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La leggenda dei pesci bambini – Francesco Bova

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FINE PENA MAI/ PANE E LETIZIA

 

«Ho mangiato una storia!», ho pensato (pag.171).

 

Libro suadente e brutale ad un tempo, questo romanzo di Francesco Bova. Per i cinefili sarà facile riconoscervi certe atmosfere care al maestro del thriller italiano Pupi Avati.

 

La narrazione, dai timbri propri della composizione musicale, in cui si riconoscono tecniche poetiche (notevole, ad esempio il fruttuoso ricorso a delle specie di “anadiplosi”, anche se non in senso propriamente tecnico-lessicale del lemma. Ma di richiami elegiaci susseguentisi pur sempre si tratta) si snoda tra i due poli tematici individuati dalla diade che intitola la presente recensione. Un susseguirsi di ossimori, riuniti sotto il comune denominatore del Ventre- che- ospita; del Ventre- che- Nutre; del Ventre- che –trattiene.

Più in particolare:

– Fine pena mai individua il nucleo narrativo che sviluppa il dramma dell’ergastolo comminato al mass murder Salvatore detto Salva, psicopatico contadino che fece strage di quelli che avevano osato ricomprargli la casa che fu sua, e sbeffeggiarlo, a suo dire, con lungaggini e cavilli da legulei, del tutto incomprensibili al suo sistema relazionale che solo una parola capisce: Terra, ed annessi e connessi (fasi lunari, moglie-giumenta-facitrice di prole, figli-torelli. Che però lascia nei guai e nel disonore commettendo quella strage nella “Casa dei morti” del 29 giugno 1991)

– Pane e letizia è la metafora che innerva il romanzo tutto: il nutrimento che Luca, eroe/antieroe (che, dolce e prepotente; irrisolto ma risolutore, troneggia nell’ordito narrativo a mo’ di genio restauratore del Tempo) ammannisce ai suoi prediletti pesci- bambini, nel ventre della collina di Canun, Liguria.

Luca: il ligure alter ego del piemontese Cesare Pavese; e alter ego usque ad infera…

Luca, poi, a tutti i costi s’intestardiva a trovare analogie tra le sue esperienze e quelle di personaggi come Pavese. […] Forse Luca ha ragione. Ci sono delle corrispondenze esistenziali tra la sua vita e quella, che è stata, di Pavese. (dalla cosiddetta “Nota dell’autore” di pag.156).

 

Mai: il tempo non- tempo, la negazione di ogni progredire delle cose.

Mai è, come su accennato, il tempo dell’ergastolo di Salva, che perciò è ridotto a mero fantaccino […] di un orologio di un tempo immobile, schiacciato tra il finito e l’infinito di una condanna che non redime. Fine pena mai, significa essere colpevole per l’eternità. (pag.186).

Salva: un cartoccio umano. Nel 2003 come nel 1991.

Auto-epigrafe nel 1991: Salvatore B., marinaio, contadino e omicida. Collina di Canun, anno 1991. Sì, è questa la data della mia morte. […] Io non esisto più. Non ci sono più. Sono morto insieme a questi bastardi che mi hanno armato la mano, pensava Salva stringendosi ed accartocciandosi come una foglia secca. «Dentro di me è sceso l’autunno […] Prima di domani mattina diventerò giallo e poi seccherò come le foglie delle mie viti. […]» (pag.72)

Anadiplosi “vegetativa” nel 2003, dopo dodici anni di detenzione. Con vecchi e nuovi bastardi: I miei occhi secernono sabbia, pensò. Dentro il mio corpo non ci sono più umori. Mi sono trasformato in un albero senza linfa. Le radici del mio albero sono state recise da questi guardiani della giustizia che dividono l’anno in due sole stagioni. (pag.184)

Unica via umana di redenzione sarebbe stata offerta dal sistema rieducativo penitenziario.

Ai sensi del quale, non è qui anodino il ricordarlo, perfino ai pluriomicidi è concesso, sia pure dopo svariati anni di durissima detenzione, l’accesso alle cosiddette misure alternative alla stessa; però solo se vi sia il soddisfacimento, comprovato e periziato dal personale preposto alla rieducazione in carcere, di ben precise condizioni etiche e giuridiche, prime tra le quali il ravvedimento, effettivo e fattivo del reo.

Salva, invece, giammai vorrà pentirsi. Lui, l’abbiamo già visto, coi sistemi giuridici umani ha ben poco da spartire. Figuriamoci se s’integrava nel sistema del carcere, visto e vissuto come incompatibile con lui e le sue leggi: le leggi legate al fluire del tempo, quelle che nell’altra vita lo scandivano: […] possedevo il calendario dei vivi che è fatto di dodici mesi (pag.185).

In carcere, invece I guardiani […] mi hanno rubato il tempo. No, no, hanno fatto di più. Loro in questo carcere hanno artefatto il tempo. I giudici mi hanno condannato a riconoscere le stagioni solo dal cambio della biancheria. (ibidem).

Lui, rude contadino, personificazione dell’adagio popolare: contadino: scarpe grosse; cervello fino, conosce una sola, brutale via, per soddisfare le proprie Erinni…

Erinni, una delle quali resa madre snaturata dalla propria rabbiosa permanenza laddove brutalmente cessò di vivere. Che paradosso partorire la propria morte, io che voglio vivere (pag. 179).

Erinni ancora recante un’eco di muliebre sensualità: Alla mia ombra è rimasta appiccicata la nostalgia del corpo. Ho i seni e le cosce spalmati di miele cattivo (pag. 178).

 

Mai, è il tempo pure della negazione del transito, agli spiriti degli assassinati, nell’Altrove post mortem.

Sconcertante parallelismo tra giustizia degli uomini post legge del taglione, e giustizia sovrannaturale post Jahvé, le cui fila si riannodano circolarmente attorno al proprio primigenio tessitore: Salva. Infatti: Una condanna all’ergastolo […] è una moneta di scarso valore che non paga il dolore. Non ha ripagato le mie vittime che si sono trasformate in spettri incolleriti (pag. 190).

Incolleriti perché, come dice una di loro (Magda), in uno struggente e stizzitissimo monologo di cui riporto uno stralcio Non so più che cosa è il tempo, perché ora so che il tempo è solo finzione. Quando? Quando è un avverbio che non uso più. Non si può interrogare il tempo, se il tempo non scorre. Quando me ne andrò da questa casa? (pag. 181.

Risposta: finché non sarà intervenuto un rito apotropaico. Che, come ogni rito che si rispetti, soprattutto se consumato in terra di streghe (come Franchetta Borelli da Triora – dalle parti di Albenga – ad esempio, suppliziata e messa a morte nell’arco di una tragica settimana, dal 19 al 26 settembre del 1588[1]), esige la propria vittima sacrificale, un agnello che s’immola nella Grotta degli Scogli Neri, ventre del ventre della collina di Canun.

Ed eccola qui, la fusione, sulla scia di un ben interiorizzato Cesare Pavese, di due tematiche care al grande ed incompreso (e chi è mai profeta in patria, soprattutto poi se la patria si chiama Italia? Nemo, appunto…) Cesare, ed al suo emulo odierno: Francesco.

L’una tematica, privata e liricissima: ricerca, sovente dolorosa, delle proprie radici nel ritorno alla terra natale; più corale l’altra: il richiamo di problematiche esistenziali universali, anche attraverso un’osservazione minuziosa della realtà.

 

Entrambi i poli si riuniscono nel personaggio Luca. Il quale incarna, ad un tempo, un dolore privato, che gli appartiene in quanto fragile individuo, cinquantenne pesce-bambino, impotente di fronte al perpetrarsi di un abuso (la Morte violenta, l’Abusante per antonomasia): Se un pesce si lamentava allora soffriva. Erano muti ma esprimevano dolore. Tanto più il dolore doveva essere lancinante se uno, persona o animale, non poteva urlare, se la rabbia e la sofferenza non potevano uscire dal corpo sotto forma di bestemmie (pag.19).

Morte violenta che torna, spietata vindice, per colpire chi di quei pesci- bambini, vecchi amici d’infanzia e di scorribande di Luca, usò infantile sadismo contro qualche bestiola innocente, qualche anno dopo che la violenza fu perpetrata: Le code mozzate delle lucertole che saltavano tra i sassi si erano trasformate nelle braccia affusolate dell’amico, il mestolo si era rimpicciolito fino a diventare un cucchiaino. La banda dei ragazzini si era mutata in un gruppo di giovani uomini vestiti con jeans e camicie militari che si passavano tra il pollice e l’indice ami e siringhe. (ibidem). Accanto a questo, un dolore più universale, un’altra impotenza di Luca – il gauchiste, francofilo “di miti e d’amori”, cinquantenne professore di filosofia in un liceo serale per studenti-lavoratori: la solitudine dell’intellettuale nella sadica, cupa, drammaticamente eguale sempre a se medesima, violenza perpetrata dalla storia (tema, questo, caro anche ad un altro maestro: Boris Pasternak).

Luca, infatti, non può preparare pastura di pane e letizia per i suoi pesci bambini con le pagine di storia che narrano delle vittime di Auschwitz e Hiroshima, i bambini curdi e i bambini dell’Africa, le donne violate e inseminate dal furore della razza non si potevano però arrotolare come palline di pane, pensava Luca (pag.17).

 

Da queste impotenze, due difese: la prima, più transeunte: il chiudersi nel “bossolo” invernale della Milano che gli dà da vivere; l’altro: cercare rifugio nel Ventre di Dio, denudandosi ventre a terra sull’altare di una chiesetta nella natia Canun, appunto; un piccolissimo borgo dell’entroterra ligure con meno di dieci vecchie case (pag.9).

 

L’elegia del Ventre, infine: una sorta di filo rosso di questo soave romanzo, che, come più innanzi ricordato, tratta di crudeltà con incisiva levità.

Ventre materno: generante, rigenerante; ma anche ammorbato, reso infertile e pestilenziale dalla sacrilega furia omicida di Salva l’Indemoniato.

 

Non tutte le frasi possono essere valutate in quanto espresse, e questo perché non tutte sono ancora disponibili. Parecchie si sono perse nel vento, o negli archivi, o peggio […] “nelle” pareti di una casa; come fossero tanti modellini del muro del pianto. […] ragazzi che sognano strane indipendenze e si perdono in macabri riti di ricerche infruttuose fino al giorno in cui…[2]

 

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

 

Francesco Bova (Pietra Ligure, Savona, 1953), romanziere, poeta, giornalista e saggista italiano.

 

Francesco Bova “La leggenda dei pesci bambini”, Giulio Perrone Editore, Roma, 2005.

  

La presente recensione costituisce una revisione di quella visibile su www.lankelot.com


[1] Fonte: Vanna De Angelis “Il libro nero della caccia alle streghe. La ricostruzione dei grandi processi”, edizioni Mondolibri s.p.a., Milano, 2003, su licenza Edizioni Piemme s.p.a, Casale Monferrato, Alessandria, 2001

[2] Da: Monica Cito “Venere, io t’amerò”, Giulio Perrone Editore, Roma, 2005, pag.79

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