Un testo breve, un monologo al femminile struggente e impietoso, disperato e spietato, intenso e profondo. Magris rivisita il mito di Orfeo ed Euridice in chiave moderna, muovendosi tra esperienza personale e modello universale, con uno stile semplice, colloquiale, ma mai banale.
L’io narrante è stata la Musa ispiratrice di un poeta, del quale non manca di evidenziare debolezze e difetti. Ora lei si trova in una misteriosa Casa di Riposo, un moderno Ade sorvegliato da cani elettronici, un luogo dalle luci opache, silenzioso, dove anche le poche parole si perdono in bisbigli. Lì non si possono ricevere visite, né uscire, è un luogo tranquillo, molto affollato, ma inaccessibile al resto del mondo. Nessun oggetto personale è ammesso nella Casa, che è grandissima, labirintica, piena di scale, corridoi, cantine, stanzoni, ma non infinita.
Nel suo monologo la donna si rivolge al Presidente, l’entità misteriosa che ha fondato e governa la casa: egli sa tutto del cuore umano, esiste da sempre, ma è invisibile e quasi inudibile, non si sa dove sia e dove volgere lo sguardo per trovarlo, per questo spesso è assai difficole udire le sue parole. Egli non si mostra né ai vivi (forse travestendosi?- si chiede lei), né ai morti, su di lui circolano bugie e luoghi comuni, ha fama di misericordioso e giusto, ma è e rimane inattingibile.
“Ma lei, Presidente, dev’essere certo un poeta, nascosto e grande, anonimo, come quei grandi poeti antichi, che non si sa chi erano… Dunque, se ha lasciato che venisse a prendermi, deve aver letto il suo cuore meglio di me, perché talvolta anch’io…” (p.35)
Euridice narra, sulla scia dei ricordi comuni, la bellezza e la storia di un amore indissolubile, che va oltre la morte, ma anche gli sbandamenti, le ripicche e piccole miserie della condivisione quotidiana. È una figura femminile dolce e forte, sicura del suo potere sull’uomo amato e della sua superiorità su qualsiasi altra donna da cui il marito può esser stato temporaneamente attratto. È stata la compagna di una vita ed ora è uno spirito onnisciente, cui nulla sfugge del suo uomo: abitudini, reazioni, capacità, difetti.
Conosce i propri meriti, il proprio ruolo di equilibratrice e ordinatrice, è stata il sostegno per quel poeta che è precipitato nella disperazione dopo la sua scomparsa e che ora trova il pazzo coraggio di venirla a cercare laddove nessuno ha mai osato.
La loro condivisione è stata totale, non solo la casa, le piccolezze, ma anche la scrittura: lei ascoltava e rifiniva i suoi testi e lo consigliava, lei li trascriveva a macchina, dietro gli allori letterari del suo uomo c’è lei….
“Ma…ma lo sa anche lui che, a parte tutto, è fra le sue braccia che sono diventata una donna ed è fra le mie che lui è diventato un uomo….un uomo vero, non un narciso guardingo; uno che va per la sua giusta strada e non ha paura di cosa gli potrà capitare”.(p.17)
“È bello essere amata da un nevrotico, dà sicurezza. Sai che non gli passerà, un’idea fissa resistente a tutti i colpi della vita”.(p.19)
Attraverso le parole di una donna, Magris realizza un grande omaggio a questa figura femminile . e implicitamente alla femminilità tutta – è un canto d’amore e di nostalgia, intriso di ricordi felici e di dolore.
È la vita di coppia con pregi e difetti a delinearsi nel racconto.
È il canto di un amore indissolubile, che va oltre la morte e sa essere implacabile, geloso, talvolta difeso a unghie sguainate da lei. A lui il ruolo di poeta:
“Ti è sempre piaciuto scrivere, non importa cosa, scrivere punto e basta; è il gesto che conta, gesto di poeta, gesto da re, sovrano arbitrio sulle povere vocali e consonanti che saltano fuori a comando e si mettono in fila, avanti marsc’, fila destr, rompete le righe”. (p.28)
Le memorie scorrono rapide, fluiscono via fino al momento finale: Orfeo scende nella Casa ed Euridice comincia a seguirlo per poter rivedere il mondo, la luce del sole, vuol sentir parlare il suo amato, sapere che cosa ha fatto e scritto, “parlare, talvolta, è fare all’amore” (p.46).
Le parti si ribaltano però:
“Non, non era venuto per salvarmi, ma per essere salvato. Come potrei cantare le mie canzoni in terra straniera? Mi diceva. Ero io la sua terra perduta, la linfa della sua fioritura, della sua vita. Era venuto a riprendersi la sua terra, da dove era stato esiliato. E anche per essere di nuovo protetto da quei colpi feroci che arrivano da ogni parte e che io avevo sempre parato per lui, le frecce velenose destinate a lui che incontravano invece il mio seno, tenero nella sua mano ma forte come uno scudo rotondo a ricevere e a fermare quelle frecce, a intercettare e ad assorbire il loro veleno prima che arrivasse a lui. Alla fine sono state troppe e il veleno mi ha vinta, però fra le sue braccia anch’io sono stata felice e senza paura; non importa dove arriva la freccia, sul fianco o sul cuore, sul mio o sul tuo, quando due sono uno. Senza di lui, anch’io non sarei stata niente, come lui; una donnetta e un ometto che si guardano pavidi intorno cercando di far bella figura, senza vedere i gigli dei campi”. (pp.39-40)
Il monologo diviene ricerca del senso ultimo e di una verità inattingibile. Gli interrogativi s’infrangono contro la barriera dell’inconoscibile e l’amore si fa disperato e disperante.
Euridice chiamerà Orfeo a gran voce, lui si volterà e sarà la fine. Tornare avrebbe significato dover rispondere alle domande del poeta sul Vero, su quel che esiste oltre le porte bronzee della Casa.
“Là fuori, signor Presidente, si smania di sapere; anche chi fa finta di disinteressarsene darebbe non so cosa per saperlo. Lui poi smania più di tutti, perché è un poeta e la poesia, dice, deve scoprire e dire il segreto della vita, strappare il velo, sfondare le porte, toccare il fondo del mare dov’è nascosta la perla”.(p.49)
Come dirgli che è soltanto un gioco di specchi, che non c’è nulla di nuovo e che la verità, se c’è, è irraggiungibile?
Orfeo ne sarebbe rimasto distrutto, o peggio ammutolito e dunque Euridice lo lascia per sempre:
“lo vedevo ritornare straziato ma forte alla vita, ignaro del nulla, ancora capace di serenità, forse anche di felicità”. (p.55)
La sua rinuncia è un ultimo atto d’amore.
Dopo gli inferni e le scissioni dell’io di “Alla cieca” Magris ci regala in questo testo breve un canto appassionato e dolente, vivo e reale, capace d’introdursi sia nella quotidianità dell’esistenza che nella ricerca del suo senso ultimo, una ricerca che non approda a nessuna risposta sicura.
Il mistero, la Verità rimangono irrisolti e al Nulla disperante, allo smarrimento nel mare del niente, è preferibile quell’inconsapevolezza che Euridice vuol lasciare al suo Orfeo come dono ultimo.
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Claudio Magris è nato a Trieste nel 1939, dove insegna all’Università Letteratura tedesca. Collabora da molti anni al «Corriere della Sera». Autore di fondamentali saggi sulla letteratura mitteleuropea, prima di Alla cieca ha scritto altre opere di narrativa e di teatro, tra cui ricordiamo: Danubio, Un altro mare, Microcosmi, Stadelmann, La mostra.
Lei dunque capirà, Milano, Garzanti 2006. Claudio Magris,