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Venezia 2012

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69a Mostra Internazionale D'arte Cinematografica
 
Chiusa l’era Marco Müller, che se n’è andato al Festival di Roma a cercare di salvare l’amministrazione Alemanno/ Polverini, chiuso fisicamente il buco lasciato dal nuovo palazzo del cinema, ennesima incompiuta di un Paese incapace di valorizzare le proprie eccellenze, il presidente della Biennale Paolo Baratta e il nuovo direttore della Mostra del Cinema Alberto Barbera, tracciano una riga sopra le passate edizioni e ai progetti falliti, cercando un rinnovamento attraverso la logica dei piccoli passi. Per la parte infrastrutturale, si è deciso, visto l’oggettiva impossibilità di proseguire in un progetto nato male, anche sfortunato (diventa sempre difficile parlare di sfortuna nelle cose italiane), di rinnovare nei prossimi anni gli impianti esistenti. Terminata la ristrutturazione, iniziata lo scorso anno, della Sala Grande con l’eliminazione della ormai anacronistica Sala Volpi (ricavata in questa edizione nel Palazzo dell’Ex Casinò), si procederà, la prossima edizione, al rinnovamento della Sala Darsena e del Casinò. Accantonato definitivamente il progetto di un nuovo palazzo del cinema, gridano vendetta i 37 milioni di euro già spesi per un’opera neppure iniziata, bilancio che ci si trascinerà negli anni a venire e che potrebbe ulteriormente gonfiarsi (c’è ancora un’area ben nascosta alla vista, quella dello scempio compiuto nell’abbattere i 132 alberi della pineta esistente).
 
 
Anche per la sezione cinematografica, pur mantenendo l’impostazione organizzativa degli anni precedenti, si è deciso di ridurre un po’ il programma, selezionando meno pellicole, puntando sulla qualità. In termini qualitativi non è che si sia assistito ad un sensibile miglioramento rispetto alle precedenti edizioni, sicuramente ne ha giovato la fruizione alle sale, riducendo le resse, ma assicurando comunque una buona copertura dell’evento, per tutta la durata del Festival. Sicuramente positivo il ritorno di Alberto Barbera, già direttore della Mostra nel biennio 1999-2001, in questa 69a edizione che necessariamente rimane di transizione. Curioso il fatto che nell’anno della dipartita di Marco Müller, accusato per anni di eccessiva orientalità, vinca il Leone d’Oro proprio un film coreano.
Introducendo proprio l’argomento del concorso “Venezia 69” e dei relativi premi, il Leone d’Oro a Kim Ki-duk con il suo 18° film “Pieta” non è stato inaspettato, pellicola apprezzata molto dalla critica in sala. Il regista coreano non rappresenta più una sorpresa da quando nel 2004 vinse rispettivamente l’Orso d’Argento per la regia a Berlino con “La Samaritana” ed il Leone d’Argento a Venezia sempre per la regia con “Ferro 3 – La Casa Vuota”. “Pieta”, come da titolo, è un film sulla pietà umana e racconta dell’amore di una madre e dal suo desiderio di vendetta, tema che il regista ben ci descrive attraverso il suo personale stile narrativo. Premio Speciale della Giuria, assolutamente meritato, a “Paradies: Glaube (Fede)” di Ulrich Seidl, discusso regista austriaco segnalatosi precedentemente proprio qui a Venezia nel 2001 con “Canicola” premiato anche all’epoca con il Premio Speciale della Giuria, alle prese ora con una trilogia sulla definizione del Paradiso, di cui questo film rappresenta il secondo della serie, dopo la partecipazione con il primo capitolo “Paradise: Liebe (Amore)” all’ultimo Festival di Cannes. Il film ha già fatto discutere, guadagnandosi una denuncia dal sito cattolico Pontifex, e farà ulteriormente discutere, augurandoci, grazie a questo premio, di riuscire a trovare spazio, senza censure, nelle sale italiane, magari riuscendo a recuperare anche il primo capitolo.
Fra i tre premi principali del concorso, il Leone d’Argento per la migliore regia è andato a “The Master” di Paul Thomas Anderson, pellicola molto attesa dopo i successi, dello stesso regista, di “Magnolia” ed “Il Petroliere”, film in realtà che ha lasciati un po’ perplessi per la trama un po’ claustrofobica, ma che ha meritato, qui si senza discussioni, la Coppa Volpi per i migliori attori a Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman, straordinari interpreti.
Da segnalare il Premio per la Migliore Sceneggiatura a Olivier Assayas con “Apres Mai”, vitale pellicola sul post 68’ in Francia, un po’ autobiografico, recitato benissimo da una schiera di giovani attori non professionisti.
Il dazio all’Italia viene pagato con un premio che fa francamente sorridere, il Premio per il Migliore Contributo Tecnico per la Fotografia, a Daniele Ciprì per il film “È Stato il Figlio”, pellicola che ha un po’ diviso i pareri, ma che non è sembrata francamente un capolavoro.
Le due grandi delusioni del concorso ufficiale sono state sicuramente le pellicole “Passion” di Brian De Palma e “To The Wonder” di Terrence Malick, ovviamente per l’importanza dei registi. Se De Palma ci propina un discutibile remake di un film francese del 2010, dalla trama non sempre logica, film forse poco adatto ad essere rigirato e comunque thriller di genere in cui è difficile essere originali, Malick continua sul solco tracciato dal suo precedente “The Tree of Life”, Palma d’Oro a Cannes dello scorso anno. Se “The Tree of Life” aveva diviso il pubblico fra detrattori e fans, questo “To The Wonder” mette tutti d’accordo e paradossalmente ridimensiona, riproponendo la stessa struttura narrativa, anche il film precedente. Una serie infinita d’immagini eccezionali (ogni inquadratura una cartolina), musica classica a contorno ad esaltarne ancora di più la magnificenza e personaggi che pensano, ed ogni pensiero diventa poesia, anche le banalità. È un cinema che personalmente ritengo molto ruffiano, autocompiacente, che vuole esaltare la bellezza di ogni luogo, stride molto con la realtà, anche miserabile, che vuole rappresentare. In più i personaggi in questo film dalla trama inconsistente, risultano essere addirittura irritanti, Ben Affleck pezzo di legno e viso di cemento, Olga Kurylenko insopportabilmente danzerina in tutto il film, e Javier Bardem cupo sacerdote nell’affannosa ricerca della presenza di Dio nelle classi emarginate della società.
Due ultimi appunti sul concorso. Il primo, la presenza di Takeshi Kitano, altro mostro sacro, che, dopo la crisi mistica della sua trilogia autobiografica surreale, ritorna ai film Yakuza con “Outrage” nel 2010 e “Outrage Beyond” al Festival di quest’anno, dove però sembra essersi un po’ impantanato, senza offrire spunti nuovi.
Il secondo, segnalare l’altra pellicola che più ho apprezzato del concorso insieme a “Paradies: Glaube”, “La Cinquième Saison” di Peter Brosens e Jessica Woodworth, film sorprendente che inizia come un documentario sulla provincia agricola francese, per poi trasformarsi in un dramma quasi teatrale, attraverso un crescendo angosciante di eventi che vede protagonista una natura neanche ostile, ma semplicemente scomparsa, cancellando la razionalità umana riportandola ad uno stato arcaico e primitivo. Fra gli altri premi, quello della Settimana della Critica è stato vinto dal film svedese “Äta Sova Dö (Mangia Dormi Muori)” della regista Gabriela Pichler, in assoluto il migliore dei selezionati, una storia alla Ken Loach con una splendida protagonista femminile. Altro film da segnalare è “Wadjda”, voluto fortemente da Alberto Barbera ed importante per due motivi, la presenza della prima donna regista dell’Arabia Saudita, Haifaa Al Mansour, e primo film mai girato in Arabia Saudita, paese in cui non esistono sale cinematografiche, considerate strumento del male, ed in cui la diffusione cinematografica avviene solamente via internet o spostandosi nei confinanti Emirati Arabi. Il film è la storia di una ragazzina che nel desiderio di possedere una bicicletta, rivendica una propria emancipazione, e nella sala, alla presenza delle protagoniste di questo lavoro, si è assistita ad un’autentica commozione da parte del pubblico.
Sono stai tanti i film apprezzabili. Citandone solo alcuni, “Stories We Tell” di Sarah Polley, intimo diario familiare, “Keep Smiling” di Rusudan Chkonia, sulle madri georgiane, “Kapringen (A Hijacking)” di Tobias Lindholm, storia di pirateria somala.
Arrivando al cinema italiano, strano a dirsi, anche quest’anno si è assistito alle solite polemiche, questa volta per il film di Marco Bellocchio “Bella Addormentata”, ispirato alla drammatica vicenda di Eluana Englaro. Personalmente non mi ha convinto. Con un argomento così delicato, avrei preferito un crudo documentario sui fatti, montando fedelmente le immagini televisive, le cronache dei giornali e le discussioni di quei giorni così come sono nate e si sono evolute. Sarebbero state già sufficienti a far capire il clima, le assurdità che sono state dette e sentite, le incomprensibili fazioni emerse in una storia così intimamente familiare, le speculazioni e le decisioni prese e non prese. Costruire una fiction su tale argomento, inserendo elementi cinematografici, caratterizzando storie e personaggi, ha fortemente indebolito la forza della vicenda, sulla quale, peraltro, risulta inutile affrontare un dibattito serio in un Paese immaturo ed incapace di elaborare il semplice concetto di libertà di coscienza. Ascoltare le polemiche di politici e personaggi vari, che hanno demonizzato il film senza neanche cercare di capirlo o addirittura vederlo, non fa che confermarmi questa convinzione. Paradossalmente questo genere di film avrebbe potuto ottenere più successo in un altro Festival Europeo, dove viene più apprezzata la rappresentazione delle nostre miserie politiche e sociali (citando alcuni esempi, “Gomorra”, “Reality”, “Il Divo”, ecc..). Ma questo non vuol dire che il film qui a Venezia meritasse un premio.
Per gli altri film italiani, in generale solito discorso degli ultimi anni. Non c’è mai una sceneggiatura originale, storie sempre tratte da best seller di dubbia qualità, trame scontate, poco coraggio anche nel rappresentare il marcio, c’è perennemente una sorta di pudore, quasi un’autocensura anche visiva, sempre un semplice accenno su alcuni argomenti come la violenza, il sesso, là dove sono centrali nella storia. Mentre paradossalmente, il sesso gratuito, inutile alla trama, magari fra gli attori protagonisti (sempre quelli famosi), è quasi sempre un elemento presente, quasi a rivendicare, da parte del regista, una scelta di libertà anticonformista, che nella realtà non c’è. Citando alcuni titoli di quest’anno “Acciaio” di Stefano Mordini, “Gli Equilibristi” di Ivano de Matteo hanno una struttura non dissimile dal “Ruggine” di Daniele Gaglianone o da “Quando La Notte” di Cristina Comencini dello scorso anno, ed altri titoli delle edizioni passate. Sono personalmente esausto di vedere ogni anno questo genere di pellicole. Mi fanno sorridere le ricche delegazioni italiane, dove c’è un regista, neanche uno sceneggiatore ma direttamente un autore di un romanzo, un direttore della fotografia, un montatore, una costumista, un addetto al casting ecc.., confrontate con dei film, piccoli gioielli di altre nazioni, dove c’è un regista che fa tutto (sceneggiature, musiche, costumi, ecc..) ed un attore. Segno che il buon cinema è fatto più di idee che di soldi. Come il documentario Il Risveglio Del Fiume Segreto” di Alessandro Scillitani (mio concittadino), un viaggio sul Po con il giornalista Paolo Rumiz, interessante documento su di una “terra di nessuno” rappresentata dal più importante fiume italiano.
Nella speranza che la via tracciata per il futuro del cinema italiano sia questa.

 

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