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Dead Can Dance live a Milano, 24 marzo 2005

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Dead Can Dance live a Milano, 24 marzo 2005

 

 

Non ci sono molti gruppi in circolazione che sia possibile paragonare ai Dead Can Dance: probabilmente non ve ne è proprio nessuno, con tutto il rispetto per tanti artisti che hanno dedicato la propria carriera a costruire un pot-pourri sonoro capace di pescare non solo da diverse tradizioni musicali ma anche da differenti epoche. Ebbene, se i DCD ritornano in pista dopo anni d’assenza e decidono di fermarsi a Milano per una data del loro primaverile tour europeo, andarli a vedere dal vivo è al tempo stesso un piacere per l’ascoltatore ed un dovere per il recensore!

Ad ospitare la performance del gruppo australiano è il teatro Dal Verme: una struttura storica, recentemente ristrutturata e rimessa completamente a nuovo, ben nota agli appassionati di musica classica ma poco o nulla appetibile al pubblico dai gusti più moderni. I DCD hanno rappresentato in effetti un’eccezione nel cartellone del teatro: per una sera il Dal Verme ha visto affluire un pubblico che, presumo, avesse poco a che fare con quello comunemente accolto nelle sue sale. La mia curiosità nei confronti dell’evento del resto abbinava all’elemento musicale vero e proprio, di gran lunga predominante come è facilmente immaginabile, l’interrogativo sul tipo di fans che la band potesse avere in un Paese come il nostro. Per qualche motivo, forse per l’età non più verdissima del gruppo stesso (fondato più o meno un quarto di secolo fa), mi ero aspettato un pubblico non proprio attempato, ma caratterizzato quantomeno da una folta presenza di over-40: l’età media invece si è rivelata assai più bassa. L’impressione fornita dalla sala grande del Dal Verme colma in ogni ordine di posto, ribollente di entusiasmo e di attesa per lo spettacolo, si è dimostrata gratificante già di per sé.

Descrivere il concerto è impresa piuttosto ardua. Chi abbia incontrato anche solo di sfuggita i DCD nel proprio percorso musicale si sarà accorto di trovarsi al cospetto di una band ben poco tradizionale, e comunque non ascrivibile praticamente a nessun genere preciso. Costruita sulle eccezionali doti vocali di Lisa Gerrard e Brendan Perry, la musica dei DCD attinge strumenti, ispirazioni e sonorità dai quattro angoli del globo, li metabolizza e li ripresenta in un’interpretazione unica e prepotentemente personale: è musica senza tempo, o meglio al di fuori del tempo. La Gerrard è una delle poche voci al mondo, credo, capaci di reggere sulle spalle un’intera canzone senza necessitare di alcun accompagnamento strumentale, o al massimo di un lieve sottofondo di tastiere. I brani da lei interpretati le lasciano spesso l’onore del palcoscenico in quasi completa solitudine: lei si presenta avvolta in una semplice tunica gialla, che rende quasi impossibile non concentrare la propria attenzione sulla sua incredibile vocalità. Perry ha una voce calda e avvolgente, di grande potenza, ed un look molto più casual: quando è lui a condurre le danze le canzoni assumono in genere una tonalità vagamente più terrena, senza che questo peraltro implichi alcun calo di tensione o di resa finale. Sul palco insieme a loro si alternano, in una configurazione mai stabile, sei musicisti: due tastiere, un basso e tre percussionisti. Quando il gruppo è al completo il sound è ricchissimo di sfumature: impossibilitati a coglierle tutte, generalmente si sceglie di seguire il richiamo della Gerrard o di Perry senza forse tributare il giusto omaggio alla piattaforma strumentale dalla quale i due si librano in volo. Come sempre, la presenza sul palco di una nutrita sezione di percussioni è garanzia di sonorità coinvolgenti e vivide, ma anche quando queste lasciano spazio a situazioni più intimistiche il risultato è sbalorditivo: nel fulgore dell’amplificazione live viene forse a mancare la solenne semplicità che alcune composizioni vantano su disco, ma viene al contempo esaltata la prorompente energia che le fa vibrare.

Presentatisi sul palco con un certo ritardo, i DCD ripagano la folla con un concerto di lunga durata e grandissimo impatto, rovinato solo dai continui flash delle macchine fotografiche inspiegabilmente ammesse in sala. Non mancano nemmeno i bis: si aprono con un’ipnotica Spirit Dance e regalano al pubblico (ed al sottoscritto, che la ritiene una delle vette della loro produzione ed una delle poche canzoni veramente capaci di far accapponare la pelle ad ogni ascolto) una limpida Severance, anche se per una a mio modo di vedere infelice scelta della scaletta si chiudono con un brano musicalmente piuttosto banale in cui la voce della Gerrard è per giunta sminuita. Si tratta però dell’unico, e a ben vedere irrilevante incidente di percorso: al termine dell’esibizione si vorrebbe ricominciare da capo, ma ci si trova di fronte alla consapevolezza che un evento unico nel suo genere si è concluso e che forse non si avrà più l’opportunità di assistere ad uno analogo. I DCD ringraziano ed abbandonano il palco: partiranno subito alla volta della Germania e concluderanno infine il loro tour con due serate a Londra.

Alla vigilia del concerto mi chiedevo come la musica più spirituale che abbia mai ascoltato avrebbe assorbito l’impatto con un palcoscenico reale: ho scoperto che inevitabilmente l’impatto cambia, ma non ne viene in ultima analisi sminuito. L’intima solennità delle registrazioni di studio lascia in genere il posto alla vitale dirompenza della sezione ritmica ed alla potenza delle voci, ma la musica rimane sublime. La mia speranza, e credo quella di tutto il pubblico del Dal Verme, è ora quella di avere altre possibilità in futuro di ripetere l’esperienza.

Fabrizio Claudio Marcon

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