Non andai il giorno seguente a casa di Jenny, mi presentai circa due settimane dopo, di domenica, con una confezione di Heineken da sei e due filmetti a luci rosse che affittai la mattina stessa da una videoteca in paese. Ne presi uno con protagonisti neri, magari se la prende pensai: si trattava di quattro giovani con aste da far paura che facevano la festa ad una specie di Jessica Rizzo africana dalla sorci grassa e pendente e l’altra pellicola era italiana, di quelle "fai da te" girata da coppie esibizioniste in stanze orride, non ammobiliate, e con i protagonisti dai volti coperti. Era curioso in quei video vedere come certe donne dai seni pendenti, si cimentavano in interminabili e rassegnati rapporti orali succhiando anima e cervello a dei cadaveri sdraiati a bocca aperta.
Fui costretto a lasciare la macchina a circa un chilometro da quel buco di casa di Jenny per via di una maratona di rincoglioniti in pantaloncini e canotta che scorrazzavano per le strade del centro cittadino. Percorsi interamente Viale Imperatore Traiano a piedi costeggiando una lunga cancellata e scansando una fila di merde sul marciapiede, poi proseguendo su Corso Sonnino, incontrai una pizzeria, negozi di biancheria intima, presso i quali mi soffermai a dare un’occhiata sulle ultime mode per non restare completamente fuori dal mondo, due cinema ed una chiesa brulicante di gente ben vestita. Alcuni gruppi d’adolescenti eccitate sostavano nel cortile. Dopo aver sorpassato vari circoli ricreativi da dove provenivano urla del tipo "Cazzo! L’ho buttato io il settebello." oppure "Nick, piglia due birre dal frigo!" passai davanti un’agenzia di riti funebri e l’insegna a semicerchio sulla porta mi fece riflettere un po’.
Fu dopo essere stato superato da qualche passante che vidi l’effigie troneggiante a caratteri grandi: "L’umanità"; sicuro, le morti improvvise e imprecate, o quelle semplicemente scontate. L’umanità era un corteo funebre o la morte stessa era l’umanità.
Jenny abitava in una palazzina ficcata in mezzo ad altre decrepite, su di una traversa del Corso, a formare un continuo caseggiato per tutta la via fino all’incrocio. La rampa di scale ripida con i piani dei gradini formati da massi lisci bucherellati, era sudicia, la salii a due a due. Era un condominio d’immigrati somali, senegalesi che la mattina affollavano i portici di Via Capruzzi e Piazza Umberto contrabbandando occhiali da sole, cinture in falso cuoio, CD a altre cazzate. Attraverso i muri delle stanze si sentivano le voci degli inquilini, tanto erano sottili ed attaccati l’un l’altro, e i vani degli appartamenti erano disposti in maniera tale che da una finestra della tua cucina con un balzo potevi passare nella camera da letto di un altro.
La porta era di acciaio, socchiusa, la spinsi piano evitando di fare rumore e me la trovai di fronte, la salutai e serrai il chiavistello.
"Cosa fai?" dissi prima di accendermi una sigaretta.
"Amore guardo la Tivù."
L’appartamento era peggio del mio, non vi era dubbio, consisteva in una sola stanza, circa quattro per cinque e c’era di tutto, era impensabile come vi avessero trovato posto due letti matrimoniali, scaffali, mensole attaccate alle pareti, un piccolo televisore con videoregistratore, un tavolino ed un modesto impianto hi-fi Kenwood di vecchia generazione. Accanto al letto di Jenny c’era un carrellino rotabile sul quale erano appoggiati dei cestini strapieni di roba. Era comodo però perché era tutto a portata di mano: rossetti, matite, collant, magliette, giacche giacenti sul letto di Mary, scarpe in un angolo, un ventilatore e delle corde di nylon che si stendevano da un muro all’altro con vari indumenti femminili appesi. Non avevo mai creduto fino a quel momento di trovare una stanza messa peggio della mia, sembrava la dimora di un mafioso latitante dopo un assalto dei DIA.
Appoggiai il sacchetto sul tavolo in mezzo alla stanza. Diede una scorsa alle birre, era seduta sul letto e rimase lì seguendo un po’ quello che facevo con lo sguardo.
Non che non fossi abituato al disordine ma la mancanza di qualcosa, di cui non avevo la minima idea di cosa fosse la sentivo subito, era stomachevole e rabbrividente. Anche il mio era un appartamento povero, ma lì toccavi con mano la privazione e benché non fossi mai stato un grosso credente ebbi l’impressione che Dio non conoscesse per niente quel posto. Ero lì da pochi minuti e avevo voglia di scappare, sì come un codardo, un cinico. Qualche volta ammetto di aver avuto timore delle donne, del loro modo di metterti sempre a confronto con gli altri del tuo genere e di giudicarti sempre, del loro essere vincenti in ogni situazione nonostante tutto. Avevano sofferto ed aspettato per secoli ma da ora in avanti si preparavano a raccogliere i frutti della sopportazione della viltà degli uomini; le aveva rese coriacee e audaci.
Cercai per un momento di non guardarla, Jenny portava una camicia jeans probabilmente indossata già un bel po’ di volte poiché il colore originario sembrava scurito, dei pantaloncini grigi con la molla in vita e delle pantofole maschili; rimase seduta sul letto. Solo allora mi accorsi che aveva un culo incredibilmente grande, quei pantaloni che metteva quando uscivamo compivano un piccolo miracolo perché riducevano sicuramente della metà quel sedere accasciato sul letto e le cosce, anch’esse nude e grasse. I capelli, e questo mi portò al limite della sopportazione, erano tenuti da un copricapo formato da una calza annodata sulla testa, come fosse un preservativo. L’unica finestra era ricoperta da una tela marrone con i bordi sfilacciati che facevano pensare fosse stata strappata e messa lì e scorreva a destra e a manca su un filo di ferro appeso al muro da due occhielli. Era praticamente un buco nel muro, mi chiedevo come la serrassero d’inverno. La stanza era abbastanza buia, gli unici raggi di sole trapelavano dalle estremità della tela ed altri ghirigori colorati si muovevano sul letto di Jenny in direzione dello schermo di un televisore. L’ambiente era intriso di una mescolanza di odori, dalle essenze di varie creme da toilette a quelle più fastidiose provenienti da parti più o meno intime del corpo.
"Ho la macchina ad un miglio di qui." Dissi con tono scocciato.
"Cosa c’è?"
"Bari è transennata in tutto il perimetro per via di alcuni bastardi che corrono. Hanno paralizzato la Città!". Alla fine dei conti mi chiedevo cosa cazzo c’ero venuto a fare, era stata una cattiva idea presentarmi lì quella mattina per scoprire che la donna con la quale stavo uscendo e che mi avrebbe spillato un po’ di soldi, messa a pecorina accanto ad una mucca, sarebbe stata sicuramente montata da un toro.
Ero tutto sudato, gettai la cicca dalla finestra e poi cominciai a togliermi le scarpe, i jeans e mi tenni la camicia con le maniche arrotolate. Volevo farla finita, fare il mio dovere di maschio e andarmene via. Dopo un po’ cominciò una specie d’interrogatorio pressante, chiedendomi spiegazioni su tutto ciò che le avevo promesso tempo addietro e non avevo mantenuto.
"Dicevi che mi portavi il giornale."
Già, avevo dimenticato di dare un’occhiata a qualche annuncio di affittacamere, mi aveva detto che quella camera era troppo piccola per lei e Mary e non ci avevo creduto. Sapevo dove abitavano perché una volta mi era capitato di accompagnarle a casa, ma non ero mai salito da loro.
A proposito dov’era Mary?
"E’ uscita con un amico." Mi rispose.
"Quando mi compri gli orecchini?" Cazzo gli orecchini! L’ultima volta che c’eravamo visti gettai per errore dal finestrino della macchina un suo orecchino. L’avevo scambiato per il tappo di una birra; insistette che fosse di oro anche se io non ero sicuro e pretese un regalino per il prossimo appuntamento.
Proseguì ancora: " E la macchina?" "Dicevi che mi avresti insegnato a guidare."
Non ce la feci più, mi alzai, presi una birra calda dal sacchetto, trovai uno di quelli utensili per la pedicure sul carrellino di fronte al letto e la stappai. Mi sdraiai a faccia in aria, e mentre avvicinai la birra alle labbra finsi di interessarmi alle immagini che uscivano dalla tivù mentre lei teneva ancora su di me quello sguardo accigliato in attesa di qualche mia risposta.
Si vedeva della gente di colore in una baracca con i muri di canne di bambù ed il tetto di terra secca e foglie di banano. Era di sera ed intorno a quella strana costruzione, lampadine dalla luce debole illuminavano un porticato fatto di paletti di legno e dei viottoli fangosi; alcuni giovani ballavano al suono di musica rock con indosso camicie lunghissime a fasce e colori dorati. Poi si vide l’interno di questa baracca ed un gruppo di anziani seduti: donne ed uomini che mangiavano alcuni frutti di una qualche pianta tropicale, noci di cocco e bevevano succo di cocco fermentato, molto alcolico a detta di Jenny. Alcuni di questi sembravano avere più di cento anni.
"E’ una festa a casa di mia nonna, ecco quella lì è mia nonna, questa è mia sorella…"
Per fortuna la fece finita con tutte quelle domande assolutamente fuori luogo e cominciarono le presentazioni. Presi il portafoglio dalla tasca posteriore dei pantaloni adagiati ad una sedia e presi un centomila che appoggiai sul tavolo. Lo vidi arrotolarsi. Jenny diede un’occhiata alla banconota e mi strappò di mano la birra che avevo ripreso dal tavolo.
Cominciai lentamente a liberarla dalla camicia già sbottonata sul davanti e mentre bisbigliava un motivo simile ad una nenia che proveniva dal televisore, le staccai anche il reggiseno. Anzi per la verità ci misi un po’ di tempo, sapete com’è staccare tre cazzo di fermagli di un elastico un paio di misure più piccolo per lei. I due seni si riversarono fuori arrivando fin quasi a toccarle il grembo, erano mostruosamente grandi e pesanti quando le toccavo, ed ero sicuro che le donassero al collo una specie di effetto lifting. Quando la feci sdraiare e mi riversai su di lei, mi accorsi che le puzzava l’alito, ormai non potevo più tirarmi indietro, mentre dalle pareti arrivavano delle grida: "Tu non mi fai uscire mai, mi tieni sempre chiusa in casa, almeno facciamo un bambino, ma che cazzo d’uomo sei, Eh?!… Ma un giorno ti faccio vedere io ti faccio…"
Seguì la replica di una voce maschile, mi disinteressai, erano scenate che si potevano ascoltare anche dal mio appartamento, gli uomini e le donne passavano la maggior parte del loro tempo a discutere, lottare, e a volte si ammazzavano sempre per gli stessi argomenti. C’era quasi sempre un controsenso tra quelli che consideravano i propri legami come una specie di resa incondizionata, come se dovessero obbedire ad un ordine o espletare un bisogno fisiologico. Così erano le poche donne che avevo conosciuto.
Le strofinai ben bene l’arnese su quelle dune spoglie a cavalcioni su di lei e le passai e ripassai la punta. L’avevo visto fare in uno di quei film ma non ci trovai niente di speciale. Poi lei disse "Smonta…!" spiaccicandomi sul letto come un ranocchio dalla gola pulsante e si avvicinò, sollevandosi, al mobiletto di fronte, dal quale tirò fuori una scatola di preservativi. Ricominciò ad accennare quella melodia.
Da sopra arrivavano rumori di tutti i tipi, urla, strida di risate dopo un brindisi e l’eco di un pezzo Reggae vecchiotto. Si rifece viva dopo un po’ la voce di quell’uomo che adesso picchiava la donna. Dalla finestra arrivava lo scampanare dalla chiesa vicina e mi sembrò di sentire anche l’odore del dopobarba degli uomini agghindati, mi pareva di vederli sul piazzale ad immaginarsi chissà cosa su quelle ragazzine.
Jenny m’infilò un preservativo in quattro e quattr’otto; era fatta, avremmo fregato la natura anche stavolta, non mi rimaneva che farlo, ma morii dopo alcuni colpi, troppo pochi per lei.
Sapevo già a cosa stava pensando quando mi ritrassi e mi misi di fianco a lei, ma in maniera del tutto imprevista incamerammo un’insolita conversazione:
"Perché poco sperma?" Esordì Jenny dopo aver guardato e tastato il guanto con la punta delle dita.
"Cazzo dici!"
"Te n’è uscito poco, che merda di uomo sei". Continuava con tono superbo. Porca miseria non mi veniva in mente niente per controbatterla! Ancora una volta era capitata una di quelle circostanze in cui invidiavo John Waine e Steve Mc Qeen, loro sì che avevano sempre la battuta pronta.
"Piccola, è la qualità che conta, ricordati".
"Stronzo…! Sei stato con una troia di Albanese!". Era gelosia, adesso la tastavo. Ma non ero stato con nessuna, erano tre mesi che non vedevo una donna, tranne lei.
"Magari…". Dissi.
"Oppure tu fare sega." Inutile, voleva sempre trovare una spiegazione a qualunque cosa.
"Beh, ehm…A dire il vero ho infilato l’uccello in un cocomero."
"Cooosa?!"
"Sì, ci ho fatto un buco da un estremità e poi…Capisci?"
"Forse sei frocio!!"
Mi abbandonò sul letto come un leone dopo l’accoppiamento, si alzò e andò in bagno, e giacché era distante circa due metri e mezzo e non vi era porta, dovetti guardarla mentre si sciacquava le parti intime: prese una piccola bacinella rossa, la riempì a metà d’acqua calda ed una spruzzata di sapone liquido, ed accovacciata sul vaso a gambe aperte fece quello che doveva fare.
"State fermi, Polizia!". In quella palazzina stava succedendo il finimondo, altri agenti erano entrati negli appartamenti di sopra, li potevo sentire dal soffitto mentre altri due, un maschio ed una femmina in divisa, erano entrati nel bagno ed immobilizzavano Jenny. Poi spuntò anche un pastore tedesco. Tutto si muoveva in quella stanza tranne i capelli tirati all’indietro del poliziotto che mi puntava la sputafuoco. Il cuore mi andava a trecento e quel bastardo non si decideva a mettere giù la canna.
Le uniche parole che riuscii a tirare fuori furono:
"Cazzo volete, non sto…non sto facendo niente!"
Mi guardai all’altezza della vita e vidi il preservativo che pendeva fuori come la lingua di quel cane che stava annusando ogni angolo della stanza. La poliziotta ammanettò Jenny che intanto si era tirata su le mutande, l’altro cominciò a smontare lo specchio, scoperchiare lo sciacquone, buttare giù cassetti e poi rivoltò il letto di Mary.
"Adesso scendi e mentiti in ginocchio di fronte al muro!" Ordinò John Travolta, anche gli anfibi che indossava erano tirati a lucido. Tremolante e con le mani dietro la nuca mi alzai dal letto, quasi non sentivo più le gambe. M’inginocchiai accanto alla rete e sentii il cane avvicinarsi da dietro, portò quel dannato muso su per il culo e poi mi lambì le palle. Pregai Dio che non lo facesse, volsi lo sguardo verso giù ed era tutto a posto, ma non si allontanò da me anzi si precipitò come una furia verso il bordo del materasso dalla mia parte.
Quello con la mitraglietta disse a voce rauca: "Guarda qui, guarda qui!" Rivolgendosi al collega in divisa. Io feci qualche respiro lungo ed insistetti: "Lì ci sono i soldi, potete controllare, è una puttana…una puttana, volevo solo scopare."
A quel punto l’agente in divisa si avvicinò con volto minaccioso, pensai che volesse mollarmi uno ma non tentai nemmeno di ripararmi, sembravo un camaleonte immobile a macchie verdi e marrone, invece alzò il materasso e da sotto ci trovò una cerniera lunga tipo zip. La aprì con un colpo veloce verso destra e improvvisamente caddero sul pavimento due buste trasparenti arrotolate. Uno di loro le raccolse e le aprì. Ci trovarono della roba all’interno, quando rabbrividii sentendo alle mie spalle: "E’ coca…mmmh, abbastanza pura." Fu quello il verdetto.
Oh merda! Quella troia tirava cocaina, o forse la deteneva per fare un favore a qualche suo amico nordafricano, sotto compenso naturalmente.
Jenny non disse niente e non mi volse nemmeno lo sguardo durante il tempo in cui mi rivestii e mi ammanettarono. Mise su dei Jeans neri, abbastanza nuovi, una camicia bianca pulita ed un giubbino, al resto ci avrebbe pensato Mary se non fosse finita anche lei come noi. Il papà di Jenny e tutti gli altri che facevano la loro apparizione in tivù, portavano copricapo simili a tamburelli colorati e le voci dagli altri appartamenti zittirono.
Scendemmo le scale, io davanti a lei; giù c’erano delle volanti con i lampeggiatori accesi e notai sui sedili posteriori di una di queste, due giovani neri, uno con il capo chino e l’altro che accennava un sorriso nella mia direzione. Il sole aveva raggiunto la distanza più vicina alla terra, ma non riscaldava più di tanto. Prima di essere spinto in un’auto, vidi passare due vigili in motocicletta e dietro di loro c’era un tipo forse etiope alto e magro come uno spaghetto, con un numero di plastica sul petto. Si versò il contenuto di una bottiglia sul capo e si avviò galoppando solitario verso il traguardo della corsa.
Cliente da centomila e ultimo sull’arrivo
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All’improvviso sentii aprire il portone con violenza e poi dei passi lungo le scale che emettevano tonfi sordi, tipici di scarpe con le suole di gomma dura, poi anche urla ed abbaiare di cani. Non si riusciva a capire quanti fossero ma non ebbi nemmeno il tempo di pensare a cosa stesse succedendo che la porta si aprii di colpo, il chiavistello volò da qualche parte e mi trovai davanti uno con una casacca blu e una mitraglietta puntata su di me.
Joe Ferrara