Cose Note Edizioni
EAN 9791281556096
Fare l’attore per il cinema è un insieme di “routine e momenti morti, con una percentuale enorme di momenti morti”. Se ti va bene, diventi famoso in America e di conseguenza anche in Italia, vittima di una fama “di ritorno” che attinge alle scoperte altrui. Alloggi in ville da sogno prese in affitto dalla produzione, mangi foie gras come fossi il gatto di una ricca famiglia, guidi macchine di lusso.
Se ti va bene ti assoldano per girare una pubblicità di un tonno in scatola, che ti riempie le tasche come una produzione hollywoodiana disinteressandosi delle tue innate doti di recitazione. E anche se ti va bene sconti l’altra faccia della medaglia: la solitudine, un’ex moglie e anche una ex figlia, il disorientamento e la perenne ricerca della tua identità tra tutte quelle che sei costretto a metterti addosso, l’essere parte di un meccanismo incapace di creare qualcosa di nuovo e unico, e costretto all’infinito riciclo delle idee passate.
Questi sono alcuni dei temi che vengono trattati nell’ultimo romanzo di Roberto Saporito, “Polimeri” (Cose Note Edizioni 2025) che ci proietta all’interno della vita di un attore cinquantenne che non trova più il suo posto tra la gente del cinema, “attori o presunti tali, sceneggiatori o presunti tali, registi o presunti tali”.
Gli sceneggiatori sono i più giovani, gli attori sono una via di mezzo, i registi sono i più vecchi. E poi c’è lui, che si sente giovane nonostante i peli che gli stanno riempiendo il volto e che viene chiamato sul set perché belloccio più che bravo.
Il romanzo è un noir che per fortuna non si àncora al canone dell’investigatore relegato in un paesino dai tratti tipici, che attira su di sé e sui suoi compaesani sventure tipiche dell’Antico Testamento. “Polimeri” è l’esatto opposto: retto da un profondo taglio psicologico, si snoda tra tre città, Roma, New York e Los Angeles, accomunate dal fil rouge della decadenza della civiltà occidentale.
Los Angeles è popolata di taxisti xenofobi e di bande di motociclisti che vanno in giro con i fucili a canne mozze spianati. New York è un luogo in cui devi vivere in maniera stanziale, o perdi il diritto alla cittadinanza, e ti trasformi in un turista. Roma è la più rassicurante e svetta sulle altre contrapponendo la sua anima antica con quella più vecchia delle città americane.
Tre sono i luoghi e tre le voci narranti, ognuna associata alla prospettiva di una persona diversa: l’io introspettivo del protagonista, il tu della figura quasi trasparente che sembra punire chi è colpevole di esistere suo malgrado e un noi che sovrappone le identità e ne genera una nuova, trascendente, più legata al concetto di umanità che ai personaggi da cui deriva.
Una serie di accadimenti inquietanti colpisce o sfiora il protagonista come in un film di David Lynch, anche se sono più spesso i soggetti che lo contornano a pagarne le conseguenze. Quella che percepisce è una paura che viene più da se stesso che dall’America. La violenza è nella sua mente, come timore o preconcetto nei confronti del Paese che lo ospita: è più una violenza temuta che un insieme di fatti reali.
Eppure una scia di sangue viene tracciata e lascia i suoi segni, come in un’escalation che sembra avvolgere tutti, perché la decadenza dell’Umanità non può che trovare compimento nella distruzione del tutto.
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