerca di una propria identità. Nonostante i tre film italiani, per proprie caratteristiche, avrebbero difficilmente potuto ambire ad un premio importante, averli nel concorso ha accresciuto ulteriormente l’interesse dell’ottima selezione di quest’anno. Pochi, per altro, i film italiani da me visionati in questa edizione, sia per l’abbondanza di interessanti titoli stranieri alternativi, sia per il disinteresse per certe pellicole nostrane proposte. Fra le poche da segnalare c’è sicuramente “Sulla Mia Pelle” di Alessio Cremonini, selezionata nella sezione “Orizzonti”. Non a caso targata anch’essa Netflix, ripercorre gli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi, il ragazzo romano morto in carcere nel 2009, vicenda dal lungo iter processuale che ha riscontrato grande clamore e visibilità mediatica. La visione veneziana ha fatto apprezzare il film e soprattutto l’interpretazione di Alessandro Borghi. Ma è soprattutto con la sua attuale ed immediata uscita in sala e contemporaneamente sulla piattaforma Netflix, che si sono accese grandi polemiche, sia per la riproposizione della vicenda ancora molto oscura nelle sue dinamiche e responsabilità, sia anche per le modalità di accesso al film che ha registrato molti malumori fra gli addetti ai lavori (dagli esercenti, ai distributori, ai produttori). Tutto questo, come precedentemente sottolineato, a dimostrare le possibili isterie collettive che potrebbero segnare il cinema dei prossimi anni. Tornando alla 75a Mostra, la qualità espressa dal Concorso Ufficiale, la si è riscontrata anche nella Sezione Orizzonti, che, in questa edizione, ho particolarmente frequentato. Cito le pellicole che ho più apprezzato, non perché siano state in assoluto le migliori, ma perché corrispondono ad un mio più personale gusto estetico. In particolare tre, “Charlie Says” di Mary Harron, che ripercorre l’esperienza della setta di Charles Manson attraverso le testimonianze di tre giovani donne, condannate alla pena di morte per il coinvolgimento nei crimini durante i quali furono assassinate nove persone, “Tel Aviv On Fire” di Sameh Zoabi, divertente commedia che racconta il tema delle differenze nella difficile e drammatica situazione israeliana-palestinese, e “Anons (L’annuncio)” di Mahmut Fazil Coşkun che attraverso la tragicomica rappresentazione di un fallito colpo di Stato, evento realmente accaduto in Turchia nel 1963, diventa un resoconto del complicato passato politico, ma anche tragicamente presente, del Paese.
Per quanto riguarda le sezioni non ufficiali, ho saltato a piè pari la Settimana della Critica, che proponeva una selezione, per i miei gusti, poco accattivante (magari sbagliando, non posso oltremodo esprimere giudizi), mentre sono riuscito a ritagliarmi qualcosa nelle Giornate degli Autori, dove ho rincorso quelle cinematografie che negli anni ho più apprezzato. Mi fa piacere che il GDA Director’s Award (la giuria degli autori) abbia premiato “C’est ça l’amour – Real Love” di Claire Burger, avendo valutato fra le pellicole meritevoli anche “Pearl” di Elsa Amie, due dei miei film scelti da visionare, per questa sezione.
Nelle proposte Fuori Concorso, ad esclusione di “A Star Is Born”, debutto come regista di Bradley Cooper e terzo remake (1954-1976-2018) del film “È nata una Stella” del 1937, evento, per la presenza di Lady Gaga, del primo weekend festivaliero, pellicola che non mi ha convinto totalmente (difficile comunque confrontarsi con il film dei fratelli Coen, visto precedentemente in quella mattinata), ho trovato delle piacevoli sorprese.
Naturalmente Frederick Wiseman, ormai una fissa e gradita presenza qui al Festival di Venezia, che con questo “Monrovia, Indiana”, stavolta ci porta ad analizzare la vita in una piccola cittadina del Midwest rurale americano (1400 abitanti). Ma anche Amos Gitai, con un doppio lavoro di fiction e documentario, Zhang Yimou che con “Ying” ci ripropone l’epica del wuxia in un notevole quadro estetico e visionario, Pablo Trapero con “La Quietud” che ci attira all’interno di un inquietante storia familiare, ed un bel film di chiusura come “Driven” di Nick Hamm, che ci spiega da dove nasce quella che diventerà una predestinata icona cinematografica, la mitica auto DeLorean di Ritorno al Futuro.