Possa la narrazione arrivare, responsabile, fiera, illecita e potente. Possa essere questo, o indietreggiare e non essere, ritornare al niente.
Possa la scrittura non cercare scuse e mai neanche soluzioni.
FRANCESCA MAZZUCATO, Kaddish profano per il corpo perduto
Questa è la storia di un viaggio. O forse, meglio, di un pellegrinaggio, che assume la forma fisica di un vagabondaggio attraverso le vie di Budapest. Ma la cui vera sostanza è un nudo e fiero itinerario fino alle sorgenti del sé.
Che Francesca Mazzucato fosse scrittrice coraggiosa, noi tutti che la leggiamo fin dagli esordi lo sapevamo bene. Abbiamo seguito negli anni, con un sottile brivido di turbamento che ci increspava la pelle, la sua spericolata indagine nei territori senza nome che aderiscono al corpo. Eros, malattia, morte sono stati a lungo suoi compagni di strada. Nominati a voce piena, senza reticenze e senza cautele. E credevamo che oltre non fosse possibile spingersi.
Eppure non è così. In un modo nuovo, sorprendentemente forte, calmo e maturo, questo libro ci insegna come si può ancora declinare la parola coraggio.
Un viaggio dunque. Un viaggio a Budapest. Che l’autrice ci racconta compiuto in compagnia di un caro amico, con cui un tempo ha condiviso stanze, cibo e amore. Ma soprattutto, sotto la guida potente e disarticolante delle parole di un grande della narrazione. Imre Kertész.
Sarà lui, il vecchio premio Nobel scampato al lager, a modulare la melodia di fondo che guida la Mazzucato per le vie di Budapest. A accompagnarla in quello che si configura come un itinerario di decostruzione del conosciuto. Un vero e proprio salto nel buio, che la scrittrice accoglie senza porre ostacoli. Pienamente disponibile a sbarazzarsi di quello che sa. A accogliere quello che è, cercando di non sovrapporvi etichette. Cercando di compierne un’autentica, immediata conoscenza.
Budapest come Marsiglia? Anche Marsiglia è stata un luogo dell’anima, per la Mazzucato. Un posto in cui fondere confini e contorni, facendosi acqua, asfalto, profumo di basilico e lezzo di porto. Lasciandosi annegare nelle parole saporose e disperate del suo cantore, Jean Claude Izzo. “Con le città vivo personali e segrete passioni”, ci dice l’autrice. Ed è vero. Le città le inghiotte, la Mazzucato. Ne inala i profumi, ne assimila per mimesi le forme e i colori. Diventa le vecchie che passano per strada con le borse gonfie di povera spesa. Ne riflette le zone d’ombra, i vicoli bui.
“Diventa” la città.
Eppure Budapest rappresenta una sfida ben più difficile. Perché così diversa. Così totalmente altra. Percorsa da una lingua che non assomiglia a nessun’altra, in Europa. Odorosa di spezie zingare e di musica klezmer. Multiforme, stratificata, sfuggente. Inafferrabile. Inclassificabile.
Per “diventare” Budapest, l’autrice deve essere disposta a rinunciare a tutto quel che sa. Anzi, di più. Deve lasciar cadere anche tutto ciò che è.
E questo fa, la Mazzucato. Sotto la guida rigorosa e nuda delle parole di Kertész, si lascia andare al naufragio.
“Strana inebriante stasi, dove tutto quello che davo per assodato, solido e certo mi appare traballante, acquoso e mutante.”
E paradossalmente, questa abdicazione a se stessa la riporta nel più profondo del suo sé. Dai territori mutevoli e sfuggenti in cui si trova, da questo limbo incerto e sconosciuto, dove ogni struttura ha perso la sua rigidità, riesce per la prima volta a guardare a se stessa senza schermi né maschere. In casta, rigorosa nudità.
E l’occhio, il suo nudo occhio che guarda, si concentra, ancora una volta, sul corpo.
Il corpo. Fulcro silenzioso e disperato di ogni pressione esercitata dal mondo.
Francesca lo osserva crescere. Lo rintraccia nei territori lucenti dell’infanzia, in quel tempo perfetto dove ogni cosa, ancora, sussisteva senza frattura. E ne segue la dolorosa lenta mutazione dopo il cataclisma. Dopo che il padre così esageratamente amato ha lasciato la madre e la famiglia. Lo vede cercare angosciosamente qualche cosa che ricolmi il vuoto che lo lascia cavo e desolato. Cibo, prima. Tanto, nascosto, clandestino. Che trasforma le sue forme, le dilata, le spinge fuori dai canoni ammissibili per questa società fanatica e intollerante, secondo cui “l’obesità è una forma di cancro della decenza, di neoformazione esagerata e mostruosa, di escrescenza sudata.” E poi sesso, compulsivo, sconsolato.
“Sei di quelle che raccontano sempre la stessa storia. Mi ha detto una volta un amico scrittore. Non voleva essere un’offesa, intendeva che sono di quegli autori che in ogni libro in fondo lavorano attorno al cerchio che si trovano davanti, affondano le mani nel fango e ogni volta è diverso.”
La scrittura.
Per così tante volte Francesca ha lavorato attorno alla stessa storia. Ogni volta declinata in una forma diversa, eppure ogni volta il cuore era uguale. Perché era questo, solo questo, il modo per sopravvivere.
“La scrittura si prese cura di me, mi ha tenuta in vita, ha preteso, assaltato certe giornate chiedendomi tutto il tempo che avevo.” E ancora: “La scrittura mi ha permesso di vivere.”
E ora? Che ne è di tutto questo, seduta ad un caffè di questa strana città che la spinge fuori da ogni territorio conosciuto, eppure giù, giù, proprio alle fondamenta di se stessa?
“In questi giorni ho vissuto una progressiva erosione, uno sgretolamento. Di certezze? Forse. Ma anche di panorami usuali, di simboli, di parole note, di echi, di sicurezze, di odori e di sapori, di ritualità. Tutto si è sgretolato, e poi, forse, ricomposto con una bizzarria che non sono in grado di definire.” Ed è stato proprio questo inatteso straniamento a produrre l’alchimia.
“Questo scrittore ungherese mi ha modificata, è diventato il carnefice di tutta la mia precedente formazione, di tutte quelle certezze che ritenevo solide e inviolabili. (…) Smettere di concepire la letteratura per stereotipi, per canoni fissi, per orientamenti definiti, infischiandomene di quello che verrà capito e di quello che verrà frainteso. (…) Cessare di procedere con quello che il babbo mi ha tramandato.”
La crescita è avvenuta. La frattura è colmata. La consapevolezza ha prodotto i suoi frutti. Ora è tempo di abbandonare la parola usata per riempire, la parola in cui “mi sovrasta la retorica, la sovrabbondanza di parole e concetti, vorrei infilarli tutti come a volte infilo in bocca troppo cibo”, e condensarsi totalmente attorno al nocciolo. Perché “la letteratura può ritrovare quella polpa perduta, come il mio corpo nella sua originaria forma, solo se si tenta uno sforzo che la allontana dal puro intrattenimento.”
E’ un libro potente, il Kaddish della Mazzucato. Un libro maturo, di profonda visione, di conoscenza. Di disarticolazione spericolata, di totale disponibilità a mettersi in gioco. Ed è proprio per questo che, a sorpresa, dalla distruzione del noto emerge chiara in queste pagine una nuova configurazione già solida, limpida, sfrondata di ogni sovrappiù.
E’ un libro sereno, il Kaddish della Mazzucato. Nonostante la scrittura estrema, violenta perfino, nel nominare ogni cosa con pervicace temeraria sincerità, pure la sensazione che se ne trae è quella di una sostanziale tranquillità. La gioia che viene dal guardare senza mascherare, per poi lasciar scorrere via ogni cosa. Senza trattenere. “La serenità di questo viaggio, della scoperta di questa città che mi era ignota, una serenità nuova. Che mi lascia stordita perché disabituata.”
La Mazzucato ha compiuto un salto quantico. Dal rifiuto desolato di sé alla conoscenza e all’accettazione. E, allo stesso tempo, è approdata a una scrittura necessaria.
E questo si riflette nello stile. Questo libro prende una forma nuova, corposa, sostanziosa. Capace di nominare senza reticenze o giri di parole, spesso in modo brutale e totalmente esplicito. Una lingua plastica, che aderisce ai contorni delle cose, concreta e piana. Una lingua matura. Senza retorica. Senza giochi. Senza indulgenze.
Una lingua consapevole.
Bibliografia
“La sottomissione di Ludovica” (Borelli-Pizzo Nero, 1995, 2004).
“Hot Line, storia di un’ossessione” (Einaudi, 1996).
“Villa Baruzziana. Storie di marginalità” (Fernandel, 1997).
“Relazioni scandalosamente pure” (Marsilio Editori, 1998).
“Amore a Marsiglia” (Marsilio Editori, 1999).
“Transgender Generation” (Borelli-Pizzo Nero, 2000).
“Il resto è carne” (AdnKronos, 2000).
“Web cam” (Marsilio Editori, 2002).
“Diario di una blogger” (Marsilio Editori, 2003).
“Storie illecite di perdizioni e diseredati” (LietoColle 2003).
“Enigma Veneziano” (Borelli-Pizzo Nero, 2004).
“L’anarchiste” (Aliberti, 2005).
“Confessioni di una coppia scambista” (Giraldi, 2006)
“Train du rêve” (Giraldi, 2006).
“Magnificat Marsigliese. Tre storie di donne frammenti e amori” (Edizioni Creativa, 2007).
“Confessioni di un alcolista” (Giraldi, 2007).
“Via crucis per corpo e anima spogliata” (MiniConcepts – ARPANet, 2007).
“Kaddish profano per il corpo perduto” (Azimut, 2008)
Francesca Mazzucato sul web