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Il Poliziesco – anatomia di un successo

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Il Poliziesco – anatomia di un Successo

 

Nei posti più alti della classifica da qualche tempo in qua furoreggiano i romanzi polizieschi.

 

Dopo un lungo periodo vissuto ai margini del mercato editoriale, la cosiddetta letteratura di genere, è riuscita in un colpo solo a conquistare sia il pubblico che la critica, impresa generalmente considerata assai difficile da compiere.

 

Ogni giorno in dozzine di Paesi diversi per cultura e per tradizione vengono vendute centinaia di migliaia di copie, e sono proporzionalmente in costante aumento autori ed editori che si dedicano al genere.

 

Guardando indietro alla Storia, possiamo osservare che la diffusione su vasta scala del Giallo risale a cinquant’anni fa, quando la rivoluzione del libro tascabile, nata dalla necessità di stampare una grande quantità di volumi a buon mercato per le forze armate americane, aprì le porte al filone giallo, coniugando per la prima volta le leggi del marketing al mercato editoriale.

 

Il gusto per il proibito, per il non lecito, per l’eroe negativo che si macchia di un crimine socialmente deprecabile, anche se ancora ambientato nelle irreali atmosfere romantiche dei salotti e delle tenute da caccia, non hanno, a ben guardare niente di diverso, dai brividi di quelle che furono le storie gloriose dei ladri gentiluomini, da Robin Hood a Fantomas e Arsenio Lupin.

 

L’attrazione morbosa per il criminine, l’amore per l’avventura, la passione per storie rutilanti composte da inseguimenti, caccie senza quartiere, indagini serrate e cattura finale, sono sempre le stesse, ataviche, di quando si narravano i racconti popolari intorno ai falò.

 

C’è sempre quel pizzico di simpatia per il malandrino, per il perseguitato, per colui che sfugge alle leggi razionali della società contemporanea, per chi insomma sa ritagliarsi un suo spazio al di là e al di sopra delle convenzioni. Ma l’anelito e la ricerca dell’ordine precostituito, nonostante tutto, predominano, e allora ben venga l’investigatore, il giudice imparziale, il giustiziere mascherato, colui che tutto riconduce alle giuste proporzioni.

 

Non a caso nella storia, il romanzo poliziesco segue da vicino le evoluzioni dell’ordine sociale.

 

Ed è proprio nell’Ottocento che questo genere prolifica e prospera, esattamente quando le connotazioni metropolitane stavano mutando, quando la rapida rivoluzione industriale, l’assembramento nei centri urbani, e l’aggregazione di una miriade di individui diversi portavano allo sviluppo di un nuovo tipo di criminalità.

 

Ben se ne accorsero Balzac, Hugo, Dickens, Dumas e Dostoevskji che nella loro letteratura tentarono, ciascuno a suo modo, di rappresentare questa realtà poliedrica tarata da una microcriminalità urbana, esplorando le oscure connotazioni dell’animo umano, le miserie e le tentazioni quotidiane, e il ritmo di vita che andava facendosi sempre più serrato, estranianante, convulso e competitivo.

 

Per lungo tempo il romanzo poliziesco è rimasto affidato alle soli doti risolutive dell’investigatore o detective di turno, che da solo si arrogava il compito di individuare, catturare ed assicurare alla giustizia il colpevole.

 

In epoca moderna poi furono le infinite applicazioni della scienza alla criminologia, dai tempi di Lumbroso in poi, ad apportare il loro il loro significativo apporto alla caccia all’uomo, aprendo nuove strade che ai tempi di Sherlock Holmes sarebbero sembrate giochi di alchimia.

 

E’ il tempo delle analisi di laboratorio, delle impronte digitali, dei dossier computerizzati, delle banche dati, dei profili psicologici.

Oggi le armi a disposizione del romanzo poliziesco sono innumerevoli e varie, eppure, nonostante tutto, ancora si ricorre volentieri alle rapide intuizioni, al talento investigativo, alle percezioni personali del detective, che è, e rimane, il vero fulcro della storia.

 

Molta acqua è passata sotto ai ponti da quando nel 1844 Edgar Allan Poe inaugurà il genere investigativo basato su una metodologia analitica e su un pizzico di intuito.

 

Conosciamo tutti la successiva evoluzione di Conan Doyle, con il suo investigatore di Baker Street, che basava le sue indagini sul metodo deduttivo, lo stesso che veniva applicato, allora per la prima volta, nelle diagnosi mediche.

 

Poi fu il tempo di Agatha Christie che, in una ventata di rinnovamento, mischiò tutte le carte del mazzo, riscrivendo completamente le regole fino allora conosciute del genere investigativo.

 

Ma ancora i delitti erano circoscritti ai salotti, alle tenute di campagna, ai villaggi idialliaci della provincia, e i colpevoli non erano quasi mai veri criminali, ma persone normalissime, gente comune in cui il germe del delitto era scaturito a causa di pressioni psicologiche determinanti e insostenibili.

 

Contemporaneamente, negli Stati Uniti, iniziava l’epoca del proibizionismo, del contrabbando, della malavita organizzata. Centinaia di persone quotidianatamente si ritrovavano a confrontarsi con la delinquenza da strada, e il fenomeno si espanse poi rapidamente a tutta l’Europa nell’immediato dopoguerra.

 

Nel romanzo poliziesco cominciano ad affiorare allora romantiche figure di investigatori dolenti, amareggiati, cinici eppure coraggiosi, che tentano di caricarsi sulle loro spalle tutti i mali del mondo, in una lotta senza quartiere e senza speranza.

 

Eroi forse destinati a perdere, a soccombere in una lotta impari, ma che ben rappresentano il crescente malessere dell’uomo comune, congestionato e oppresso dalle difficoltà economiche sempre crescenti, in un mondo che si fa ogni giorno più difficile, dove si impara spesso a sopravvivere a costo di notevoli sacrifici e pesantissime rinunce, anche di ordine morale.

 

Appaiono sulle pagine stampate della narrativa di genere episodi di violenza gratuita ad opera della malavita locale, imperversano le piccole bande di delinquenti, si tenta di rappresentare la corruzione e il degrado che infestavano le forze politiche e amministrative, fino ai ranghi medesimi dell’ordine pubblico.

 

E’ questa l’epoca degli eroi solitari, Philiph Marlowe, Sam Spade, Mike Hammer, e le loro controfigure nobili, dalla parte della giustizia,  sì, ma non meno amare e dolorosamente nevrotiche, come Philo Vance e il comprensivo, umano, ma disilluso Commissario Maigret.

 

Arriva il momento in cui giallo classico e il noir continuano a commistionarsi vicendevolmente dando vita a dei generi intermedi, di non facile definizione, dove l’attribuzione viene conferita solo in base alla predominanza di determinati aspetti o meccanismi narrativi.

 

Ai nostri giorni quella che può forse identificarsi facilmente come l’unica differenza tra il Giallo e il Noir, è, al di là del percorso investigativo e del paradigma indiziario, la soluzione finale che viene presentata al lettore.

 

Nel Giallo si continuerà a privilegiare soluzioni precise, determinate, conclusive e socialmente rassicuranti.

 

Mentre il Noir preferirà proporre continue sorprese e contraddizioni interne, arrivando a prospettare solo un simulacro di giustizia, ma con un retrogusto amaro di sconfitta, aggravato dalle sempre fortissime implicazioni psicologiche commiste al crescente degrado e al disagio sociale.

 

Alla fine non importa se l’investigatore di turno sia un eroe solitario, o una ben affiatata squadra di detective, se la cornice sia contadina od urbana, se le ambientazioni siano metropolitane e graffianti, o squisitamente provinciali.

 

Che ci si trovi sulle malfamate banchine del  Porto di Marsiglia, o nella sonnolenta campagna Tosco Romagnola, quello che conta è che il lettore ha bisogno del poliziesco, oggi, perché lo aiuti a comprendere la realtà in cui tutti viviamo.

 

Una realtà in cui il crimine e la violenza bussano insistentemente alla porta di casa nostra, dove i casi di croncaca nera sono spesso più incomprensibili e più improbabili del più fantasioso parto letterario dell’autore di turno, dove per convivere con l’agghiacciante realtà quotidiana è necessario comprendere gli avvenimenti ed inquadrarli in un contesto, se non proprio accettabile, quanto meno comprensibile.

 

Nella storia sociale del delitto, infatti, lo spasmodico interesse nutrito da centinaia di milioni di persone verso le storie criminali, è riconducibile al desiderio di ordine, e al tempo stesso, alla necessità di evadere dalle regole precostituite.

 

Così, ora come allora, il delitto ci fa rabbrividire perché drammatizza enfaticamente l’eterno conflitto tra la morte e la vita, ma al tempo stesso ci esalta come fenomeno apertamente contrapposto all’ordine sociale precostituito, lacerando nelle nostre coscienze quello che è sempre stato vissuto come un confine, ahimè sempre più labile, tra il bene e il male.

 

Per questo si parteggia per l’assassino, ma si trema per la vittima, per questo gli investigatori sono sempre un po’ deboli e qualche volta persino negativi, per questo i crimini più efferati hanno sempre un minimo di motivazione psicologica che li attenui in qualche maniera agli occhi della società, che poi giudica e condanna.

 

Proprio perché il crimine oggi non è poi così lontano dai nostri salotti, e potrebbe varcare la porta di casa nostra in qualunqe momento, anche se è auspicabile che continui a farlo unicamente sotto la confortevolissima e rassicurante veste di un  romanzo poliziesco sul nostro comodino.

 

Sabina Marchesi

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