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Il dio dell’impossibile – Patrizia Garofalo

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Il Foglio Letterario Edizioni – PP. 131 – euro 12,00
Essenza ed essenzialità della parola poetica

Amo la parola
La strappo dal cuore
Dall’incandescenza
Dallo squilibrio
Da processi indiziari
Lontana da me
Si apre distesa
Libera
Senza scorie

Patrizia Garofalo

È uscito di recente Il dio dell’impossibile (Edizioni Il Foglio, Piombino 2009), l’ultimo libro di versi di Patrizia Garofalo, nel quale l’autrice, scrive Paolo Ruffilli nella postfazione, mostra di “assestarsi al limite dell’io”, in una lucida e disincantata “consapevolezza dell’incontro paradossale tra l’eterno e il tempo”, tale da consegnare al lettore “un’idea di assoluto quotidiano”. Non c’è, da parte della Garofalo, una volontà di esorcizzare il tempo, una rivolta spirituale alla caducità e allo scorrer via degli anni, quanto di riscattare, affrancare – che equivale a dire a salvare – i momenti della propria esperienza. Compare in questi versi, dalla struttura classica e antiretorica, una tensione – non precisamente connotata – assimilabile alla sempre frustrata vocazione montaliana al volo che ambisce a travalicare il muro, a identificare una via d’uscita, seppure nell’ambito dell’immanenza, dall’imprigionamento nel cosmo. Al poeta non avanza che affidarsi alla parola, dispositivo ed emblema di una elevazione dall’ordinario e dal silenzio “che tace”, segno di uno scavalcamento, tutto umano, della qualità del vivere, nonché traccia dell’oltreumano che dimora nell’uomo. E la Garofalo tenta il mare e non teme di naufragarvi.
In Il dio dell’impossibile la scarsità dei referti oggettuali e l’essenzialità della parola, la sua funzione eminentemente espressiva e catartica, vanno oltre la stessa letteratura. Il soggetto lirico è tutt’altro che defilato, al contrario appare dispiegato, talora mimetizzato, nei riferimenti naturalistici e oggettuali, nella non referenzialità della descrizione e nella loro qualità di adombramenti di altri “dati” refertuali. I rimandi a una natura primordiale (terra, vento, neve, mare, sole, luna) diventano tonalità emotive (“Attendo altri mari / E / Altri inverni”) di una maniera di vivere intensamente l’abbandono e la solitudine in “una tonalità di troppo”, di farsi carico del dolore del mondo (“La mia aderenza totale alla realtà”). Il presupposto naturalistico spesso si dissolve nel trascolorare delle ore, nell’avvicendarsi delle stagioni che talora, per folgorazione, segnano l’ingresso del tempo e della memoria in una poesia in cui lo spazio pare essere estromesso. Per fare un esempio: “Ascolto il colore / Stordita dal silenzio”. Al sinestetico “ascolto il colore” segue lo stordimento di chi non ha ancora trovato parole che siano incarnate, “attaccate ai sentimenti”. E il silenzio cui si allude – oggettivato nei versi della Garofalo attraverso una modulazione lirica quasi impenetrabile al suono – è quello tardo-novecentesco che, come è stato detto, ha soppiantato l’abisso romantico e decadente.
La parola, per la Garofalo, è sintesi di logica ed emotività, è il tramite d’elezione per eludere quella compressione dell’emozione e del sentimento che creerebbe un’esiziale scissione dell’io, una sua degenerazione verso la tirannia della polarità e quindi verso la fragilità. Al contrario la poesia aiuta a costruire sé stessi, ad esprimersi, così come attraverso la psicoanalisi può avvenire il rinvenimento di un equilibrio interiore nel dissolvimento dei propri lati d’ombra. Dimensione logica ed emozionale trovano nella poesia – come supremo congiungimento di emozione e di linguaggio – un istante di equilibrio e restituiscono armonia e unità al soggetto.
La sostanza verbale di Il dio dell’impossibile, lontana da ogni intento ed esito edonistici (e che al contrario pare deprimere ogni slancio verso forme di estetizzanti), è una semantica della parola quale paradigma etico: poesia è affermazione ontologica, e quella della Garofalo è poesia di appartenenza, in cui anche i luoghi onirici costituiscono una via d’accesso a istanti affrancati dal peso del passato e dall’ansia del futuro. La parola – nella sua scansione risoluta ed essenziale per illuminazioni e pause – solleva l’esperienza dalla sconfitta esistenziale e dalla maschera sociale (“il profumo putrido di poche parole / dette per circostanza come ad un funerale”), salva dallo scorporamento e dalla desertificazione dello spirito per una rinascenza dalla superficie:
 
Volano le parole
Barriere di nuvole
Impediscono il cielo
Monche
Confuse
Senza ali
Precipitano
Calpestate dalla distrazione
Infangate dalla pioggia
Schiacciate dalla fretta
Che maledice il vento
I capelli bagnati
L’ombrello che non si apre
Il silenzio
Per chi lo ascolta è assordante
 
L’invocazione del nome di un Dio, “un Dio della terra” (“Il dio dell’Impossibile / Ti significa nell’anima”), è solo un tentativo di trascendere l’umanità banale, non problematica. È la ricerca del senso universale del divino, dell’afflato sopranaturale che pervade la realtà tutta – non un’esperienza paradisiaca: è insita una beatitudine, nella parola, che vince il tempo e rende simili a Dio. Si tratta di una ipotesi, di una possibilità, come indicato nell’enigmatica copertina del libro, la quale, mi dice l’autrice, è stata creata dallo scrittore e grafico Sacha Naspini dopo la lettura del libro. Essa viene a configurare il dio dell’impossibile di Patrizia Garofalo, e cioè “una costruzione speculare di un’immagine dell’universo, con due soli in eclissi e due raggi di luce che colpiscono in maniera ‘impossibile’ il paesaggio di due paesi vicini. Ma nell’universo tutto è possibile, persino delle eclissi che coprono due soli e producono scorci ‘matematicamente’, apparentemente improbabili”.
Nel libro si avverte la responsabilità umana di sottrarsi a un silenzio (la ricorsività dell’opposizione, nonché dell’implicazione, della coppia di mots-clé “silenzio-parola” è statisticamente un dato non trascurabile) che tace (“i poeti stuprano se stessi / Urlano anche quando tacciono”), di svincolarsi dal nulla esistenziale e dall’annientamento. Ma l’esistenza è dentro il tempo e dentro la storia e la coscienza storica. Niente giochi di parole, dunque, lungo i versi della Garofalo, niente rifugi o evasioni, ritorni o idealizzazioni. Solo uno sguardo consapevole, intriso di una quasi virile accettazione, sull’avanti e sull’adesso: in una parola, sul trasmutare.
Nominare è farsi penetrare dalla parola nella sua corporeità (“Arrivano parole / Attaccate ai sentimenti”), nel suo ritrovato spessore: e l’ampio ricorso all’asindeto spesso associato all’accumulazione, insieme alla grande scarsità della punteggiatura, non fanno che rimarcare il valore espressivo della parola poetica. Scrive nell’introduzione William Navarrete che nei versi della Garofalo “la sensualità, l’amore, il dolore e la vita diventano corporei”. L’autrice riesce a “farci sentire intensamente la vita” e i suoi gesti minimi acquistano il valore di correttivi non solo “contro la paura e anche contro il dolore” (“Li curerò con impacchi di parole”), ma anche contro “l’oblio e l’incomprensione” (“Tutto desiderai / Tranne la dimenticanza”). La parola è accrescimento della sfera umana, varco, liberazione (“Acconcio le parole / Vestali di vita e morte”). Libertà è anche trarsi dalla nullificazione attribuendosi la funzione di un dio, trasvalutando e travalicando i nostri limitati orizzonti:
 
Soffro e vivo
L’insufficienza della parola
Imprigionata dall’incapacità
Delle mura umide della nostra prigione.
Poche urlano libertà.
Non le riconoscerò più nell’abitudine a tacere
Nel silenzio del sogno.
 
Il soggetto lirico può operare solo dal punto di vista del linguaggio, ricercare un senso ulteriore o esatto oltre la denotazione, o talora anche oltre lo stesso abbaglio della lingua. Assistiamo allora al crollo dell’io dell’esperienza, al suo affrancarsi da sé stesso e dalla temporalità (“accompagnano l’andare errante / libero dalle reti del tempo”) fondendosi con l’armonia universale, alludendo alla percezione di una divinità nel Tutto – allusa qui dagli elementi della natura – senza per questo rinunciare all’imprescindibile binomio logica-emotività sotteso all’atto stesso di fare poesia.
Il poeta è uno scriba che attinge alla mente, e l’urgenza-atto dello scrivere sorge affinché emozioni, pensieri ed esperienza non restino confinati nell’ambito della pura potenza o latenza. La parola in Patrizia Garofalo è uno scarto dalla stasi, una decisa negazione della lettera morta e della dispersione, un messaggio di vita e di permanenza, e la sua poesia è un tentativo di “Restituire alla parola / La dimenticanza che l’ha storpiata”.

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