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La meta

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La meta

Il sole è alto sull’orizzonte, ma sembra vicinissimo alla mia testa.
Quando ho smontato la tenda stamattina, timidamente alzava i suoi raggi sopra le cime degli alberi quel tanto che bastava a lasciar prevedere una giornata splendida per stare distesi sul ponte di una barca a vela che si lascia cullare dalle onde in mezzo al Mediterraneo.
Ma sulla strada erano ancora le tenebre ad avere la meglio e per iniziare l’ascesa è stato necessario indossare una pesante felpa, sotto la quale, ai primi movimenti, non ha certo fatto fatica a costituirsi una sottile, ma fastidiosa lama di sudore.
Lo zaino sulle spalle è ridotto ai minimi termini: un k-way, un cambio integrale un paio di guanti per proteggere le mani dall’aria pungente che, in pieno solleone, mi ridurrà la circolazione delle dita sino all’insensibilità e ad un principio di congelamento, una bottiglia d’acqua e un po’ di zuccheri.
L’importante è arrivare, non importa come, ma l’importante è raggiungere la vetta e poter raccontare, fra un giorno, un mese, un anno, cinquanta anni: "Io sono arrivato".
Forse è la rarefazione dell’aria e la maggior concentrazione di Ossigeno, ma già prima di partire sento una strana eccitazione.
Quando parto per un viaggio, lungo o corto che sia, ho sempre una morsa che mi chiude lo stomaco, come se stessi per tuffarmi dal centesimo piano di un palazzo, forse è il panico di abbandonare le comodità, forse il timore di mettermi alla prova, forse la paura di confrontarmi con l’ignoto, con me stesso e con il mondo, non lo so neanch’io.
Anche questa volta è così: vedo la mia meta proprio sopra la testa, sembra vicinissima, ma so che la strada per raggiungerla è lunghissima. Dovrò sudare, faticare, anche vomitare per lo sforzo; forse dovrò rinunciare al quarto tornante, forse prima, forse la raggiungerò. Almeno ci provo, voglio provarci e vada a finire come deve andare: tutti sono capaci di criticare e giudicare, ma pochi sono quelli che osano provare: voglio appartenere alla ristretta cerchia degli arditi.
Basta: è ora di partire.
La strada è in salita, lieve ma pur sempre salita. Sono i primi chilometri, quelli che ho aggiunto al mio calvario come riscaldamento, come allenamento per i tratti più duri. Alla prima curva mi rendo conto che la felpa è già di troppo, come anche quel centinaio di metri in più: non potevo parcheggiare un paio di chilometri più avanti?
Se mi fermo non riparto più; non fermarmi vuol dire soffocare dal caldo, ma svestirmi vuol dire rischiare un colpo d’aria con paralisi dell’apparato digerente: accetto il compromesso e non appena la strada sembra riappacificarsi con le pendenze, mi alleggerisco il vestiario e rimpinguo lo zaino.
Sono ancora agile sui pedali, il cambio mi permette ancora di giocare e di non piantarmi.
Alzo gli occhi verso il cielo, ma non lo vedo: ci sono solo un infinito numero di tornanti che sembrano disegnati sul crinale di quella montagna che mi farà soffrire e dannare e chissà cos’altro, quella montagna che non riuscirò mai a domare o a dominare, ma che spero si lasci raggiungere.
Dopo il primo tornante il mio gioco con i cambi ha raggiunto frequenze altissime: ho deciso di cambiare continuamente rapporto per poter sfruttare sempre al massimo le mie capacità e potermi avvantaggiare di qualsiasi falsopiano incontri durante l’ascesa. Non uso ancora il rapporto più corto, ma ben presto dovrò cedere.
Le braccia sono tese, le mani iniziano a sudare e il mio corpo è trasformato in una sorta di bacino fluviale, dove l’acqua scorre abbondantemente e segue gli avvalli determinati dai muscoli contratti: sono solo al quarto tornante e ho la prima crisi, spero che non sia l’ultima perché ciò significherebbe che ho gettato la spugna e ciò non può, non deve succedere.
Guardo avanti e vedo solo asfalto incandescente. Non dovrebbe essere rovente, l’aria è ancora fresca e il sole non ha ancora surriscaldato l’ambiente in maniera eccessiva, ma vedo tutto annebbiato, e non voglio credere che la vista mi giochi questi brutti scherzi, non sono ancora arrivato neppure a metà strada.
Rialzo gli occhi dal manubrio e l’effetto Sahara si è momentaneamente dipanato, ma lo sconforto mi assale: solo asfalto e della vetta neanche l’ombra, o meglio, solo l’ombra timida sul crinale: il cielo è ancora lontano.
Non ho più cambi da utilizzare, piccolo sulla corona anteriori, grosso sulla corona posteriore: ad ogni pedalata corrisponde un giro completo delle ruote, ogni pedalata sviluppa una distanza di tre metri scarsi: devo percorrere ancora dieci chilometri, tremilatrecentotrentatre pedalate.
Devo pensare ad altro, non devo lasciarmi sopraffare dallo scoramento. Inizio a fare conti matematici, i più complessi che la fatica e lo sforzo mi permettono di fare. Dopo aver calcolato il numero di pedalate, mi oriento sulla media e il tempo che mi rimane da restare sulla sella; lo trasformo in ore, in minuti, in secondi ed ogni volta il numero diventa più grosso, ma decresce anche più velocemente ad ogni istante. Passo poi alle frazioni del percorso, espresse sia come decimale che come frazioni.
Due tornanti sono andati e devo percorrerne almeno altri due prima di rifugiarmi nuovamente dalla cara e sempre amata matematica, lei che non mi tradisce mai, ma che anzi permette alla mia mente di essere sempre pronta ed elastica.
Ho caldo; sudo; i muscoli sono contratti e le gambe sentono lo sforzo. La tensione aumenta sempre di più. Una goccia di sudore decide di percorrermi tutta la faccia e, una volta aver schivato gli occhi, planato sul naso, costeggiato le labbra e raggiunto il mento, decide di risalire un poco, complice anche una mia oscillazione in avanti, stabilisce di indietreggiare un poco, come se volesse avvertire le compagne che la strada è libera da cecchini. Queste non si fanno attendere e improvvisamente il volto mi si imperla come se mi avessero tirato una secchiata d’acqua. Mi scrollo e tutto ritorna come prima: sono ancora lontano.
Mi sorpassano due signori sui quarant’anni, fisico atletico, asciutto; si muovono agili, e mi sorpassano come se stessero andando in discesa. In pochi secondi mi hanno già distanziato di diverse decine di metri. È vero che a basse velocità le distanze si amplificano, ma vorrei poter tenere il loro ritmo almeno qualche minuto, per avere un po’ di compagnia.
Torno di nuovo con me stesso. Solo ma convinto. Mi hanno detto che se raggiungo la cima mi sarò tolto una grande soddisfazione: è il se che mi preoccupa.
Dopo un tornante, non so quale numero, uno dei tanti, mi si bloccano le gambe: il ginocchio sinistro non ne vuole più sapere di distendersi. Proprio in curva la pendenza della strada raggiunge le percentuali più alte. Non posso fermarmi e mettere a terra un piede: non ripartirei più. Inizio ad oscillare e a spostarmi trasversalmente sulla strada, cercando la linea di minor pendenza. Sbando paurosamente e se passasse una macchina sarei sicuramente investito, ma le automobili sono ancora lontane e riesco a recuperare la miglior posizione. Mi alzo sui pedali e, sfruttando la forza di gravità e il mio peso, riesco a recuperare una velocità che mi permette di rimanere in equilibrio ancora per un po’, sino alla prossima crisi.
Mi concentro sui pedali, sulla corona, sulla catena.
Vedo i pedali che lentamente compiono il loro obbligato percorso circolare. Cerco di mantenere un ritmo costante, lento ma costante. Immagino di essere un grande ciclista, un Pantani non dopato e immagino i commenti dei telecronisti: ma come fanno a capire dalla pedalata se un ciclista è allo stremo delle forze o ha ancora birra in corpo? La mia pedalata è ‘rotonda’, anche perché non potrebbe essere altrimenti, ma ho ormai terminato la benzina.
Vedo le maglie della catena che una ad una si incastrano nella ruota dentata che gira e immagino sia l’ingranaggio di una pendola che, una volta azionata, procede all’infinito, scandendo le ore ed i minuti. Quante rotazioni intorno al suo asse dovrà ancora fare prima del meritato riposo. I denti della corona mi sembrano rossi, incandescenti per l’attrito e lo sforzo a cui sono sottoposti: sono solo illusioni.
Non è però un’allucinazione il rumore stridente della catena che è realmente sotto sforzo ed è tesa come non mai: temo che si possa allungare di qualche centimetro, ma poi valuto che l’importante è che non si rompa, lasciandomi a piedi sul più bello.
Inizio a temere per l’incolumità della mia bicicletta: è più sotto pressione di me, anche perché deve sorreggere il mio peso, le mie sfuriate, le mie indecisioni.
Guardo il manubrio e mi accorgo che le manopole non offrono più attrito, sono inzuppate del sudore, sembra che esca la schiuma. Provo ribrezzo e, come per miracolo, la sudorazione si interrompe. Nel breve volgere di dieci secondi tutto è asciutto come se fosse arrivata una ventata di phon!
I cartelli che indicano la distanza passano, lentamente ma passano. Ogni chilometro segnalato viene confrontato con quello conteggiato dal mio contachilometri. La discrepanza è una minima percentuale, qualche decina di metri, ma sulla distanza finale si superano le centinaia e ci si avvicina al chilometro: forse arriverò prima di quanto pensassi, forse no, anzi proprio no! La matematica, ancora lei, è spietata come sempre. Ma in questo modo ancora qualche tornante è passato. Alzo gli occhi sul mare di asfalto e mi sembra di essere su un territorio lunare: tutto, ai margini del selciato è terra bruciata su cui poco o niente riesce a stabilizzare le proprie radici. Mi deprimo e immagino di stare cuocendo anch’io. Avrei voglia di spruzzarmi una borraccia d’acqua addosso, per rinfrescarmi, per raffreddare la mia epidermide surriscaldata e dal sole e dallo sforzo. Ma l’acqua è preziosa: ho solo le due canoniche borracce attaccate al telaio della bicicletta. In tutto poco più di un litro. Sembra tantissimo, per me che raramente bevo fuori dai pasti, ma gli allenamenti a cui mi sono sottoposto mi hanno insegnato a centellinare le sorsate e ad anticipare la sete. Ah, se tutto si limitasse alla teoria, sarei un campione!
Non so più dove sono, non mi ricordo l’ultimo cartello, anzi sì, ma devo averne persi almeno un paio. Spero. Per evitare brutte sorprese preferisco mantenere il tachimetro sulla velocità istantanea, forse dopo il prossimo tornante avrò una felice sorpresa!
Mi sbagliavo. La strada è ancora lunga!
Ho ormai raggiunto i tre quarti del percorso quando un falsopiano mi accoglie, proprio quando ormai sono prossimo all’ennesima crisi: ho un paio di chilometri per riprendermi, sciogliermi i muscoli prima dello sforzo finale, degli ultimi tornanti, delle ultime sofferenze.
Mi disseto lasciando solo un goccio d’acqua nell’ultima borraccia, potrebbe sempre servire anche se non credo che avrò le forze di rifocillarmi nuovamente.
Mangio un quadretto di cioccolato, ma è come mangiare del caucciù: insapore e molliccio, più lo si mastica più non si riesce a deglutire a causa della totale mancanza di salivazione. Sembra di avere in bocca della sabbia fine che si incunea in ogni più recondita fessura della bocca.
Sono ancora impegnato in questa impari lotta con lo sfuggente cioccolato quando alzo gli occhi e vedo la cima: rimango quasi paralizzato. Mi sembra lontanissima, ma in realtà è solo a pochi chilometri poiché la strada si inerpica seguendo un vecchio sentiero più adatto alle capre che agli esseri umani.
Guardo il contachilometri e poi l’orologio: sino ad ora mi sono mantenuto sulla media che mi ero prefisso, niente di eccezionale, ma l’importante è arrivare.
Avanti, l’ultimo sforzo: ce l’ho quasi fatta.
Affronto con entusiasmo rinato il primo tornante che mi si presenta, ma le gambe si sono abituate agli agi e agli ozi del falsopiano e sembrano diventare di legno. Non ho crampi, ma non riesco più a governarle, a impartire loro ordini di qualsivoglia genere.
Dopo pochi metri il mio corpo mi consiglia di mollare tutto, di non mettermi ulteriormente alla prova: non sudo più, non penso più, non conto più. La mia mente è vuota e profusa nello sforzo massimo di contrastare il volere del corpo che mi incita a fermarmi. È una lunga lotta in cui gli avversari si scontrano continuando a girarsi intorno senza fermarsi e così, nell’indecisione le mie gambe spingono sui pedali e macinano metri di strada.
Davanti a me vedo un ciclista in difficoltà: lo raggiungo in pochi metri e lo supero lasciandolo sul posto: vorrei incitarlo, dirgli qualcosa ma sono troppo assorbito sullo sforzo e dalla mia gola non esce alcun suono.
Alzo gli occhi e vedo la fine della strada, la meta, il punto di arrivo, ma non riesco a distinguere il tracciato della strada: troppo ripida. Ogni tanto scorgo qualche personaggio, qualche compagno di fatica, ma non riesco a comprendere a che distanza si trovi.
A questo punto subentra il nulla. Non ricordo più niente se non un flash improvviso della velocità istantanea: 3.8 km/h! Non pensavo che sarei riuscito a raggiungere velocità così basse senza perdere l’equilibrio. Ma questa è una considerazione che ho fatto dopo, quando mi sono ripreso, quando ormai ero sull’ultimo rettilineo e potevo distinguere nettamente la figura dei miei compagni che erano già arrivati e che mi stavano aspettando.
Il traguardo, la striscia per terra che indicava il GPM era a pochi metri da me, sempre meno… sempre meno… sino a che non l’ho oltrepassata.
Ho accostato, sono sceso dalla bicicletta e la stanchezza si è impadronita di me. Inutili conati di vomito mi hanno scosso il tubo digerente; la temperatura è salita a dismisura facendomi credere di avere ingoiato fuoco invece di aria; la sudorazione tentava vanamente di assolvere la sua funzione di termoregolatore, ma all’interno del mio corpo l’unico liquido rimasto era quello che scorreva nelle vene cercando di trasportare Ossigeno a chi ne aveva bisogno.
Mi sono voltato ma la vista era annebbiata e anche la gioia era relativa. Dov’era la soddisfazione, l’emozione e la boria di chi aveva raggiunto il suo obiettivo?
Ho iniziato a bere lentamente acqua fresca, ma non fredda come tutto il corpo mi chiedeva. Ho provato a mangiare qualcosa, ma solo liquidi riuscivano a oltrepassare gli ostacoli che il mio stomaco aveva posto per punirmi delle sollecitazioni a cui lo avevo sottoposto. Per due giorni non sono riuscito a mangiare nulla e solo a fatica ho ripreso la nutrizione regolare dopo tre giorni: continui conati alla sola vista del cibo mi assalivano, come se tentassi i questo modo di espiare le mie colpe.
Comunque dopo essermi rilassato per circa un’ora e prima di rimettermi in sella per la discesa, mi sono sporto dalla vetta e ho visto la strada che avevo percorso e gli occhi si sono inumiditi, anzi, no, si sono riempiti di lacrime di commozione.
Mi avevano detto che un uomo deve capire quali sono i propri limiti per cercare di superarli. C’ero riuscito, avevo spostato sensibilmente i confini delle mie capacità fisiche capendo che volere è realmente potere. Per tutto il tempo si era protratto il conflitto tra volontà e capacità e aveva vinto la prima!
Non dovevo dimostrare niente a nessuno, se non a me stesso.
Non avevo promesso niente a nessuno, se non a me stesso.
Devo solo dire grazie a chi mi ha incitato a non mollare, promettendomi la soddisfazione di chi realizza i propri sogni e a uno sconosciuto ciclista che, vedendomi in piena crisi, mi ha fatto un gesto, un semplice gesto che però è valso più di mille parole o discorsi conditi di retorica e che mi ha permesso di trovare le forze per continuare
Un anno fa ero qui da semplice turista e vedendo quanti arrivavano in bicicletta, stremati ma soddisfatti, provavo invidia e pensavo a quanto mi sarebbe piaciuto essere uno di loro. Oggi anch’io posso dirlo: "Io sono arrivato".


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