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Corsi e ricorsi. Tra cicli e cambiamento

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La storia si ripete e i vichiani corsi e ricorsi si confermano come ineludibili processi antropologici. Ma Vico non crede del tutto nell’età della ragione, la terza, quella più evoluta, perché  è proprio nell’impossibilità di essere esaustiva che ogni civiltà al suo apogeo tende a precipitare in una barbarie peggiore di quella che l’ha preceduta. Vico non è un determinista e non ritiene che da questo ciclo storico-biologico non si possa uscire ma è quello che fino al suo tempo si è sempre verificato. Ciò che appare davvero sconcertante nel suo non essere mai superabile, è la componente distruttivo-autodistruttiva del genere umano, come se un invincibile Leviatano dai mille volti fosse presente dentro di noi e non si avessero ancora armi adeguate per debellarlo. Paura, noia, malinconia, tradimento, in complici alternanze, in indefinibili sfumature di significato emotivo, in mescolanze imprevedibili, si ripetono tramandandosi come muti ed inermi testimoni, quasi che l’Occidente non riuscisse mai a superare se stesso e il proprio immaginario fossilizzato, la propria iconografia archetipica e ad evolversi nella sostanza più che nella contaminazione labile con altri mondi o dal canone della teoria e della retorica fine a se stessa. Quasi che il pianeta terra non sapesse che in ognuno di noi esiste una parte mobile e una immobile. Forse l’abuso della psicanalisi ci ha fatto capire meglio i cosiddetti meccanismi ma ci ha rinchiuso nelle nostre gabbie difensive, autoreferenziali, dandoci l’impressione di essere padroni del nostro tempo ma ci ha reso, forse, soltanto più cinici e asettici. Parallelamente l’uso confusionario e superficiale della letteratura, unica depositaria dell’unico modo sognante di leggere l’uomo in chiave analitica, ci ha allontanato dalla comprensione più profonda di noi stessi. Il mondo non è cambiato, è cambiato il punto di vista, l’abitudine, il bisogno, la moda, qualche strumento. Ancora non abbiamo compreso la cosa più importante da comprendere e cioè che il ricordo è la nostra àncora al limite dell’affidabilità, un indispensabile nemico sotterraneo con cui dovremmo interagire sporadicamente perché è già la forma del nostro presente, quello che ci spaventa di più, quello che non riusciamo mai a vivere veramente perché siamo ostaggio del tempo globale spesso in antitesi con quello individuale e naturale. Forse dovremmo utilizzare il ricordo per analizzare ciò che del passato inficia il futuro, utilizzarlo come parametro o come fonte d’ispirazione. La nostra parte mobile in quanto mobile ha bisogno di trasformazione anche nella stasi. Tutt’al più possiamo ricorrere alla fotografia per sapere se stavamo meglio o peggio ma una volta compreso ciò, è nel divenire che dovremmo concentrarci per evitare di sentirci immersi in una palude, annaspanti nelle sabbie mobili. Ognuno di noi ha bisogno di un proprio spettro emotivo mentre oggi alcune emozioni sono calunniate, confinate, socialmente segregate. Una di queste è la malinconia, concessa esclusivamente agli artisti e guardata ormai con diffidenza dall’arte stessa. Essere malinconici equivale ad essere depressi o deboli o improduttivi. Se capissimo cosa davvero ci ha ferito e continua a ferirci riusciremmo anche, più forti della nostra esperienza e della sua rielaborazione, ad affrontare ancora quell’emozione senza paura, senza fuga, fieri di avere un’abitudine ad una nostra emotività. Ma è importante attribuire alle emozioni i nomi giusti che ad esse corrispondono.
 
Lo spunto analogico di questa riflessione è conseguenza di un cortocircuito tra il caso Rosenberg, valido esempio di maccartismo anni ’50, e Philip Roth che nel romanzo “Ho sposato un comunista”, discetta su questo tema da genio letterario e dunque da grande interprete della condizione umana, quale si conferma e riconferma man mano che lo leggo e lo rileggo, sempre sorpresa e incantata, sempre con lo sbalordimento di una pulce di fronte ad un gigante.
La mia riflessione è scaturita ieri sera quando, sostenuta da un labile ventilatore, tentavo di tenere a bada un’inerzia estiva non priva di solitudine e slanci auto-colpevolizzanti. Leggevo Philip Roth mentre dal silenzio della strada arrivavano alle mie orecchie bollenti, le note assordanti del Tg3, su cui la mia anziana dirimpettaia nottambula, era sintonizzata.
Il telegiornale parlava di un libro appena uscito in America, scritto dal figlio dei Rosenberg, famosi all’epoca della caccia alle streghe per essere stati sommariamente condannati a morte; capitolo della storia americana nebbioso e spettrale eppure attuale. Ma come ogni spettro, come ogni fantasma, anche quelli legati a persecuzioni ideologiche o razziali, divengono chiusure del cerchio se non si spezzano flussi di memoria anche suggestivi ed esaltanti ma purtroppo pericolosi e scarsamente appaganti, in genere.
Ero a pag. 175 di una rassicurante edizione Einaudi tascabile, quando la vicina ha spento l’apparecchio, ero nel punto più denso affrontato dall’autore e leggevo: “-Ricordo che sotto le armi misi le mani su una copia dell’Anatomia della melanconia di Burton, e che la leggevo tutte le sere, la lessi per la prima volta in vita mia mentre, in Inghilterra, ci preparavamo a invadere la Francia. Amai quel libro, Nathan, ma mi lasciò perplesso. Ricordi cosa dice Burton della melanconia? Ognuno di noi, dice, ha una predisposizione alla melanconia, ma soltanto alcuni fanno l’abitudine alla melanconia. Come si forma quest’abitudine? E’ una domanda alla quale Burton non risponde. Il suo libro non lo dice, e perciò continuai a domandarmelo fino alla fine dell’invasione, fino al momento in cui, per esperienza personale, lo scoprii.
-L’abitudine si forma quando si è traditi. La causa è il tradimento. Pensa alle tragedie. Cosa provoca la melanconia, la follia, lo spargimento di sangue? Otello: tradito. Amleto: tradito. Lear: tradito. Si potrebbe addirittura sostenere che anche Macbeth viene tradito (da se stesso), anche se non è la stessa cosa. I professionisti che hanno speso tutte le loro energie insegnando ad apprezzare i capolavori, quei pochi di noi che si lasciano ancora affascinare dall’esame minuzioso che la letteratura compie delle cose, sono perfettamente giustificati quando dicono di trovare il tradimento nel cuore della storia, di tutta la storia, da cima a fondo. La storia del mondo, la storia familiare, la storia personale. E’ un tema molto grosso, il tradimento. Pensa solo alla Bibbia. Di che cosa parla questo libro? La situazione più comune, nella Bibbia, è il tradimento. Adamo: tradito. Esaù: tradito. I shechemiti: traditi. Giuda: tradito. Giuseppe: tradito. Mosè: tradito. Sansone: tradito. Samuele tradito. Davide: tradito. Uria: tradito. Giobbe: tradito. Giobbe tradito da chi? Nientedimeno che da Dio stesso. E non dimenticare il tradimento di Dio. Dio tradito. Tradito dai nostri antenati in ogni occasione…”
 
Iniziai a sentire meno caldo, mi sentivo improvvisamente bene. Ho spento il ventilatore. Non avevo più la sensazione di essere sola al mondo, di non avere niente di interessante da fare, di non aver speso soldi in giro per la città. Non mi sentivo più in colpa per aver sviluppato una mia abitudine alla malinconia. Serena mi stavo addormentando, appagata mi risvegliavo il mattino seguente, più forte e con idee più nitide. Non avevo più paura di essere perseguitata o che prima o poi avrei iniziato a mangiare i bambini o fagocitato me stessa.
 

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