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Intervista con Dino Betti Van Der Noot

16 min read

Nel 2023 mi sono trovato a scrivere le note di copertina per l’album di un musicista di cui non sapevo nulla. Dino Betti van der Noot; l’album s’intitolava Let Us Recount Our Dreams. Accintomi al compito con una certa trepidazione, la musica di Dino mi si è poi rivelata in una varietà, in una ricchezza, in una sicurezza di segno che mi ha richiamato alla mente Gil Evans, se pure il lessico orchestrale di Dino sia poi personalissimo. I suoi lavori sono più umorali, più imprevedibili nella loro struttura e perfino più ricchi di colore di quelli di Evans.

Ancora più mi ha sorpreso approfondire la storia di Dino. Ottantaseienne, non aveva mai fatto della musica una professione a tempo pieno. Era stato a capo di un’importante agenzia pubblicitaria in Italia, con clienti del livello di IBM, Citroën, Duracell, Aramis e Bauli per dedicarsi nel tempo libero a un passatempo inconsueto a dire poco: la big band, la quale si riuniva da Dino a cadenza irregolare per prove e registrazioni, e di quando in quando si esibiva pubblicamente. Quando ho appreso che Let Us Recount Our Dreams era addirittura il sedicesimo album dell’orchestra di Dino, sono rimasto di sale.

Benché tutta la sua carriera musicale si sia svolta relativamente inosservata, in particolare fuori d’Italia, le mie ricerche mi hanno mostrato che non ero io il primo ad accorgermi di Dino. Ancora negli anni Ottanta critici americani del prestigio di Ira Gitler, Net Hentoff, Neil Tesser e Kevin Whitehead ne avevano tessuto gli elogi, scrivendo perfino le note di copertina per i suoi album, diversi dei quali la rivista Musica Jazz, la più importante del settore in Italia, avevano meritato il riconoscimento di “Album dell’anno”; di recente Enzo Capua, noto critico ed esperto del jazz italiano, ha definito Dino “il migliore compositore jazz in Italia”.

Ed ecco qui il diciassettesimo album. Le cinque composizioni di Brahm Dreams Still risalgono al 2024, quando Dino aveva ottantotto anni. Di nuovo, il compito delle note di copertina mi ha messo in apprensione, ma questa volta perché di Dino sapevo troppo, al punto di dubitare che il mio entusiasmo per il disco precedente potesse essere stato un po’ eccessivo. e mi domandavo poi se, dopo due anni in cui sul mondo si era addensata una sempre più densa tetraggine, la musica così piena di vita di Dino avesse ancora altrettanto da dire.

Preoccupazioni inutili: Dino continua a piacermi come la prima volta.

Estratto dalle note di copertina di Thomas Conrad.

L’ORCHESTRA

Guglielmo LoBello, Alberto Mandarini, Mario Mariotti, Fabio Brignoli: trumpets & flugelhorns.

Luca Begonia, Stefano Calcagno, Enrico Allavena: trombones.

Gianfranco Marchesi: bass trombone.

Sandro Cerino, flute, bass clarinet & alto saxophone.

Andrea Ciceri: alto saxophone.

Giulio Visibelli: alto flute & tenor saxophone.

Rudi Manzoli: tenor saxophone.

Gilberto Tarocco: clarinet, bass clarinet & baritone saxophone.

Luca Gusella: vibraphone.

Emanuele Parrini: violin.

Niccolò Cattaneo: piano.

Danilo Mazzone: keyboards.

Vincenzo Zitello: clarsach harp.

Gianluca Alberti: electric bass.

Stefano Bertoli: drums.

Tiziano Tononi: snare drum, udu drum & percussions.

Federico Sanesi: tabla, pakhawaj, darabouka, tanpura, bells, cow bells, stone chimes & ocean drums.

Intervista

Davide

Buongiorno Dino. Leggendo la tua storia tra le note di copertina scritte da Thomas Conrad, il tuo amore per la musica è nato presto, in famiglia. Hai poi studiato violino, apprezzando soprattutto l’esperienza di suonare non tanto per lo strumento in sé, ma per la sensazione che i tuoi suoni diventassero parte di un suono ben più ampio. In seguito hai studiato sax e flauto, hai seguito dei corsi al Berklee College of Music e hai organizzato una prima big band. Ti sei quindi dedicato alla composizione, all’arrangiamento e all’orchestrazione, smettendo di suonare anche sax e flauto nell’orchestra in favore della direzione di un tuo ensemble. Come è nata questa tua più ampia visione del suono e della partitura orchestrale preferendo infine la conduzione?

Dino

Probabilmente, tutto nasce dal fatto che io non sono e non sarò mai un buon strumentista. Così chiedo ad altri di fare quello che desidererei fare io. Poi, davvero, sono sempre stato affascinato dal suono complessivo delle grandi formazioni, siano esse di musica classica sia jazzistiche. Il mio primo amore in campo jazz è stato Kenton, vale a dire il massimo dei massimi quanto ad ampiezza di suono. Dico sempre che, quando ho smesso di suonare nella prima big band che avevo messo in piedi, l’orchestra ha cominciato a suonare molto meglio.

Poi, è iniziata la ricerca (non voluta: è stato qualcosa nato spontaneamente) di un linguaggio mio personale. È stata una lunga strada, lungo la quale ho esplorato in diverse direzioni, ma finalmente, da un po’ di anni, penso di avere trovato quello che cercavo senza sapere bene cosa fosse.

È un modo di comporre che mi pone in una posizione tipicamente da maverick, cioè fuori dagli schemi e dagli stili. Il che è bello a dirsi, ma è anche scomodo, perché la critica spesso non sa bene che pesci prendere, e lo stesso gli organizzatori di festival e concerti. Il tutto acuito dal fatto che portare in giro un’orchestra di ventidue elementi non è una sinecura.

Il suono orchestrale, di questa orchestra, è qualcosa che ho in mente fin dal primo momento in cui inizio a comporre, e non è un caso che la sua composizione (dell’orchestra) sia stabile ormai da molti anni – così come sono decisamente stabili, nella quasi totalità, i nomi dei musicisti (tutti anche solisti) coinvolti.

Infine, tu parli di conduzione: io preferirei parlare di regia. Se mi mettessi davanti all’orchestra a battere il tempo la irrigidirei, toglierei spontaneità. È invece importante spiegare il perché della partitura, in che direzione bisogna andare, suggerire modi di suonare, atmosfere. Poi, al momento dell’esecuzione sono sufficienti pochi segnali e qualche cenno d’intesa.

Davide

Quest’anno è uscito un tuo nuovo lavoro: è “Brahm Dreams Still” (Cd Audissea). Confesso che a una prima lettura, il titolo mi era parso “Brahms Dreams Still”. Come sono nate le cinque nuove composizioni di “Brahm Dreams Still” e perché “Brahma sogna ancora”? Qual è stata l’idea centrale di tutto il lavoro?

Dino

Sono composizioni nate in un momento drammatico per la nostra civiltà e la nostra cultura e io, che mi avvicino ormai agli ottantanove, ho sentito il bisogno di trasmettere qualcosa che significasse speranza in un mondo più decente. Anche se Brahma in questi giorni credo soffra di incubi tali che preferirebbe svegliarsi e dimenticare di far vivere noi e tutto l’universo. Non credo nella musica come una dichiarazione di fede politica, ma come un’unione di poetica e di etica. Io comunico delle mie emozioni e spero di trasmettere queste emozioni a chi ascolta, il quale a sua volta le interpreterà in maniera assolutamente personale. Magari non esattamente come sono le mie emozioni, ma comunque le riceverà e le assorbirà.

Suggerisco di ascoltare i cinque brani nell’ordine in cui sono nel disco, perché c’è una precisa consequenzialità fra loro. Ammesso, e non concesso, che si abbia ancora la capacità di mantenere l’attenzione accesa per quasi cinquanta minuti di musica.

Davide

E anche in questo lavoro, per dare vita alle tue composizioni, dirigi una big band di 22 elementi, o meglio di amici straordinari. Parlaci dunque di questo ensemble e di come ha contribuito alla realizzazione di questo disco, attraverso quale reciproca intesa venutasi a creare?

Dino

Sì: è bellissimo quando ci ritroviamo. Io ho imparato tantissimo da loro e mi stupisco sempre quando qualcuno di loro mi dice di avere imparato qualcosa da me.

Ma non sono soltanto diventati amici: sono musicisti davvero straordinari, solisti raffinati, felici di affrontare insieme delle sfide su terreni non battuti in precedenza. E io ho davvero un’enorme riconoscenza nei loro confronti. Senza la loro arte e la loro tecnica, la mia musica non potrebbe esistere. In effetti, sarebbe più pertinente parlare della nostra musica. Anche in questo album il loro contributo, sia nelle parti obbligate sia negli assoli (dal mio punto di vista, non soltanto assolutamente pertinenti, ma strepitosi per intensità e poesia) è stato essenziale.

Non posso citarli qui perché dovrei citarli tutti, uno per uno, sottolineando l’apporto che ognuno di loro dà all’esecuzione di questa musica.

Davide

Anche in questa occasione non c’è un protagonismo solista dei musicisti, se non che in funzione di un armonico quadro d’insieme e, infatti, non vi sono ospiti o “featured soloists” che debbano richiedere spazio a singolari performance che ne giustifichino la peculiare presenza? Che significato conferisci all’assolo degli strumenti nella tessitura complessiva e quanto e che tipo di spazio concedi all’improvvisazione sui temi da te composti, come ne conduci l’eventualità?

Dino

Le mie composizioni sono complete soltanto con l’apporto dei solisti. Mi spiego meglio: gli assoli, con le loro caratteristiche sono pensati già al momento della composizione, proprio tenendo conto delle caratteristiche tecniche e prettamente musicali dei singoli musicisti. Senza di loro i brani non sarebbero completi.

Tendo sempre a tener conto delle diverse personalità dei musicisti (ecco dove la lunga consuetudine insieme si rivela importante) e scrivo in modo tale da consentire loro di esprimersi nella maniera più diretta e congeniale.

In un certo senso, le improvvisazioni sono guidate dall’andamento e dalla struttura dei brani, cui aggiungono quella spontaneità e quella imprevedibilità che, altrimenti, non riuscirebbero a raggiungere.

Poi, non dimenticare l’affermazione di Giancarlo Schiaffini (grande musicista), che pressappoco dice che la migliore improvvisazione è quella preparata con più cura.

Davide

Le tue composizioni hanno qualcosa di oceanico e la stessa nutrita sezione ritmica si diluisce e stempera in variazioni continue e in continui colori, come in una composizione classica e sinfonica benché jazz, o così mi è parso. In che modo organizzi e fondi gli elementi fondamentali della musica, melodia, armonia, ritmo e timbro, attraverso quale tua estetica personale?

Dino

Non ci ho mai pensato, ma penso che tu abbia ragione. Amo la musica classica e la sua forma, la sua struttura e forse, inconsciamente, sono stato portato a trasferirle in un’ottica e con una sintassi jazzistica, che sono le mie.

Per l’amor del cielo, lontanissimo dal cosiddetto Third Stream, che ho sempre considerato un connubio decisamente poco casto, ma in un certo senso – e con tutte le distinzioni del caso – più in consonanza con l’dea gasliniana di musica totale. Dove tutto dovrebbe essere ammesso, purché portatore di emozione, di poesia.

Davide

Oltre al jazz, la musica classica è stata importante per te e quanto nella tua prima formazione musicale? Quali sono stati i brani o i compositori che più hanno incoraggiato e “messo in moto” la tua creatività musicale, la voglia e il bisogno di comporre musica? E, per tornare a quel Brahms che non c’entrava con Brahma, il quale disse “Studiate Bach: lì troverete tutto quello che cercate”, c’è un compositore di cui tu diresti la stessa cosa e di studiare in particolare? O che tu hai studiato in particolare?

Dino

Non sono in grado di dirti un compositore in particolare: forse sarebbe più facile dire quali non amo particolarmente – ma magari sono stati anche loro importanti per la mia cultura e la mia formazione, se non altro per rifiutarli.

Certamente, non posso definirmi un compositore d’avanguardia, anche se faccio cose differenti da quello che fanno gli altri. Non amo ripetermi e non amo fare quello che altri hanno già fatto: se l’hanno fatto prima, significa che avevano l’urgenza intellettuale di farlo, quindi l’hanno fatto con una carica emotiva che è impossibile replicare.

In campo jazzistico sono stati importanti Kenton per l’uso dell’orchestra, Ellington per la capacità di raccontare, John Lewis per l’uso delle sfumature e l’arte della citazione, Mingus per la libertà di spaziare.

Alla tua citazione brahmsiana vorrei rispondere comunque con una citazione verdiana: “Torniamo all’antico e sarà un progresso”. Che non significa, a mio avviso, tornare al Dixieland, ma tenerne conto, come si deve tener conto di tutto quello che conosciamo, jazz o non jazz, da qualsiasi parte arrivi. E poi restituirlo in una forma e con delle urgenze assolutamente attuali e personali.

Davide

Componi improvvisando al pianoforte finché le note non prendano vita come per una loro propria volontà. Qualcosa che ricorda processi creativi come quelli della pittura automatica (Masson, Pollock etc.) o della scrittura automatica (Breton, Kerouac etc. ma ancor prima, sebbene non da lui teorizzata, il Rimbaud della “Lettera al Veggente” e alla sua concezione di poesia come rivelazione dell’inconscio). Ecco, come ti accorgi che non è più la tua volontà, ma qualcosa che ti trascende? In che modo quindi conduci il processo creativo o, in questo caso, ti lasci condurre?

Dino

Certo le note sembrano avere una loro precisa volontà, tuttavia nascono perché io, in quel momento, mi lascio trasportare da pensieri, emozioni, passioni. Quindi, sì, in un certo senso va bene che io affermi l’esistenza di questa condizione, però quasi contemporaneamente c’è un percorso guidato da un misto di intuizione, di emozione e di razionalità.

È come se sentissi subito il suono che alla fine caratterizzerà la composizione, e questo mi succede ormai da tantissimi anni. Poi, subentra quello che io chiamo “artigianato musicale”, vale a dire il lavoro per ottenere davvero quel sound e per rendere intelligibile, il percorso, la storia che desidero raccontare.

Davide

Benché la tua musica sia strumentale, vi sono alcuni riferimenti letterari a cominciare da Rudyard Kipling in “Brahm Dreams Still” (The Bridge Builders), quindi a Shakespeare (Un sogno di una notte di mezza estate) in “Faraway Mountains Turning into Clouds” e a Rimbaud in “Aux premières heures bleues”. Pierre Boulez ha scritto che “per un musicista, il fascino della poesia è così forte che egli non può fare a meno, giunto a un certo punto del proprio sviluppo, di un testo attorno a cui la sua musica andrà a cristallizzarsi”. Nel tuo caso, però, non ci sono versi messi in musica per essere cantati. Qual è allora il tuo rapporto con la parola, poetica e letteraria, e come diventa suono, musica, dunque un diverso linguaggio ineffabile, un’esperienza profonda che vada oltre le parole? E perché preferisci la musica strumentale a quella che preveda anche l’uso della voce, del canto?

Dino

Ho sperimentato, in passato, l’utilizzo di testi, anche decisamente interessanti: mi interessava l’interazione fra musica e parole. Ricordo che, alla fine di una sessione di registrazione, Carmen Lundy mi aveva detto: “Dino, you made me sing contemporary music, not jazz”. Ma da una decina d’anni mi sono concentrato sul suono dell’orchestra e sull’interazione con gli improvvisatori,

Le citazioni letterarie sono sempre di frasi che mi sembrano particolarmente significative, sia dal punto di vista di un pensiero che potremmo definire filosofico o etico sia anche da quello più squisitamente emozionale. Guardandole sotto l’aspetto funzionale, le utilizzo per trasferire a chi ascolterà questa musica qualche sensazione che potrebbe aiutarlo nella fruizione.

Attenzione: è una musica che non vuole mai essere descrittiva, ma evocativa di momenti, di sensazioni, di pensieri.

Davide

Tu hai diretto per cinquant’anni un’importante agenzia pubblicitaria, così che la musica non è stata la tua sola occupazione. E, per altro, se non sbaglio, è stato proprio componendo le musiche per alcuni jingles pubblicitari che è iniziata a suo tempo la tua attività compositiva. Io sono sempre stato affascinato dalle funzioni specifiche della musica. Ma, a parte quelle specifiche, quali funzioni più personali e generali persegui tu attraverso la tua musica?

Dino

Il mio penchant per la musica ha fatto sì che negli anni io abbia composto un certo numero di jingle, che hanno contribuito al successo dei prodotti che pubblicizzavamo. È però un “mestiere” completamente differente dal comporre liberamente. Hai un obiettivo preciso e devi raggiungerlo con delle note e/o con delle parole. L’intuizione e la razionalità vanno di pari passo con il pensiero laterale.

Quando invece compongo liberamente, lo faccio perché ne ho un bisogno quasi fisico. Perché ho bisogno di comunicare, di gridare forte certe mie emozioni, anche le più segrete. Poi, ognuno interpreterà secondo la propria personalità, la propria cultura: ma qualcosa sarò riuscito a comunicare, lasciando una traccia.

Davide

Due parole sulla copertina, che ho trovato molto bella… Rievoca qualcosa di indiano ma anche di azteco.

Dino

È un’opera di mia figlia Allegra, pittrice. Rappresenta Brahma, con le sue quattro teste, mentre dorme (e dormendo sogna) adagiato su un fiore di loto. È stata eseguita su carta e, se guardi la seconda pagina del booklet, vedi come la carta ha assorbito i colori: lascio a te decidere quale delle due pagine sia il recto e quale il verso.

Anche secondo me è molto bella, evocativa, e ha una sua forza, un’intensità, che travalicano decisamente il suo utilizzo strumentale come illustrazione.

Mah, per quanto riguarda l’evocazione di qualcosa di azteco, non so dirti: certo, ci sono archetipi, anche formali, che si ritrovano da molte parti e in molti tempi. In fondo aveva ragione André Malraux quando sottolineava come tutto sia collegato da una linea continua.

Davide

Mentre stiamo facendo questa intervista sono giorni di guerra tra Israele e Iran, ma non è certo la sola guerra in corso in questo momento. La musica di “Brahm Dreams Still” è “un messaggio di speranza in questo momento disperato per il mondo” (e disperato non solo per le guerre). Il linguaggio universale della musica può secondo te avere un impatto positivo e trasformativo sulle vite delle persone, migliorando di riflesso il mondo? Di tutta la musica? O c’è anche un dilagare di mezzi e modalità di ascolto che stanno rendendo la musica sempre più scadente? In breve, c’è una buona e c’è una cattiva musica?

Dino

Non lo so. Penso soltanto che l’industria musicale sia responsabile per l’avere incoraggiato certi atteggiamenti decisamente negativi e nell’aver creato personaggi di dubbia cultura e altrettanto dubbia etica.

Poi, i cambiamenti culturali (?) di questi ultimi anni hanno anche portato a un’incapacità diffusa della fruizione di musiche complesse, di un ascolto che superi i due minuti, del rifugiarsi in una iterazione martellante che ti esime dal pensare.

La buona e la cattiva musica, d’altronde, ci sono sempre state: soltanto oggi ce n’è troppa; come ci sono troppi libri. Vorremmo avere soltanto capolavori, ma purtroppo questo non è possibile.

Davide

Ci sarà occasione di sentirvi dal vivo? Cosa seguirà? Inoltre, puoi indicarci siti, piattaforme e social per approfondire, ascoltare e acquistare i tuoi lavori?

Dino

Sicuramente a Milano, al Teatro No’hma Teresa Pomodoro, il 19 e 20 novembre prossimi. Poi, non so.

I dischi sono distribuiti da IRD e si possono trovare sia nei negozi sia su Amazon. I brani sono ovviamente anche sulle piattaforme digitali, ma io credo che per una musica di questo tipo sia ancora bello avere il cd come oggetto con una sua dignità e personalità, con le note di copertina di un critico autorevole come Thomas Conrad, con l’elenco dei protagonisti, dei solisti, con la riproduzione dell’opera di Allegra Betti van der Noot (che, mi devo ripetere, trovo davvero molto bella).

Davide

Grazie e à suivre…

Dino Betti van der Noot (Rapallo, 1936) è un compositore jazz.

Betti van der Noot è nato a Rapallo nel 1936. Sua madre e suo cugino erano pianisti classici. Ha studiato all’Istituto Musicale Vittadini di Pavia, dal 1946 al 1951; nel 1959 ha studiato privatamente a Milano e negli anni ’70 al Berklee College of Music. In Italia ha diretto gruppi dal 1957 al 1960, ma non è stato attivo nella musica negli anni ’60. Ha guidato una big band amatoriale dal 1969 al 1972 e una big band professionale dal 1982 e, nel 1987, a New York. È stato presidente di B Communications, agenzia pubblicitaria di Milano e World Vice President della International Advertising Association.

Nelle sue band hanno lavorato, fra gli altri, Luis Agudo, Franco Ambrosetti, Gianni Bedori, Luca Begonia, Stefano Bertoli, Sandro CerinoBob Cunningham, Andrea Dulbecco,  Mark Egan, Bill Evans, Mitchel Forman, David FriedmanDanny Gottlieb, Luca Gusella, Donald Harrison, Hugo Heredia, Daniel Humair, Carmen Lundy, Alberto Mandarini, Paul MotianFamoudou Don Moye, Emanuele Parrini, Federico Sanesi,  Giancarlo Schiaffini,  Jonathan Scully, Steve SwallowAres TavolazziJohn Taylor, Tiziano Tononi, Gianluigi Trovesi, Giulio Visibelli, Joyce Yuille, Vincenzo Zitello.

«Le sue composizioni sono narrazioni ricche di colori, spaziano dalle tonalità più audaci a quelle più sottili e rivelano un melodista sensibile, inventivo e maestro lapidario di abilità orchestrali.»

Premi e onorificenze

  • Disco dell’anno (Premio Polillo), Sondaggio della critica di Musica Jazz (1987, 1989, 2013, 2015)
  • Disco dell’anno, Sondaggio della critica di Musica e Dischi (1989)
  • Disco del decennio, Sondaggio della critica di Musica e Dischi (1989)
  • Compositore jazz dell’anno, Sondaggio della critica di Musica Jazz (2007, 2009)

 

Discografia

  • Basement Big Band, 1977
  • A Midwinter Night’s Dream, 1983
  • Here Comes Springtime, 1985
  • They Cannot Know, 1987
  • A Chance for a Dance, 1987–88
  • Space Blossoms, 1988–89
  • Ithaca/Ithaki, 2003–05
  • The Humming Cloud, 2007
  • God Save the Earth, 2009
  • September’s New Moon, 2011
  • The Stuff Dreams Are Made On, 2013
  • Notes Are But Wind, 2015
  • Où sont les notes d’antan?, 2017
  • Two Ships in the Night, 2018
  • Let Us Recount Our Dreams, 2023
  • Brahm Dreams Still, 2025

 

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