(qui il testo originale di Christian Michel Tsanga Atangana)
Ci sono momenti in cui l’azione è meglio di qualsiasi parola, ci sono momenti in cui “la verbosità diventa molto pericolosa (…). Dà la sensazione che si faccia qualcosa anche quando non si fa proprio nulla”[1].
È una sensazione che si prova nell’osservare ciò che accade tra israeliani da una parte e palestinesi dall’altra. Penso sia dovere di tutta la comunità internazionale (da intendersi comprensiva di Stati e individui) impegnarsi maggiormente a far in modo che l’obiettivo di uno Stato palestinese diventi una realtà concreta.
Sono convinto che la pace sia una costruzione permanente, ma è pure l’affermazione di una forte volontà di modernizzazione e di sviluppo. Essa è il frutto di compromessi e di lavoro, ma allo stesso modo frutto del lavoro di uomini e donne capaci di andare controcorrente.
Saper costruire un ambiente di pace offre a tutti gli attori di un tale processo, un avvenire nella Storia universale. Ciò che è certo è che non dà successo immediato. Tuttavia, i rapporti costruita sulla forza appassiscono come fiori al sole.
Meglio di chiunque altro, israeliani e palestinesi sanno che la pace è un processo in cui devono essere fatte concessioni difficili e dolorose. Meglio ancora, spetta alla parte più forte saper fare concessioni meno spettacolari ma più dolorose al fine di scrivere una nuova pagina nella storia dell’umanità, ma ancor di più per perpetuare la grandezza e la potenza di una società. La mia convinzione è che debba essere il più forte a costruire la pace, altrimenti la pace sarà fatta a malincuore.
L’attuale politica del governo israeliano è, nel lungo termine, disastrosa. Continuare ad appoggiarsi sulla potenza americana è un errore strategico[2] che bisogna rapidamente correggere. Gli Stati Uniti non continueranno a sostenere interessi che vanno contro i propri e già vi sono dei movimenti in questa direzione in seno alla opinione pubblica americana e nel resto del mondo, cosa impensabile fino a qualche anno fa.
Le varie critiche che fino a ieri non si formulavano per evitare di essere tacciati come “antisemiti”, si esprimono oggi anche all’interno della società israeliana, attraverso un giornale come Haaretz. Questa situazione obbliga i politici a modificare le opzioni strategiche che guidano la gestione del conflitto con i palestinesi.
Data l’evoluzione delle nostre società e i superiori interessi dello Stato di Israele, mi pare opportuno unire la nostra modesta voce all’opera di costruzione della pace in Medio Oriente, affinché Israele riesce a proporre ai palestinesi una pace giusta ed equa. Si tratta di riconoscere le rivendicazioni forti e legittime del popolo palestinese e ammettere che questa terra, israeliana o palestinese che sia, è la terra di due nazioni, accettandone una qualche partizione[3]. Fare questo non ridurrebbe in alcun modo il potere dello Stato. Al contrario, ne uscirebbe più forte, più grande e più rispettato.
L’Africa offre nella costruzione della pace, un esempio che molti possono apprezzare, copiare e adattare, con il processo che ha portato alla risoluzione della controversia frontaliera tra Camerun e Nigeria attraverso la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja e poi il successivo accordo di Greentree.
Infatti, la Corte Internazionale di Giustizia ha adottato una decisione il 10 ottobre 2002[4] che verteva sulla delimitazione dei confini terrestri e marittimi tra Camerun e Nigeria. Risulta importante sottolineare che questo conflitto si era sviluppato in seguito all’occupazione da parte della Nigeria nella penisola di Bakassi, che il Camerun contestava la presenza sul proprio territorio di una potenza straniera, che questo conflitto si protraeva per diversi decenni e aveva portato agli accordi di Maroua negli anni ’70. In seguito all’entrata dell’esercito nigeriano nel territorio di Bakassi, la reazione del Camerun fu inizialmente di fermare questo sconfinamento e contenerlo, quindi di adire la Corte Internazionale di Giustizia per far prevalere la forza del diritto. In maniera appropriata e dopo una lunga procedura, la Corte aveva, come organo legittimo e autorevole, adottato una decisione che le parti hanno rispettato. Questo episodio offre l’occasione per sottolineare il valore di un Uomo di Stato che, piaccia o meno, ha saputo conquistare il suo posto nella Storia, evitando al suo popolo e al continente intero una guerra inutile. Ugualmente si ha modo di evidenziare il coraggio di un leader che ha saputo accettare e fare accettare questa sentenza ad una nazione senza farsene sentire umiliati.
In seguito a questa decisione, il 12 giugno 2006, a Greentree è stato concluso un accordo al fine di rendere effettiva la decisione della Corte. E questo è ciò che è avvenuto.
Questo esempio serve ad illustrare che qualsiasi approccio che integri il rispetto del diritto e una diplomazia ottimista può far progredire le cose in maniera significativa. Sottolinearlo non significa negare la complessità di ciascuna specifica situazione, né la difficoltà che si ha nel sollevare questioni sensibili.
La mia convinzione si basa sulla convinzione che Israele è uno Stato legittimo che merita di vivere in pace, ma ugualmente legittima è l’aspirazione del popolo palestinese ad avere uno Stato indipendente e legittimo.
Non sarebbe bello e straordinario avere due nazioni, due popoli, due Stati con la medesima capitale, con confini segnati nello spazio, ma non visibile alla sensibilità di occhi umani?
In conclusione, nel corso di questa disamina in favore della pace tra palestinesi e israeliani si è cercato di sottolineare che la via proposta è sicuramente lunga e difficile, ma allo stesso tempo esaltante. Accettare di porsi sulla scia di una pace reale è un invito a saper osservare ciò che accade intorno a noi in termini di promozione e costruzione della pace, pur riconoscendo che ogni caso è un “unicum”. Si tratta di “guardare al futuro e senza farsi legare le mani dal passato”[5]. Questo è l’unico modo che abbiamo perché questo conflitto si ascriva alla piccola storia della evoluzione delle nostre società, ma anche alla grande Storia dell’Umanità.
Christian Michel Tsanga Atangana è nato il 30 maggio 1979 a Yaoundé, in Camerun.
Laureato in Diritto e Scienze Politiche all’Università di Ngaoundéré, e in Scienze Sociali presso l’Università Cattolica dell’Africa Centrale, ha conseguito un Master in Contenzioso ed Arbitrato degli Affari nella stessa università. Attualmente, si occupa di relazioni internazionali e tematiche legate allo sviluppo dell’Africa collaborando con importanti ong europee e africane.
[1] CHEVENEMENT J.-P., Défis républicains, Fayard, 2004, p. 554.
[2] LIEVEN A., Le nouveau nationalisme américain, Gallimard, 2004, p. 402.
[3] AMOS O., From Jerusalem to Cairo: Escaping from the Shadow of the past, dans Israel, Palestine and peace: Essays, Harcourt, Brace & Co., New York,1994, pp. 36-37.
[4] D’ARGENT P., Des frontières et des peuples: l’affaire de la frontière terrestre et maritime entre le Cameroun et le Nigeria (arrêt sur le fond), AFDI, 2002, p. 281; LABRECQUE G., Les Différents territoriaux en Afrique: Règlement juridictionnel, l’Harmattan, Paris, 2005, pp. 339-397.
[5] OLINGA A. D., L’Accord de Greentree du 12 juin 2006 relatif à la presqu’ile de Bakassi, l’Harmattan, Paris, 2009, p. 116.