
GleAM Records è orgogliosa di annunciare l’uscita di So Far, il primo album del bassista e compositore italiano Stefano Rielli, disponibile su CD e in download/streaming digitale dal 19 settembre 2025 e distribuito da IRD International, Galileo Music e Believe Digital. L’uscita è stata preceduta dai singoli Off the Top e Seesaw.
“So far” è una espressione tipica della lingua inglese dalla forte ambivalenza concettuale, che varia a seconda del contesto nel quale è inserita: se posto alla fine di una frase, solitamente viene tradotto con la locuzione “sino a qui”, oppure “sino a questo punto”, mentre una traduzione letterale fuori da ogni contesto è esemplificativa della locuzione “così lontano”. Una stessa frase, un solo costrutto sintattico che affianca due significati contrapposti: da un lato la distanza di un percorso compiuto, dall’altro la lontananza di una meta da raggiungere.
“So far è una fotografia estremamente sincera di quello che sono, è l’istantanea di questo momento, il luogo che ho raggiunto con il bagaglio culturale sino ad ora accumulato, con lo studio, l’ascolto, l’impegno. D’altro canto il punto raggiunto rappresenta una torre d’avvistamento, dall’alto della quale fatico a scorgere in lontananza la mia prossima meta: sono così lontano da come voglio essere, da quello che voglio conoscere, dalle esperienze che voglio fare. Questo disco, nella sua doppia veste di significato, è una dichiarazione d’amore alla musica jazz. È composto principalmente da brani editi, includendo sia standard che composizioni più recenti di autorevoli jazzisti, con l’eccezione di un solo brano originale, Seesaw, scritto da me”.
Formazione
Stefano Rielli – contrabbasso
Emanuele Coluccia – sassofono tenore
Vincenzo Abbracciante – hammond organ
Marco Girardo – batteria
Featuring
Gabriele Mirabassi – clarinetto

STEFANO RIELLI
Biografia
Inizia la sua formazione musicale da autodidatta con lo studio del canto e all’età di 11 anni intraprende lo studio accademico della chitarra classica e del contrabbasso. Nel 2007 si diploma in contrabbasso col massimo dei voti e nel 2010 consegue la laurea con lode in discipline musicali come contrabbassista solista e si perfeziona nello stesso tempo, presso l’Accademia Walter Stauffer di Cremona sotto la guida del maestro Franco Petracchi.
Ha studiato jazz presso il conservatorio “N.Rota” di Monopoli e nel 2015 si diploma in contrabbasso jazz presso il Conservatorio di Parma e nel 2017 consegue la laurea di secondo livello in basso elettrico presso il Conservatorio di Matera.
Nel campo della musica leggera, collabora in qualità di turnista con numerose band attive sul territorio, ed in particolare vanta la partecipazione ad un’esibizione con la cantante Elodie, inserita nel palinsesto della 71ª edizione del festival di Sanremo.
Durante tutto il periodo della formazione, frequenta corsi di perfezionamento e masterclass con i maestri Franco Petracchi, Giuseppe Ettorre, Ermanno Ferrari per la musica classica; Greg Burk, Bob Moses, Flavio Boltro, Jonathan Kreisberg, Massimo Moriconi, Mike Moreno, Gianluca Renzi, Dario Deidda, Buster Williams per la musica Jazz.
Ha collaborato con l’orchestra ICO ‘Magna Grecia’ di Taranto, esibendosi in qualità di contrabbassista e bassista nella sezione ritmica e condividendo il palco con artisti di calibro internazionale come Kurt Elling, Cheryl Porter, Simona Molinari, Nick The Nightfly, Amii Stewart, Serena Autieri e Chiara Civello.
Intervista
Davide
“So far”, come da te scritto tra le note di copertina, ha due diversi significati: da un lato la distanza di un percorso compiuto, dall’altro la lontananza di una meta da raggiungere. Come si colloca dunque “So far” nel mezzo tra il tuo lavoro del passato e quello presente, cosa ne continua ed evolve? Cosa in particolare mette in luce del tuo presente?
Stefano
Direi che, se guardo al mio lavoro passato, il punto di riferimento principale è stato lo studio del linguaggio del repertorio jazzistico, in particolare quello legato alla tradizione mainstream. Al netto di questo percorso, alcune caratteristiche di quella musica sono entrate a far parte del mio modo di pensare e di suonare, diventando un bagaglio personale che oggi riesco a rielaborare e a mettere a frutto. Il presente, dunque, rappresenta per me un punto di incontro: da un lato le esperienze e le conoscenze acquisite nel tempo, dall’altro una maggiore consapevolezza che mi permette di intravedere mete che in passato mi sembravano inimmaginabili. Vedo con più chiarezza i miei limiti, ma anche le possibili strategie per provare a superarli. Credo che osservare l’orizzonte e, al tempo stesso, mettersi costantemente in discussione siano due condizioni imprescindibili per evolvere. L’evoluzione, d’altronde, non riguarda solo il pensiero ma, come in ogni processo biologico, implica una fase di assimilazione, di metabolismo e di adattamento al contesto in cui ci si trova. È un’analogia che trovo molto calzante: fare tesoro del passato per arricchire il presente, e immaginare strategie per costruire un futuro che resti coerente con il nostro background identitario.
Davide
Come sono nate la formazione di questo disco con Coluccia, Abbracciante e Girardo e la partecipazione di Mirabassi? Come avete lavorato insieme a questo disco?
Stefano
La formazione del quartetto non è stata progettata a tavolino, ma è nata in maniera naturale, scegliendo di coinvolgere musicisti con cui ho condiviso spesso il palco e con i quali ho costruito, nel tempo, un rapporto di fiducia e affinità artistica. Con Marco Girardo c’è un legame di lunga data: è uno dei miei più cari amici e sicuramente il batterista con cui ho suonato di più. Con lui so di poter instaurare con poco sforzo un’intesa ritmica immediata ed efficace, qualità che per me era fondamentale nello sviluppo dei brani di questo disco. Emanuele Coluccia, altro amico fraterno, è uno dei musicisti salentini che stimo maggiormente: un artista poliedrico, dalla creatività inesauribile. Ero certo che avrebbe potuto dare un’impronta personale tanto all’interpretazione delle melodie quanto ai soli, evitando quell’approccio didascalico che rischia di appiattire linguaggi così codificati come quelli che ho deciso di affrontare in questo lavoro. Con Vince Abbracciante ho avuto la fortuna di incrociarmi diverse volte in passato. È un musicista di statura internazionale, capace di fondere una solida conoscenza tecnica a una sensibilità rara, in grado di trasformare ogni brano in un’esperienza intensa e imprevedibile. La sua voce musicale ha un carattere unico: sa essere lirica e visionaria allo stesso tempo, e per questo la sua presenza ha rappresentato un arricchimento imprescindibile per il progetto. Insieme a ciascuno di loro ho trovato il terreno ideale per realizzare, anche a livello timbrico, un lavoro che rispondesse in maniera sincera ed efficace alla mia idea concettuale: bilanciare la relazione tra passato e presente, sia sul piano del linguaggio sia su quello dell’estetica sonora. Non avrei potuto immaginare interpreti migliori per dare forma a questa visione. Per quanto riguarda Gabriele Mirabassi, avevamo già avuto modo di collaborare in passato in progetti di altri musicisti, e da quelle esperienze era maturata una reciproca stima. Ho pensato che sarebbe stato interessante proporre con lui un brano in duo, con un carattere più cameristico, meno legato alle dinamiche incalzanti e ai ritmi serrati dello swing. Pur trattandosi di un pezzo tipicamente bebop, ero convinto che dall’incontro con la sua sensibilità potesse nascere un’interazione originale, capace di aprire prospettive inedite. Abbiamo registrato quel brano a Bari, approfittando di una breve tappa nei suoi intensi spostamenti internazionali: la sua presenza, d’altronde, parla da sé, essendo Mirabassi un musicista di caratura mondiale. Il resto del disco, invece, lo abbiamo registrato presso i Sud-Est Studio di Guagnano, in provincia di Lecce, che considero uno dei migliori studi di tutta la Puglia. Lì avevo già lavorato in altre produzioni e sapevo che la resa sonora sarebbe stata eccellente. Il nostro approccio è stato estremamente democratico: ognuno ha portato le proprie idee e il proprio background, e questo ha reso l’album un autentico lavoro corale. Durante le sessioni sono state introdotte molte modifiche rispetto alle mie scritture originarie, frutto di un confronto continuo sulle strutture, sui materiali e sull’impronta interpretativa da dare a ciascun brano. In totale abbiamo registrato cinque tracce in due sessioni distinte, e il tempo trascorso in studio è stato prezioso non solo per fissare su disco la musica, ma soprattutto per costruire insieme una visione condivisa. Credo che proprio questo processo di scambio e rielaborazione sia il valore aggiunto che ha reso l’album vivo, autentico e, a mio avviso, riuscito.
Davide
A parte “Seesaw”, il disco propone sei rielaborazioni di composizioni di Jimmy Smith, John Coltrane, Charlie Parker, McCoy Tyner, Carla Bley, Wayne Shorter e Kurt Elling. Come è stata fatta la scelta di questi brani e di questi autori, seguendo quale percorso di rilettura?
Stefano
La selezione dei brani è il frutto di un percorso personale, fatto di ascolti, studi e influenze che si sono intrecciate nel tempo. Dietro ogni scelta c’è una ragione che va oltre la semplice ammirazione: ogni composizione rappresenta per me un punto di contatto con l’eredità del jazz, ma anche una sfida di reinterpretazione. Ho scelto Jimmy Smith perché il suo sound ispira profondamente l’organico che ho voluto utilizzare: la relazione tra basso e organo è per me una tessitura sonora ideale. Nel mio brano Off the Top, che si rifà a un disco omonimo di Smith, ho voluto onorare quel modello timbrico e quel dialogo ritmico, rendendolo mio pur mantenendo quel respiro riconoscibile. Coltrane è stato una presenza costante nel mio percorso: nei miei studi e nei miei ascolti “ludici” ho spesso incontrato il suo spirito creativo. Ho volutamente incluso Like Sonny senza toccarne nulla proprio per rispettare quel lascito immutabile. Per quanto riguarda Tyner, Bley e Shorter, si tratta di autori da sempre cari al mio gusto e alla mia sensibilità musicale, ma il mio avvicinamento ai loro brani che ho scelto per il mio disco è passato attraverso Kurt Elling: le sue riletture mi hanno aperto finestre interpretative che altrimenti mi sarebbero state con ogni probabilità meno raggiungibili. Elling, per me, è un punto di riferimento significativo: non solo come cantante, ma come pensatore musicale che sa ricollegare voci diverse in un discorso unitario. Le scelte di Tyner, Bley e Shorter si inseriscono nella sua orbita interpretativa, e io le ho fatte mie attraverso quel filtro consapevole. Infine, Charlie Parker era quasi inevitabile: il bebop è parte della mia formazione. Ma non volevo semplicemente riproporre Parker in chiave tradizionale. L’idea era di dare una versione più cameristica al brano Dewey Square, un approccio che trae ispirazione dalla versione di Roy Hargrove di quel pezzo. Ho pensato che quella dimensione più intima e ragionata dialogasse bene con il resto del disco, pur restando radicata nel linguaggio bebop. In sintesi, la scelta degli autori e dei brani è un punto d’incontro fra rispetto filologico e reinterpretazione personale, filtrata da influenze vissute (come quella di Elling, che vanto il privilegio di conoscere personalmente) e dal desiderio di costruire un discorso coerente: ogni composizione diventa un capitolo di un racconto che guarda al passato, ma con l’intenzione di portarlo nel presente con nuova luce.
Davide
“Off the top” è stato presentato come “omaggio sentito alla musica hard bop e la chiave d’accesso all’intero lavoro, un manifesto che dichiara, sin da subito, l’identità musicale di questo progetto”. Quali sono stati dunque i principi e gli obiettivi su cui avete lavorato attraverso questo disco?
Stefano
Come già sottolinea la citazione che hai riportato, Off the Top è per me un omaggio sentito all’hard bop ma anche la chiave d’accesso all’intero progetto: un manifesto che dichiara l’identità sonora del disco sin dalle prime battute. A monte di tutto c’è una sfida timbrica ed estetica molto precisa: mettere a dialogo, nello stesso organico, l’organo Hammond e il contrabbasso. Questo accostamento non è scontato: organo e contrabbasso occupano porzioni di spettro che spesso si sovrappongono, e la convivenza può facilmente portare a mascheramenti o a un suono confuso. La soluzione non è semplicemente chiedere all’organo di rinunciare alla pedaliera o al contrabbasso di “togliere” la walking bass line; è piuttosto un lavoro di rifinitura sui registri e sui voicing, sulla scelta delle altezze in cui ciascuno strumento opera, sulla collocazione degli accordi nello spettro, sui rapporti tra armoniche. È un lavoro quasi “fisico”, che agisce sulle frequenze e sulla loro interazione: una tessitura sonora pensata pezzo per pezzo. Nel concreto, questo si traduce in decisioni di arrangiamento e pratiche molto dettagliate: definire spazi d’intervento per la mano sinistra dell’organista, scegliere quali registri usare per non sovraccaricare le basse frequenze, modulare l’attacco e la dinamica del contrabbasso in funzione delle densità armoniche dell’organo, curare gli incastri ritmici in modo che groove e trasparenza convivano. È un approccio che potremmo definire «nerd» nel senso migliore del termine: analitico, meticoloso, appassionato della materia sonora, un’attitudine che rispecchia il mio carattere oltre che il mio modo di fare musica. Sul piano dei princìpi e degli obiettivi più ampi, volevamo che il disco funzionasse su più livelli: da un lato conservare e comunicare l’energia, la spinta e il respiro dell’hard bop; su un altro versante, omaggiare il bebop con i suoi virtuosismi, l’armonia ricca di modulazioni rapide e le linee spezzate della melodia; poi, d’altro canto, tradurre queste qualità in una cifra personale e contemporanea, coerente con l’idea del disco, di rapporto tra passato e presente. Off the Top assume così il compito di dichiarare il timbro e l’impostazione sonora del progetto, ma i princìpi che lo sostengono sono più concettuali: rigore nella forma, apertura all’improvvisazione e alla rielaborazione collettiva, e una cura espressiva che mette al centro la chiarezza del discorso musicale. Infine, l’esperienza in studio ha confermato questa impostazione: molte soluzioni sono nate dal confronto con i musicisti, dalla sperimentazione pratica e dalla necessità di trovare un equilibrio che fosse insieme fedele all’ispirazione e coerente con la nostra sensibilità attuale. In sintesi, l’obiettivo è stato costruire un’identità sonora riconoscibile (potente e precisa) che permettesse al tempo stesso di esplorare i limiti timbrici dell’organico e di raccontare, con sincerità, il mio personale posizionamento tra passato e presente.
Davide
Come hai composto “Seesaw” e come dialoga in relazione con il materiale prescelto di altri autori, per aggiungervi cosa in particolare di tuo in questo preciso contesto?
Stefano
Innanzitutto, il titolo Seesaw (che in italiano significa “altalena”) rappresenta bene il concetto alla base del brano: un’oscillazione continua, un gioco di equilibrio e squilibrio generato da una melodia che si sviluppa attraverso intervalli molto ampi, muovendosi dalle frequenze più gravi a quelle più acute. Dal punto di vista della scrittura, questa scelta risulta poco idiomatica per il contrabbasso, strumento al quale ho comunque affidato la melodia principale, all’unisono con il sax. Questa linea melodica, nel suo rapporto con la tessitura armonica, richiama in maniera evidente gli stilemi compositivi di John Coltrane: sia nella concezione intervallare sia nella progressione armonica, che in diversi punti rimanda direttamente ai cosiddetti Coltrane changes. Non si tratta quindi solo di una citazione, ma di un vero e proprio omaggio all’eredità culturale di un gigante che ha segnato in modo indelebile i miei ascolti e il mio percorso di studi. L’aspetto che considero più personale e innovativo in questo brano è proprio la scelta di mettere il contrabbasso in una posizione “inusuale”: la scrittura non segue i canoni tipici dello strumento, e l’apparente difficoltà esecutiva non è fine a se stessa, ma nasce dal desiderio di portare il contrabbasso in un territorio diverso. In questo senso, Seesaw dialoga con i brani degli altri autori presenti nel disco aggiungendo un tassello distintivo: l’idea che il contrabbasso possa farsi veicolo melodico principale in una scrittura che normalmente non gli appartiene, aprendosi così a nuove possibilità espressive.
Davide
Dopo tanti anni dalla sua nascita e tante ramificazioni, cosa sono oggi “be-bop” e “hard bop”, cioè che tipo di idioma del jazz è per te oggi e cosa rappresenta?
Stefano
Per me oggi il bebop e l’hard bop non sono soltanto stili, ma veri e propri idiomi del jazz che hanno fondato un linguaggio. Il bebop ha rappresentato una rivoluzione: da musica di intrattenimento a musica di ricerca, con una complessità armonica e ritmica che ha messo al centro l’individuo, l’improvvisatore. È stato un atto di emancipazione artistica, quasi una dichiarazione di autonomia del musicista afroamericano. L’hard bop, invece, ha riportato questo linguaggio nel cuore della comunità: ha preso la grammatica del bebop e l’ha nutrita di blues, gospel e groove, mantenendo il rigore ma con un respiro più caldo, più popolare, più terreno. Oggi, dopo tante ramificazioni, io vedo questi idiomi come un patrimonio: non li vivo come un recinto stilistico in cui rinchiudersi, ma come una lingua madre, un lessico fondamentale che permette di dialogare con tutto il resto del jazz. Studiare e suonare bebop o hard bop oggi significa avere accesso a un alfabeto che continua a dare senso a ciò che facciamo, perché è lì che si è codificato il modo di pensare l’improvvisazione moderna. Per me rappresentano la base: non un museo, ma una grammatica viva che, se interiorizzata, ti permette di essere libero anche nelle direzioni più contemporanee.
Davide
Oltre allo stile musicale, nei primi anni di vita i termini “be-bop” servì anche per indicare uno stile di vita, associandosi a quello dei letterati della Beat Generation. Il jazz è considerato un insieme di valori e atteggiamenti che celebra la creatività, l’improvvisazione, la libertà espressiva, l’accettazione di una struttura condivisa e tanto altro. Più genericamente parlando, esiste per te uno stile di vita jazz e come lo descriveresti?
Stefano
Credo che, soprattutto agli albori del bebop, si possa davvero parlare di uno “stile di vita jazz”. Non era solo un linguaggio musicale, ma una forma di espressione totale che dialogava con la letteratura, la pittura, la filosofia esistenziale del tempo. Non a caso quella generazione di musicisti trovò una sorta di affinità con i poeti e gli scrittori della Beat Generation: entrambi cercavano una libertà che non fosse solo estetica, ma esistenziale, un modo di vivere in rottura con le convenzioni. Se guardiamo alla storia del jazz, però, notiamo che il rapporto tra musica e società ha avuto forme molto diverse: nella Swing Era, ad esempio, era la colonna sonora dei grandi balli della borghesia americana, una musica che doveva far danzare e divertire, spesso funzionale a un intrattenimento elegante. Ancora prima, con Tin Pan Alley, era diventato una vera e propria industria musicale, una “fabbrica di canzoni” pensata per il consumo di massa attraverso la radio e il mercato editoriale. Oggi, a mio avviso, quel legame originario tra stile di vita e musica si è in gran parte affievolito. Il jazz ha perso il suo aspetto di rottura radicale e si è avvicinato sempre più a un pubblico borghese, trasformandosi in un prodotto di consumo culturale, seppur di alta qualità. Rimangono naturalmente i valori fondanti — la creatività, l’improvvisazione, la libertà espressiva dentro una struttura condivisa — ma è come se il “jazz lifestyle” di cui parlavano i beat fosse stato progressivamente assorbito in un contesto più istituzionale, museale, talvolta accademico. Per quanto mi riguarda, se devo parlare di uno “stile di vita jazz” oggi, lo descriverei più come un atteggiamento interiore che come un fenomeno sociale: significa vivere con un costante spirito di ricerca, coltivare l’improvvisazione non solo nella musica ma nella vita quotidiana, accettare l’imprevedibilità, e allo stesso tempo rispettare una grammatica condivisa che ti permette di dialogare con gli altri. È un equilibrio tra libertà e regole, tra identità personale e appartenenza a una tradizione. Questo, forse, è quello che resta vivo di quello stile di vita, ed è ciò che cerco di portare nel mio percorso.
Davide
Ho letto nella tua biografia che hai iniziato la tua formazione musicale con lo studio del canto e, tuttavia, “So Far” è un disco interamente strumentale. Hai scelto di non cantare e perché?
Stefano
In realtà credo che, come accade a molti, il mio primo contatto con la musica sia stato del tutto spontaneo e naturale, attraverso la voce. Da ragazzino le prime “velleità musicali” si sono manifestate proprio cantando: non ricordo un solo momento della mia infanzia che non fosse attraversato dalla musica. I miei ricordi più antichi risalgono a quando ero molto piccolo e mio padre mi faceva ascoltare i grandi cantautori italiani: credo che sia stato quello il seme che ha dato avvio a tutto il resto. Il canto, per me, resta imprescindibile. Da poco ho intrapreso un percorso di studio più consapevole con un maestro, che mi ha spinto a considerare la voce per ciò che realmente è: uno strumento musicale a tutti gli effetti, e probabilmente il più complesso di tutti. Diversamente da un contrabbasso, non possiamo vederlo, toccarlo, maneggiarlo: è dentro di noi, e per questo richiede un grado di immaginazione e di sensibilità ancora maggiore. Pur essendo il contrabbasso il mio strumento principale, l’approccio canoro rimane centrale nel mio modo di pensare la musica. Quando scrivo o improvviso una melodia, cerco sempre di far sì che sia cantabile, anche se affidata a uno strumento non vocale; nell’elaborazione armonica mi assicuro che la linea melodica mantenga quella qualità di “voce” e di espressività che un cantante non perderebbe mai di vista. In questo senso, il legame con il canto attraversa in profondità la mia scrittura e il mio modo di suonare. Non a caso molti dei riferimenti che porto dentro di me, e che hanno plasmato questo disco, sono filtrati attraverso l’ascolto di Kurt Elling, che considero un modello di espressività e profondità musicale. Espormi al canto in modo professionale, almeno per ora, sarebbe stato prematuro: sono ancora un principiante e non sento l’urgenza di trasformarlo in carriera. “So Far” doveva essere innanzitutto un disco per contrabbasso. Ma è altrettanto vero che amo cantare (forse, a tratti, persino più che suonare). E chissà: magari un giorno questa passione troverà uno spazio più visibile anche nel mio percorso artistico.
Davide
Il compositore e musicologo Raimondo Boucheron scrisse, a proposito del contrabbasso: “Sostegno dell’edifizio armonico, grave come l’austerità degli antichi cenobiti, il contrabasso è quasi la voce della sapienza allorché fa udire a lenti e regolari intervalli i suoi profondi suoni; ma se si agita, rassomiglia la voce di un triste presentimento, o di un demone che ti persegue. Pizzicato con moto alquanto frequente rappresenta quel più sentito palpitare del cuore che si desia in alcune forti commozioni. In ogni modo ci forma sempre il contrapposto del canto di cui determina il carattere ed il ritmo”. Cos’è stato e cos’è per te il contrabbasso?
Stefano
Il contrabbasso, per me, è stato ed è tuttora una sorta di croce e delizia. Uno strumento che ho amato moltissimo ma con il quale ho anche vissuto fasi di distanza, quasi di rigetto, come accade nei rapporti più intensi e significativi: ci si avvicina e ci si allontana, ma non si smette mai davvero di cercarsi. Le parole di Raimondo Boucheron colgono perfettamente la natura ambivalente del contrabbasso: da un lato “sostegno dell’edifizio armonico”, solido e indispensabile nel determinare il carattere e il ritmo del canto; dall’altro strumento capace di farsi voce oscura, presagio, turbamento, o persino palpito del cuore. Ed è in questa duplicità che riconosco anche il mio percorso personale con esso: la fatica e la disciplina che richiede possono talvolta allontanarti, ma è proprio in quella fatica che si cela la possibilità di esprimere qualcosa di unico. Oggi il contrabbasso per me è molto più di un semplice mezzo tecnico: è uno specchio. Mi restituisce l’immagine di chi sono come musicista e come persona, con i miei limiti, le mie possibilità, le mie fragilità e le mie conquiste. È uno strumento che non regala nulla, che ti obbliga a misurarti con te stesso in profondità. Ed è forse per questo che, nonostante i momenti di difficoltà, finisco sempre per tornare a lui con rinnovato amore: perché, nel suo suono grave e vibrante, continuo a ritrovare la voce più autentica della mia identità musicale.
Davide
In copertina c’è un lavoro dell’artista Lorena Temperanza che si direbbe realizzato con la sua tecnica del cucito su carta. Com’è nata questa collaborazione e cosa introduce visivamente l’artwork di Lorena Temperanza in merito alla musica di “So Far”?
Stefano
L’artwork in copertina non è un semplice “cucito su carta”: si tratta di una tecnica mista di pittura e ricamo su tessuto di cotone grezzo, pensata e realizzata appositamente per questo album. Ho commissionato a Lorena Temperanza un’opera che dialogasse profondamente con il concetto di So Far, e lei ha scelto di intitolarla «Hôsde», un avverbio dimostrativo del greco antico che indica modo e luogo, e significa “qui, in questo luogo, in questa maniera”. Questo termine evoca l’ambivalenza racchiusa nella locuzione So Far, ovvero “fin qui” e simultaneamente “così lontano”. I cerchi che compongono l’opera sono tutti diversi per dimensione, colore, trama e aspetto: li interpreto come le mete già raggiunte e quelle ancora da conquistare. Non sono mai uguali tra loro, esattamente come non lo sono le tappe del percorso musicale. Le forcelle (un elemento che richiama immediatamente il linguaggio della scrittura musicale) agiscono come una sorta di “visuale”: rappresentano lo sguardo, la distanza, il punto di vista. Alcune sono più piccole, altre più grandi; alcune più strette, altre più ampie: varianti che rimandano alle differenti prospettive, ai limiti e alle possibilità individuali, anche in campo artistico. Trovo che l’opera di Lorena si leghi perfettamente con il significato dell’album: manifesta visivamente il dialogo fra i confini e le aperture che mi caratterizzano come musicista. In essa vedo il perfetto corrispettivo visivo della musica di So Far (l’equilibrio tra ciò che è già stato e ciò che ancora può essere, tra introspezione e slancio). Quanto alla collaborazione, pur essendo Lorena mia moglie, questa unione artistica non era scontata né pianificata da tempo. Sebbene da anni ci fossimo promessi di realizzare qualcosa insieme, non avevamo ancora trovato il momento adatto. So Far ha fornito l’occasione giusta: ho voluto che l’immagine dell’album nascesse insieme alla musica, in una corrispondenza creativa autentica, e in Lorena ho trovato l’interprete ideale, capace di trasformare visione e materia in forma visiva che risuona con quella sonora.
Davide
Kurt Elling ha dichiarato che la parte della sua gioia come cantante è dare doni alle persone”. La musica può dare un contributo agli eventi del mondo, migliorandolo? Cosa può la musica per te da questo punto di vista?
Stefano
Ammiro profondamente Kurt Elling e so che per lui la musica ha un valore quasi “salvifico”, la possibilità di dare doni alle persone e, in qualche modo, di rendere il mondo migliore. È un pensiero nobile e fondativo del suo approccio artistico. Io, però, pur stimandolo, mi sento più disilluso rispetto a questa visione. Credo che la musica possa certamente essere trasformativa, ma all’interno di un raggio d’azione limitato: può cambiare chi la fa e chi la ascolta, può nutrire, ispirare, dare conforto, aprire prospettive interiori, ma non mi illudo che possa mutare la natura profonda delle persone: credo poco nelle folgorazioni morali e nelle trasformazioni radicali delle persone. La musica, piuttosto, ha un potere diverso, a mio avviso: quello di agire come specchio, di amplificare ciò che già esiste dentro ciascuno di noi. Se una persona è predisposta alla bellezza, all’ascolto, alla sensibilità, la musica può fargli da catalizzatore, può risvegliare qualcosa di profondo. In questo senso contribuisce eccome al mondo, ma non in maniera diretta o messianica: lo fa moltiplicando i riflessi interiori di chi è disposto a riceverla. Quindi sì, la musica può “migliorare il mondo”, ma lo fa indirettamente, attraverso le singole persone che ne vengono toccate, e sempre entro i limiti delle loro inclinazioni e disponibilità interiori. Io la vivo così: come un atto necessario, che prima di tutto serve a me per dare un senso e una forma a ciò che sono, e che, se riesce a risuonare anche negli altri, allora trova la sua funzione più alta.
Davide
Cosa seguirà?
Stefano
Non so davvero cosa seguirà, e forse è proprio questo il bello. La musica per me non è mai stata un traguardo già definito, ma una ricerca continua, un movimento che cambia direzione ogni volta che sembra essersi stabilizzato. Dopo un lavoro così intenso e ragionato come questo disco, mi interessa soprattutto lasciare che la curiosità faccia il suo corso: ascoltare, studiare, incontrare nuove persone, contaminarmi. È un cammino che non voglio imbrigliare in previsioni o progetti troppo rigidi, perché il rischio è di bloccare quella scintilla che rende viva la musica. Quello che so con certezza è che continuerò a interrogarmi, a cercare, a lasciarmi sorprendere, e da lì nascerà ciò che verrà dopo.
Davide
Grazie e à suivre…
