La luce del sole mi sveglia a viva forza. Il mio corpo protesta: l’ora dell’orologio non ha più molto significato per lui. Penso che ci vorranno diversi giorni per riabituarsi. Otto ore di fuso orario non sono uno scherzo. Mi costringo a vincere la sonnolenza e ad alzarmi.
E’ già tardi, e mi sembra uno spreco restarsene a letto quando fuori dalla porta c’è un mondo nuovo da esplorare. Mi preparo ed esco per una passeggiata nei dintorni. Scelgo un percorso semplice per evitare di perdermi o di dover consultare cartine topografiche. Il marciapiedi
è bello ampio, ed è affiancato da una pista ciclabile. ogni tanto strisce di strane mattonelle a rilievo solcano il cemento. Sembrano concentrarsi vicino agli incroci. Che saranno? Antiscivolo? Ci penso un po’ e poi mi balena nella mente la risposta: servono come guida per chi non ci vede!
Tutte le strade di Kyoto che hanno un marciapiedi hanno anche piste ciclabili, separate dalle corsie dove corrono gli autoveicoli. Lungo tutti i marciapiedi e in prossimità di incroci o altri pericoli, speciali mattonelle con un disegno a rilievo (avvertibile sotto le scarpe) fungono da guida per i non vedenti, in modo che possano camminare più sicuri.
Proseguo sempre diritto, e familiarizzo coi dintorni. Lì c’è una rumorosa sala pachinko. Là un locale karaoke. Oh, un negozio che vende libri e fumetti… Mi fermo a dare un’occhiata.
Il pachinko è un gioco simile al flipper nostrano, ma è verticale e il controllo del giocatore sulla pallina si riduce al solo dosaggio della forza di lancio iniziale. Per certi versi ricorda anche una slot-machine, dato che giocando è possibile vincere molte palline, che escono dalla macchina e che possono essere riutilizzate (come fossero gettoni) per fare altre partite oppure possono essere scambiate alla cassa con l’equivalente in denaro.
I giapponesi vanno pazzi per questo gioco. Le sale pachinko sono coloratissime e rumorosissime: le macchine, gli altoparlanti a tutto volume, il vociare della gente, tutto contribuisce ad alzare il livello dei decibel ad un livello quasi insopportabile. Eppure i giapponesi che giocano al pachinko sono attratti irresistibilmente da questa catarsi ludica. Da notare che il pachinko è un fenomeno tipicamente nipponico; in altri paesi è praticamente sconosciuto, anche se molti giapponesi non lo sanno.
Rimango meravigliato da quanto poco costino i fumetti, e non riesco a trattenermi dal comprarne subito un paio. In fondo è stata la mia passione per manga e Anime che mi ha portato fino a qui, nel loro paese di origine.
In fondo è merito tuo, Actarus…
Scatto qualche foto qua e là. Cerco di imprimere nella mente ogni angolo, ogni particolare… Ma è inutile, sono troppi… Mi accorgo che si è fatta ora di pranzo. E’ tempo di sperimentare la cucina giapponese. Sono leggermente preoccupato: se non riusciremo ad abituarci al cibo saranno dolori… Ovviamente prima della partenza abbiamo chiesto consiglio ai sensei, per diminuire quanto possibile l’impatto gastronomico.
La guida riporta diverse trattorie nei dintorni. Attraverso la strada e ancora una volta mi stupisco dell’attenzione dedicata ai portatori di handicap: un avvisatore acustico segnala la via libera o l’alt ai pedoni con due suoni differenti.
Alla fine, resistiamo alla tentazione di entrare negli onnipresenti
Kentucky Fried Chicken o Mac Donald e optiamo per un piccolo locale in uan viuzza laterale molto caratteristica. Anche questo è una sorta di tavola calda (dobbiamo contenere le spese) anche se ha le dimensioni di un piccolo bar. ‘sshaimase! ci grida il padrone, affaccendato a cuocere qualcosa su una piastra rovente. I tavolini sono disposti su una sorta di palco rialzato di trenta centimetri circa dal pavimento, e sono molto bassi, tanto che non occorre la sedia, ma basta accovacciarsi a sedere. Occorre lasciare le scarpe furi dal piano rialzato, per non sporcarlo.
Questo richiama la struttura della casa giapponese, dove non è permesso entrare con le scarpe ai piedi, e dove tra il pavimento e il terreno c’è una intercapedine che aiuta ad isolare il tutto dall’umidità e dal freddo.
Una allegra signora (la moglie del padrone?) ci porta immediatamente due bicchieri di acqua e due oshibori caldi. Dopo aver armeggiato un po’ col menù in katakana, decidiamo per una bella tazza di ramen e un po’ di birra. La signora resta deliziata dal nostro giapponese
(probabilmente si aspettava di dover avviare una faticosa conversazione in inglese) e ben presto ci pizza davanti due belle (ed enormi) tazze di ramen fumanti. Sarà l’aria fresca, oppure la curiosità, fatto sta che li divoriamo in men che non si dica. Però, sono buoni…La birra è molto leggera, adatta per il pasto. Spendiamo poco più di mille yen a testa. Ormai sazi, usciamo dal locale; i gestori ci salutano.
Decidiamo di fare una visita al tempio di Hirano, visto che si trova vicinissimo all’albergo. Non è un tempio famoso o rinomato per qualche motivo particolare che lo faccia risaltare tra i tremila templi di
Kyoto. Tuttavia è il primo che vedo, e resto a bocca aperta. Ci lasciamo la strada piena di traffico alle spalle ed entriamo nel complesso del tempio passando sotto un grande torii, non senza un certo timore reverenziale. Più che un tempio ricorda un parco cinto da un muro, con alberi e sentieri ben curati, nel quale sorgono vari edifici dedicati al culto. All’interno non c’è nessuno, solo un prete shintoista assorto nell’esame di alcune scartoffie. Gli chiedo se posso entrare nel cortile più interno e scattare delle fotografie, e lui dice di sì. Un enorme albero sorge al centro del santuario. Sento in una maniera quasi fisica il peso del tempo. L’albero avrà almeno trecento anni. Chi lo avrà piantato?
Anche se questo è un luogo di culto, c’è un’atmosfera completamente diversa da quella che si avverte nelle nostre chiese. Il tempio shinto
è all’aperto, a contatto con la natura. Sotto i tetti a pagoda trovano riparo solo opere d’arte a sfondo religioso. I giapponesi vi si recano per brevi preghiere private, un po’ come potremmo fare noi con una cappelletta o un’immagine sacra lungo un sentiero di montagna. Quanta pace… Il silenzio è rotto solo dagli onnipresenti corvi, che nelle città giapponesi hanno il posto che i piccioni hanno nelle nostre. Il loro gracchiare è leggermente diverso da quello che conoscevo, meno gracchiante, assomiglia a tratti al lamento di una voce umana. A tratti dà i brividi. Non mi stupisce che il corvo occupi un posto importante in tante leggende giapponesi. Che anche i mitici Tengu siano nati per via di questo gracchiare così umano?