KULT Underground

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Stige

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Stige

Tutte le volte che passo il posto di blocco all’entrata della città mi chiedo se ne valga veramente la pena.
Quattro morti di fame, armati con fucili a ripetizione mi fissano insicuri mentre mi avvicino col motore al minimo, e prima di muoversi cominciano a confabulare tra di loro. Ed in quegli occhi scuri, che mi guardano di sbieco, si legge come in un libro quanto siano invidiosi del mio passare, dei miei soldi, della mia vita lontana da lì, della mia macchina scura; e li immagino folli per le follie che respirano giorno per giorno, e simili ormai a cani randagi.
Ed io allora, a stento, butto giù qualche frase nella loro lingua bastarda e li fisso duro, facendo capire a chi, più grande di loro, la mia vita importi; ed tiro fuori qualche moneta e la getto a quello con il fucile meno rovinato, capo de facto, e penso "adesso si staranno chiedendo quante altre ne abbia addosso, e quanto rischiano a farmi fuori così, senza nessuno in giro", e poi, li vedo quasi piangere dalla voglia, quando io tiro fuori un pacchetto nuovo nuovo di Malboro, e lo apro ad arte, facendo fare il giro al nastrino trasparente, e ne tiro fuori lentamente una, e poi mi fermo a guardarli, lì, ammutoliti, come di fronte ad una divinità o ad un sogno, e, sollevato, sorrido loro, e loro mi sorridono di rimando, e poi passo il pacchetto in giro ed è come fosse riapparso il Natale.
Ma anche girare per le strade fino al porto non è poi tanto meglio. La gente è rintanata come topi nel buio umido di finestre martoriate, e sento qualcuno, qua e là, che grida, mentre il rombo tozzo della mia vettura rompe la miseria del giorno. Quei pochi in giro a piedi sembrano zombie ed hanno anche loro fucili e facce che il diavolo stesso si volterebbe dall’altra parte. Mi fissano stanchi. Io li osservo senza intensità. Qualcuno mette la mano sull’arma e mi urla una rabbia cieca e senza fine. Chiudo gli occhi un attimo prima di accelerare, e la mia vita, in qualche modo, continua.
Fumo per non pensare, con il volante ruvido sotto i guanti senza dita, stretto come il timone di una nave sullo Stige. Ma mentre sento sotto di me tutte le buche di una strada senza più dignità, mi accorgo che non serve e che non posso; non posso non pensare, non riflettere. E scopro che la cosa che più mi sconvolge non sono i bambini che in qualche anfratto comunque giocano, e se li vedi, loro ti fissavano con uno sguardo strano, non spento come gli adulti, ma strano, come se volessero dirti qualcosa, e non ci fossero parole per esprimerla senza che tu giunga a pensare che non sono, no, non sono più davvero bambini: la cosa che più mi sconvolge sono i cartelli con la pubblicità, strappati per tre quarti, ma ancora lì a sorriderti; sono i manifesti sui muri di case ormai disabitate, con i colori ormai spenti, ma sempre immensamente più vivi dell’inverno delle rovine della guerra. Quei cartelli mi dicono decisi "ehi, era come a casa tua, sai, qui. Magari il nome dei nostri bagnoschiuma non saresti riuscito a pronunciarlo, ma anche da noi mettevamo della donnine niente male a far da spot. C’era anche la Coca Cola, prima. E potevi ordinare un caffè, e un tizio in cravattino te lo portava insieme ad un cioccolatino." E, non so, in qualche modo questo mi fa più male dei morti ammassati sotto due dita di terra scura, dei fucili neri, delle case distrutte e del cielo grigio come in una foto in bianco e nero. Perché questo mi fa pensare che non sono, non siamo, forse, immuni. Non c’era anche qui la stessa voglia nostra di pizzi sui reggiseni, di una bibita in un bar del centro? Non c’erano anche qui lavatrici nei negozi? Non c’era la smania di seguire per tivù qualche eroe con le ali ai piedi ed un pallone incollato alle caviglie? Nessuno prima, pensava già alla guerra.
Poi svolto in una via più lunga e mi dico "ehi, là, dove adesso rimangono solo macerie, c’era un ristorante". E lo ricordo bene: sono venuto, con gli amici più volte d’estate prima della guerra, a sognare e a far progetti sotto quel cielo splendido ed infinito che non riesco più nemmeno a ricordare.
Là, un cameriere un po’ impacciato aveva portato pesce, dolci, liquori, a quattro uomini in abiti alla moda, che parlavano ridendo di tempeste, donne, e affari.
Là, il Dritto, dopo la terza tequila si era alzato in piedi, e aveva detto (aveva urlato) in italiano "Non rimarrà una pietra". E io, non ubriaco ma alticcio, avevo riso. Forse ricordo un brivido negli altri due. Forse ricordo che il locale si era fermato come un attimo, nessun respiro, intendo, per un secondo almeno. Ma poi solo risate, altri liquori, e donne.
Ma quell’anatema, quella profezia, adesso aveva avuto il suo compimento. Di quei liquori, di quel cameriere, delle donne facili di quella sera, cosa rimaneva? Nulla.
Nulla.
Forse c’era una logica in questo. Una lezione. Ma se c’era, era una di quelle che non mi era dato capire.
Le ruote della macchina passano veloci sopra le basse crepe e i molti sassi che inaspriscono la strada. E ad ogni sobbalzo un po’ più brusco, ad ogni sterzata fatta con un po’ più di apprensione non riesco a non immaginarmi fermo, a cambiare una gomma in mezzo a questa strada. A non immaginare un cecchino svegliarsi dal suo letargo e fare giornata con la mia schiena. E poi sparare un colpo dopo l’altro, e far fuori quel bimbo, quell’adulto, quell’altro ancora, che attratti, come api dal miele, dal color denaro della mia giacca, e da una macchina immobile piena di chissà quali meraviglie si sarebbero pian piano avvicinati, facendo i loro conti senza storia, per poi scoprirsi con un tris di fanti di fronte alla scala reale di un 7 e 62. Ma poi quest’immagine passa, e la strada continua a raccontare tragedie ai lati, lasciando me al centro solo spettatore di tutta questa distruzione.
Perché sono tornato?, mi chiedo, sapendo già la risposta.
Ogni tanto penso che sia tutto già deciso a priori, e, veramente noi non siamo che "solamente attori", su un palcoscenico che non ha tanta pietà per i principianti, e che non sa che farsene dei tentennamenti da comparse.

Mi fermo davanti al vecchio magazzino. Qualcuno degli uomini di guardia si avvicina con un ghigno di chi non ci crede che qualcuno con la mia faccia voglia farsi ammazzare proprio oggi. Ma quando dico il nome del mio vecchio amico, il ghigno si trasforma in stupore, e poi il torpore di chi sa di avere di fronte a sé altre dieci ore di guardia, e nessun cambio, prevale, e mi lascia passare.
Tutti mentre mi incammino lento tra di loro, fanno domande. Mi dicono cose. Mi spingono, mi toccano. Ma io non li voglio capire, e guardo basso.
Sì, mi chiedo spesso se ne valga la pena.

Lui non è cambiato molto. Lo dico ogni volta, e, fino a quando non ho di nuovo passato il confine, in fondo lo penso. In mezzo a tutto questo grigio le rughe, qualche cicatrice in più, qualche chilo in meno, che importanza hanno?
E poi c’è un abbraccio che diventa ogni volta meno sincero. Due parole storpiate in italiano dette con quel suo accento forte e schietto, e poi un po’ di inglese, zoppicante sì, ma comune e facile da masticare anche per chi è abituato ormai a pochi pasti e ad ancor meno compagnia straniera.
Come si sta in Italia, chiede. Bene dico. Bene. Cosa vuoi mai. E qui? oso io. E lui, sempre, ride. Se non fosse perché mi manca l’acqua calda per la barba, mi sentirei come un principe. Mi sorride. Sa che adesso sono qui con lui. Sa che per arrivare lì le mie risposte le ho già avute. Sa che non c’è fine, fin quando tutto non finirà, e nemmeno allora si saprà perché è capitato, né perché è terminato. Prendila così. Oggi siamo ancora vivi tutti e due. E stiamo lavorando per rimanerlo anche domani.
E poi abbasso lo sguardo ancor di più e mi sembra di vedere ormai soltanto le crepe sul pavimento. E mi sento salir dentro un’angoscia, una tristezza troppo grande per essere tradotta con parole. Ma so che qui tutti, tutti hanno qualcosa come me dentro ai cassetti, e vanno avanti, e sparano, e vanno avanti ancora e le mie lacrime mi sembrano in qualche modo più stupide che fuori luogo.
Lui che mi conosce mi lascia in silenzio per un po’, e la stanza sembra diventare fredda anche se la stufa è accesa, e le finestra, fissate ormai alla meglio, cominciano a diventare meno trasparenti.
E mentre vedo il tempo camminare nella stanza sotto forma di brulicare di insetti, la mia mente si chiude in sé, e dal suono delle camionette appena fuori, mi risale dentro il solito ricordo.

E’ una domenica, senza quasi più estate, e il Dritto scarica la seconda cassa di liquori giù dal camion, e la passa al primo dei ragazzi in fila. L’ultima consegna della stagione, penso. O forse la penultima. E spegno la sigaretta con un piede e mi incammino appena un po’ distante. C’è troppo silenzio, anche per questo posto desolato. E i mortai non hanno più gridato per tutto la mattina. Coperto appena da un muro sbrecciato su cui stava attecchendo un’edera striminzita, mi sporgo e butto uno sguardo sulla strada dietro al palazzo.
Negli ultimi giorni alcuni gruppi isolati hanno sfondato in più punti i limiti della città e hanno dato fuoco a case, sparando senza guardare troppo a cosa, un po’ dovunque.
Il lavoro sta diventando un po’ troppo pericoloso, aveva detto la sera prima Andrew. Sì, sì, aveva risposto il Dritto. Sì, certo. Solo un altro giro.
Comunque sia questo pomeriggio io indosso un giubbotto antiproiettile spesso due dita, e ho in un mano un "regalino" avuto dell’esercito.
Mentre sento che dietro di me stanno quasi per finire di passare sull’altro camion le casse, all’improvviso avverto un rumore provenire dalla casa di fronte a me. Mi acquatto goffamente e cerco di alzare il grosso fucile. Sono morto, penso, bestemmiando per il peso dell’arma e per l’improvvisa, assoluta certezza di non riuscire ad usarla adeguatamente.
Ma dal rettangolo scuro di una delle finestre invece che lo sporgere della canna di un soldato, vedo la testa di una ragazzina. Lei rimane impietrita quando si accorge di me e caccia un piccolo grido. Ma poi qualcosa la rilassa, e si mette quasi a ridere.
Rimango per un istante stupito, e poi, dopo tutta quella tensione, lascio che il riso mi contagi. Mi immagino visto dall’alto, con un fucile che non riesco neppure a tenere sollevato del tutto, imbottito come un manichino dal giubbotto, con i capelli arruffati dal vento e i miei occhiali da talpa. Sì, penso, probabilmente non riesco ad incutere molto timore.
La ragazzina scompare dalla finestra e riappare dopo qualche minuto dalla porta, quasi fuori dai cardini, appena sulla sinistra.
Le sorrido, abbassando del tutto il fucile. Non avrà neanche tredici anni, penso, fissandola.
Lei rimane un po’ titubante vicino allo stipite della porta, pronta probabilmente a ricacciarsi dentro in caso di movimenti bruschi.
Io mi frugo le tasche e mi accorgo di avere con me un paio di barrette energetiche. Ne tiro fuori una, la scarto, e ne stacco un pezzo con un morso. Poi la alzo e dico scandendo lentamente le sillabe "cioc-co-la-ta".
Lei mi guarda, quasi calma, senza dire nulla, tenendo tutte e due le mani sulla porta, e muovendo il piede destro a semicerchio, in modo da fare un piccolo solco sul terreno.
Abbiamo quasi finito, mi grida il dritto facendo sobbalzare la bambina.
Calma, calma, le faccio con le mani aperte.
Poi appoggio del tutto il fucile e decido di tirarle la seconda barretta.
Le mimo prima il gesto un attimo e poi la lancio davvero, facendola arrivare vicino a lei, a un paio di metri dalla porta.
Metto un piede sul fucile e tengo le mani alzate. "Vai" la incito.
Lei ci pensa un po’ e poi, non staccandomi gli occhi da dosso, si avvicina all’inaspettato regalo.
Prende la barra, e guardandomi dritto in faccia, comincia a scartarla. Io prendo da terra la mia – sempre senza lasciare il piede dal fucile e muovendomi lentamente – e ne stacco un altro morso. Lei sorride, ed io vedo per la prima volta nei suoi occhi qualcosa di nuovo, triste e bello insieme.
Il Dritto e l’amico a cui abbiamo portato le casse cominciano ad avvicinarsi a me da dietro, probabilmente incuriositi dal mio silenzio, dicendomi che è il caso di andare, perché via radio hanno segnalato l’arrivo di soldati. Il secondo dei due, nato in quella stessa città, fa appena in tempo a scorgere la ragazzina in viso e a riconoscerla, prima che questa si getti come un fulmine verso la porta aperta.

Poi, come al rallentatore, l’esplosione.
Senza un urlo
Solo un boato immenso e fiamme e centinaia di frammenti di pietre e sassi che schizzano ovunque e un suono che sembra uscito dall’inferno e che mi distrugge dentro come devasta tutto fuori.
Io non ho neanche la prontezza di chinarmi e sento mille aghi su di me. Ho ancora l’immagine della bambina che si muove stampata negli occhi. E il fotogramma successivo, quello di lei che forse pesta una mina tra le pietre, quello di lei che un istante c’è, e l’istante dopo sembra, oddio, non vuole scivolare dentro la mia mente.
L’amico la chiama per nome a mezza voce, anche lui sconvolto, ma poi reagisce e mi prende per un braccio e mi trascina via, perché dalle eco, dal rimbombo dell’esplosione si iniziano a sentire chiaramente i motori di parecchie jeep.
Ho la testa che mi sanguina, e il viso ferito in più punti. Anche il Dritto zoppica. Andiamo via, dicono tutti. In fretta.
In fretta.

La strada non è più come la ricordavo io. Entrambi i palazzi ai lati sono quasi rasi al suolo, e sembra di essere tra due collinette. Solo l’edera ha vinto questa sfida con il tempo. E ha preso possesso di tutto.
E’ là, mi dice il mio amico. Come se potessi dimenticare.
Faccio un cenno con il capo e lo guardo dritto negli occhi.
Vado da solo, rispondo. E mi avvicino con un mazzo di fiori in mano. Un mazzo di fiori che si è fatto trecento chilometri con me in macchina, e che comincia già a dar segni di stanchezza. Ma quando lo depongo di fianco a quella croce di legno, senza un segno, senza un nome, appena piantata e fissata con poche pietre lunghe e chiare, non so, ma mi sembra che riprenda vita e colore.
Ripenso al suo viso e le lacrime che tutto l’anno mi porto dentro cominciano a scendere lentamente sul volto.
Ciao, dico ad alta voce.
Lo sai, chiedo, lo sai che io sto piangendo per te?
E lo sai che, e qui non riesco a continuare, e giro il capo, e mi irrigidisco tutto, e cerco di riprendere il controllo.
So che mi stanno guardando.
So che intorno a me il mio amico e i suoi uomini mi stanno facendo da scorta: stanno scortando il re di qualche notte alla tomba dell’eroe caduto.
Il fatto è, continuo con un filo di voce, è che piangendo per te, io piango per tutti i morti di questa stupida, stupida guerra. Piango, e ti odio per avermi messo davanti alla morte. Per avermi tirato giù dalla mia barca e avermi gettato in questo mare, per avermi fatto capire che il luogo in cui io giocavo a fare il "contrabbandiere" era vero. Mi hai preso e mi hai trascinato per terra con te quel giorno. Quel tuo urlo mai sentito, quel tuo grido di dolore che non hai neppure fatto in tempo a gettare al vento, è nato dentro di me. Forse è vero, l’uomo non ha una grande immaginazione:
mi sei dovuta morire davanti per farmi capire con cosa avevo, avevamo e avete a che fare. E non sono neppure in grado di spiegarlo ad altri. Posso solo, e qui cerco di recuperare un sorriso, soffrire anche per te. Posso solo tenerti la mano mentre il tuo mondo va in frantumi ed essere il tuo fantasma in giro sulla terra. Sperando che forse un giorno, forse, tu non abbia più bisogno di me.

Uscire, non so perché, è più facile. Probabilmente è solo un’impressione, ma ritornare al magazzino scortato dagli uomini armati, far scaricare i "regali" che ovviamente ho portato, e salutare il mio amico, mi sembra sempre già un ricordo ancor prima di rendermi conto di aver mosso il primo passo.
Mi trovo di nuovo in macchina con ancora il volto rigato di lacrime. E rifaccio la strada di prima senza quasi pensarci, senza, mi sembra, fermarmi in nessun posto, neanche al blocco.
La mia mente rimane come spenta e so che in questo modo le macerie, le case distrutte, le persone per la strada, in realtà mi fluiscono dentro come se io fossi un secchiello e venissi trascinato sull’acqua.
Ma non ci posso fare nulla. Mi risveglio, stordito, sconvolto, in una camera d’albergo a centinaia di chilometri dalla città, e sento di nuovo tutto come se fosse in qualche modo caldo e luminoso.
Forse andare a salutare lei, forse rischiare la vita per un capriccio, per un desiderio stupido, forse non ha veramente senso. Ma poi rifletto e penso di doverle qualcosa. Di doverle qualcosa anche se non l’ho mai conosciuta, e se l’ho vista solo un minuto prima che morisse.
Non puoi, penso, lasciare perdere. Non puoi dimenticare.
Ci sono cose che ti cambiano, e che, anche se non le hai volute tu, ti impongono un ruolo che non è pensabile rifiutare.
E sì, sì, mi rispondo, mentre me ne sto steso sul letto, guardando lo stesso cielo di qualche ora prima, ma qui riscoprendolo blu. Forse rischiare la vita per tener vivo anche solo un ricordo, vale la pena di questo viaggio all’inferno.
Vuol dire tendere la mano, aprire un varco, scendere per un sentiero scosceso. Vuol dire continuare a vedere. Vuol dire non dimenticare, quando anche sto tra lenzuola pulite, che da qualche parte, in qualche posto, c’è una parte di me che non è mai tornata indietro.
Sorrido, e penso: che non è – ancora – tornata indietro.

Marco Giorgini

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