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Chi non lavora…

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"Chi non lavora…

… non fa l’amore" dice una famosa canzone italiana. Sull’argomento lavoro si è parlato spesso al cinema, ultimamente lo si è fatto grazie a film provenienti dalla Francia ("Rosette", "Risorse umane", "Marius et Jennette") oppure grazie a Ken Loach ed al suo cinema "militante". Ad (anteprimaannozero), il festival diretto da Ghezzi che si svolge a Bellaria, ne viene dato spunto grazie a due splendidi film italiani di circa 40 anni fa: "Il posto" di Ermanno Olmi e "Chi lavora è perduto" di Tinto Brass.
Il primo dei due, del quale ricorre il quarantesimo anniversario, è il film con il quale Olmi irruppe sulla scena cinematografica internazionale vincendo il premio della critica al festival di Venezia, festival che vincerà ben 27 anni più tardi con "La leggenda del santo bevitore". "Il posto" racconta di Domenico, un ragazzo di famiglia operaia che vive nell’hinterland milanese, il quale deve recarsi in città per sostenere un esame che gli potrebbe fruttare il posto fisso in una grande azienda della città. Domenico, lo sguardo timoroso ed ingenuo, si sottopone così ad alcune prove, dalla validità più o meno opinabile. Soprattutto Domenico conosce una ragazza e con lei la città autunnale, le sue vetrine, le sue persone. "Il posto" ha parecchie situazioni comiche come quando Domenico si siede nel vagone che non partirà perché staccato dal resto del treno o come quando lui e la ragazza calpestano le aiuole del parco ma la guardia redarguisce solo Domenico. "Il posto" è la definitiva affermazione dell’Italia industriale e moderna che andava consolidandosi dopo qualche anno di boom. La famiglia, di sicure origini contadine, vede il "posto fisso", un posto qualunque, come l’unica garanzia per un futuro che non sia come il loro, che gli permetta di non dormire più in cucina. Il film di Olmi ha i tratti degli ultimi fuochi della gloriosa stagione del nostro neorealismo, complice l’ambientazione naturalmente. Il film intero è incentrato sul volto di Domenico, sempre impacciato di fronte all’arrembare di nuove situazioni alle quali va incontro come il veglione di Capodanno coi colleghi o la conquista del posto da ragioniere grazie alla morte di un’altra persona. Primi piani e libertà d’espressione agli occhi di Domenico (Alessandro Panzeri) che sono sempre Sgranati sotto a due sopracciglia rassegnate e confuse.
"Il posto" è stato presentato in intelligente contrapposizione a "Chi lavora è perduto", scanzonato ed "anarchico" film del 1963, scritto e diretto da Tinto Brass. In "Chi lavora è perduto" si parte sempre da un colloquio di lavoro ma l’esito è diverso, così come la città che fa da scenario che in questo caso è una solare Venezia. Bonifacio è tormentato dal dubbio sul lavorare oppure no come disegnatore, ma soprattutto Bonifacio è tormentato da molti altri dubbi e così comincia a vagare per Venezia dove, tra attualità e ricordi, ci rende partecipi della sua mente. Bonifacio, protagonista attivo del primissimo dopoguerra non vuole certo finire in manicomio a delirare su di una rivoluzione che mai verrà come uno dei suoi amici e non vuole nemmeno scomparire in un sanatorio, tra malati finti e veri, per evitare il contatto col mondo esterno. D’altra parte Bonifacio non vuole nemmeno la ragazza tra i piedi, sempre appresso e che deve portare addirittura in Svizzera per far abortire. Bonifacio è insomma lo specchio dell’altra Italia del boom, appagata a già annoiata, vagamente anarchica e voyeur (non a caso in questo film si vede un bordello, tanto caro a Brass). La Resistenza, le manifestazioni, i turisti d’ogni dove, l’amore nel campanile, l’amore in spiaggia, l’amore fisico senza l’amore del cuore, la noia, il comunista ottuso e i matti valsero a Brass la censura che finì col vietare ai minori di 18 anni la visione delle pur pochissime copie del film. "Chi lavora è perduto" è più di un film, è un prezioso documento dell’umore nazionale di quegli anni.
Pur essendo quasi coetanei Brass e Olmi hanno due visioni molto diverse dello stesso periodo anche se entrambi finiscono col puntare la cinepresa verso la città, è inevitabile. Sono le città la nuova Italia e non più le vaste campagne che rappresentano il nostro paese. L’emigrazione comincia ad essere un vero e proprio fenomeno di massa, e con essa una nuova concezione di città , di città nelle città. La città degli immigrati e quella dei borghesi, la città dei contadini e quella dei laureati. Se Domenico è un bambino di fronte alla città e di fronte ad una sconosciuta che gli chiede di ballare, Bonifacio è già annoiato dalla città e teme di rinchiudersi in una ufficio così come il manicomio ha sopito l’impeto rivoluzionario dei suoi amici o così come la ragazza vorrebbe sopirne i desideri della carne. Domenico e Bonifacio non avrebbero mai potuto incontrarsi, anche se avessero lavorato nella stessa azienda. Curioso come Domenico finisca nell’ultima scrivania di un ufficio piccolo e buio mentre Bonifacio sorride scrivendo col mangime le lettere A.G. (Assicurazioni Generali) in piazza San Marco.
E se li facessero vedere a scuola?


P.S. L’immagine di sfondo non si riferisce naturalmente a "Chi lavora è perduto" ed è tratta dal sito ufficiale del regista.


Michele Benatti

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