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Homo tecnologicus

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Homo tecnologicus

David Barrymore Junior guidava felice la sua Fleetwood Seville ultimo modello, acquistata due mesi prima, nel giugno del 2063. Era proprio contento di quella macchina stupenda, che imitava alla perfezione la carrozzeria e il motore di un modello del secolo prima, per la precisione del 1989. Stava percorrendo la statale 216, che da Denver porta a Rowlings, e aveva già superato la città di Walden. Sarebbe stato a casa nel giro di due ore.
"Ho cinquantadue anni" pensava, "ma li ho spesi bene". Aveva appena svolto con successo il suo primo incarico da executive, tenendo una conferenza davanti a un folto gruppo di texani sulla necessità di riconvertire una parte dei macchinari dei loro pozzi di petrolio in congegni di pompaggio per irrigare la Valle della Morte in California. Il business legato alla bonifica delle aree improduttive era in piena espansione. E forse era anche il caso che lui si trasferisse a Cheyenne, più vicino al quartier generale della Pipe Inc.
Si andava facendo buio. Era sintonizzato sul Canale 501, che trasmetteva musica country, ma anche dei rapidi bollettini sulla viabilità. Da quelle parti non c’erano problemi d’ingorgo. Tutto liscio come l’olio. Di tanto in tanto alla radio interveniva qualcuno al telefono, esponendo i suoi stupidi problemi. "Bifolchi" pensava David Junior, "non sanno nemmeno lontanamente cos’è il potere e il piacere che può dare".
Il cielo minacciava pioggia. Le nubi s’infrangevano contro le montagne davanti a lui, oscurando quasi del tutto il paesaggio. Gli rimaneva il tratto fra le gole, pensò, ma, superate quelle, si sarebbe sentito già a casa. Sua moglie gli aveva consigliato di andare a Denver con l’aereo, ma a lui non piaceva volare. Si rilassò. Avrebbe cenato tardi, ma ne valeva la pena, dopo una giornata così importante. La macchina accusò un leggero sibilo. Forse era l’eco del terriccio pietroso che era stato accumulato lungo i bordi della statale, in quella zona. Il terriccio finì, ma il sibilo continuò, per trasformarsi subito dopo in un ronzio, e di li a poco in un rumore stridente d’ingranaggi.
"Cavolo" pensò. "Se si ferma la macchina sono fregato. Non ho mai capito niente di motori… e una macchina come questa non dovrebbe mai fermarsi!". L’auto cominciò a sussultare. Lui scalò di marcia e, a saltelloni, riuscì a portarsi sul bordo della strada. "Cristo" pensò. L’auto era ferma. Spense il motore. "Dev’essere qualcosa nella trasmissione" si disse, recitando una frase sentita chissà dove.
Aprì la portiera e un vento gelido lo investì. Prese il soprabito dal sedile posteriore, lo indossò e fece un giro intorno alla macchina, ma non notò niente di particolare. "Dev’essere sotto il cofano" pensò; "o fra le ruote". Guardò sconsolato un’auto che lo superava a forte velocità. Poi ne passò un’altra in senso inverso, con i fari accesi. "Fra poco sarà buio" si disse. "Maledizione, questa non ci voleva proprio".
Dopo aver riflettuto per qualche secondo risalì in auto, riaccese il motore e inserì la marcia. Ma il rumore di ferraglia lo convinse a non insistere. "Si spaccherà tutto" pensò, e picchiò con una certa violenza sul volante della Fleetwood. Prese il telefono cellulare e compose il numero di emergenza della polizia, ma non udì il suono di linea libera. Anzi, non udì proprio niente. Uscì dall’auto e ritentò, cercando di orientare il telefono. "Niente da fare, maledizione!" esclamò. "Devono essere le montagne, oppure la pioggia".
Provò a fare dei cenni in direzione di un’auto che in quel momento stava sfrecciando sulla statale. Non si fermò. Fece la stessa cosa con la successiva, ma anche questa tirò dritta. Fissò con odio i fanalini di coda dell’auto. "Bastardi!" disse ad alta voce. "Maledetti figli di puttana!". Guardò verso i campi: c’era una fattoria a circa mezzo miglio. Le luci erano accese. "Là ci sarà un telefono; ci sarà qualcuno disposto ad aiutarmi".
Dopo aver tentato ancora inutilmente di telefonare e di fermare un’auto, si convinse che la cosa migliore da fare era raggiungere a piedi la fattoria e chiedere soccorso. Mise il telefonino nella tasca del soprabito, prese la valigetta con i documenti e fece per avviarsi. Poi ci ripensò, tirò fuori dal cruscotto una torcia elettrica, prese l’ombrello, perché era cominciato a piovere con insistenza, chiuse la macchina e cominciò a camminare oltre il bordo della statale.
Appena ebbe fatto poche decine di metri si girò indietro e guardò verso la sua auto. Gli sembrò già così lontana. Continuò a camminare nell’erba alta, in direzione delle luci della fattoria. Il terreno era fangoso. "Le mie scarpe da quattrocento dollari" pensò. Ma andò avanti. Fece ancora pochi passi e si trovò in un pantano, sul ciglio di un canale di scolo delle acque piovane. Tentò di aggirarlo, ma questo correva di traverso fra lui e la fattoria.
Camminò ancora, ma non trovò un ponte e nemmeno delle pietre o un tronco d’albero per passare dall’altra parte. Cominciò a sudare. Era indeciso se andare avanti o tornare indietro all’auto e aspettare che qualcuno lo prelevasse. Si voltò ancora verso la statale: era a mezza strada fra la sua auto e la fattoria. Ma c’era quel maledetto canale!
"Ma guarda un po’ cosa mi tocca fare !" si disse. Dopo prese coraggio, ficcò la punta dell’ombrello nel canale e vide che non era profondo. "Lo attraverserò" pensò, e mise un piede in acqua, appoggiandosi all’ombrello.
Il buio stava ormai avvolgendo la pianura e la sua figura cominciava a confondersi con i giunchi che spuntavano lungo gli argini del canale. L’acqua era fredda. "Avrei fatto meglio ad aspettare in macchina l’arrivo di una pattuglia della polizia" si disse. Ma ora era in ballo. Si sarebbe fatto accompagnare alla stazione degli autobus dai contadini e avrebbe avvertito la polizia locale di badare alla sua auto. Sarebbe tornato a casa, questo era importante. "Mi bagnerò un po’, ma è meglio che passare la notte qui. Sono rimasto fin troppo in questo posto".
L’acqua gli avvolgeva la caviglia. Spostò anche l’altro piede e lo immerse fino alla gamba. "Che schifo!" pensò; "chissà cosa striscia in quest’acqua". Al terzo passo mise il piede sopra una pietra viscida e scivolò. Cadde con la mano destra e l’ombrello nell’acqua. Per evitare di bagnare la valigetta che teneva nella mano sinistra si rialzò prontamente, ma si sbilanciò all’indietro e cadde supino. La sciarpa si bagnò e divenne subito pesante. Il soprabito s’inzuppò e lui faceva fatica a sollevarsi. Ma non lasciò la valigetta.
"I documenti!" pensò. "Spero che non si siano bagnati". Finalmente si tirò su. Gli occhiali gli erano scivolati sul naso. Li aggiustò, ma il guanto pieno d’acqua li rese opachi. Non vedeva più nulla. Avvertì un’ondata di sudore freddo e il cuore cominciò a battergli forte. Decise di sfilarsi il soprabito che si era appiccicato alle gambe, ma perse ancora l’equilibrio e ricadde in acqua. Un ramo s’impigliò nella sciarpa e la tirò fino a stringergli la gola. Si rialzò a fatica.
"E’ assurdo" pensò allora David Junior. "Ma che ci faccio qui, a quest’ora?". Ed ebbe una sensazione di sconforto, come se volesse piangere. Provò a camminare, ma i piedi sembravano attaccati al fondo. Provò a gridare, ma dalla gola gli uscì solo un debole suono strozzato. Incespicò di nuovo e perse gli occhiali. Allora mollò la valigetta e cercò di togliersi la sciarpa. Il respiro era diventato affannoso e il cuore gli batteva all’impazzata. Sapeva che gli sarebbe bastato darsi un po’ di forza, di spinta, per superare quel maledetto corso d’acqua, ma si sentiva pesante e le gambe gli dolevano. La paura che non potesse farcela gli provocò un tremito più forte al cuore e il pensiero che potesse venirgli qualcosa al cuore gli provocò un infarto. Cadde in acqua a testa ingiù.
Fu ripescato il giorno dopo da una pattuglia della polizia, che si era insospettita per quell’auto abbandonata sul ciglio della strada. Fu trasportato all’obitorio di Walden, dove venne eseguita l’autopsia, e la sua famiglia fu informata dell’incidente. Il medico legale, indicando il cadavere al sergente Hernandez, confermò che la causa del decesso era dovuta a un arresto cardiaco, complicato da immissione di acqua nei polmoni.
Il sergente annuì, scrisse qualcosa sul taccuino e fece per andarsene. Poi, osservando gli oggetti appartenuti all’uomo, commentò: "Secondo me, non sarebbe annegato in due piedi d’acqua se non avesse avuto addosso tutta quella roba. Dev’essere affondato come un sacco di patate". Quindi, uscendo nell’atrio dell’obitorio, disse al poliziotto di servizio di compilare una lista degli oggetti e del vestiario dell’annegato, prima che tutto fosse restituito alla famiglia.
Il poliziotto stilò un elenco molto dettagliato degli oggetti rinvenuti. Essi erano: un paio di scarpe; calzini; reggicalze; mutande tipo boxer; calzoni; cintura con fibbia di argento; camicia; gemelli d’oro; cravatta; fermacravatta d’oro; panciotto; giacca; soprabito; guanti; sciarpa; cappello; fazzoletto; fazzoletto da taschino; dentiera; 2 anelli, di cui uno con zaffiro; catena d’oro; bracciale d’oro; orologio con fasi lunari; portasigarette con sigarette; accendino d’oro; penna d’oro; occhiali; portachiavi con chiavi, presumibilmente di casa; chiavi di automobile; 5 monete; un rotolo di banconote con fermaglio; 4 carte di credito; compresse per lo stomaco; vaporizzatore per l’alito; portafogli con blocchetto di assegni, patente e fotografie, presumibilmente della moglie e dei figli; telefono cellulare; torcia elettrica; valigetta con combinazione, contenente documenti, un’agenda e una calcolatrice; ombrello.


Giuseppe Cerone

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