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La vita e’ bella

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La vita e’ bella

Cari fratelli ebrei…
A proposito del film
"La vita è bella"
di Roberto Benigni.

Ho visto solo da pochi giorni "La vita è bella" dietro suggerimento di un caro amico e l’invito di mio figlio Matteo che hanno vinto alcune mie resistenze dovute ad una personale difficoltà a trovarmi, almeno fino ad oggi, in sintonia con Benigni (più per certe apparizioni televisive che non con i pochi film visti), ma anche al timore di poter condividere le perplessità di quanti, pur valutandolo un bel film, vi hanno colto una rappresentazione non realistica della Sho’ah, forse addirittura banalizzante, tale da prestarsi, soprattutto nelle giovani generazioni, a diventare un evento sbiadito se non addirittura negato sull’onda di un revisionismo storico purtroppo sempre presente. In fondo avevo il timore di poterne soffrire.
La indicibilità della specificità ontologica della Sho’ah, quale progetto di inondante sofferenza e totale annientamento, che costituisce il filo conduttore delle memorie e dei racconti dei sopravvissuti, ha sempre posto interrogativi e difficoltà a chi avesse avuto il desiderio e il coraggio di rappresentarla.
Ma si può veramente rappresentare la Sho’ah? E soprattutto è giusto e lecito farlo?
Ciò vale non tanto per il testo scritto, soprattutto quando è opera di un sopravvissuto (tutti pensiamo e ricordiamo Primo Levi) quanto per il testo cinematografico. In questo caso l’utilizzo, oltre che delle parole, delle immagini visive, rende tutto più complesso.
Pur potendo contare sull’ampiezza comunicativa dello spettro visivo, un autore è in grado di elaborare la assoluta tragicità di eventi persecutori la cui immaginazione è sempre stata superata dalla realtà? E il suo libero atto di creazione artistica saprà renderli in modo tale da condurre il nostro cuore e la nostra mente a conoscere e comprendere l’atroce verità senza esserne talmente sopraffatti da non trovare scampo dalla angoscia così sprigionata?
Un film, se e come opera d’arte, non è la trasposizione né la reificazione della realtà fattuale, ma ne è appunto una rappresentazione che scaturisce dalla elaborazione del suo autore e dove il grado di aderenza alla realtà può, in virtù della sua libertà, collocarsi all’interno di un ventaglio molto ampio di possibilità. Sta all’autore con i suoi scopi, con la scelta dell’oggetto da rappresentare e del come farlo, ed infine alla sua intelligenza morale decidere fino a che punto è giusto andare e dove è opportuno fermarsi. Ma in questo caso il suo giudizio morale è un giudizio difficile poiché le opzioni etiche possono anche essere in conflitto fra loro. Il desiderio e la volontà di non tradire la storia e di farla conoscere spingono un autore a scelte di massima aderenza visiva alla realtà fattuale, ma così facendo egli può tradire la propria coscienza e l’intima convinzione che una tragedia così assoluta non può essere rappresentata in tutta la sua sconvolgente discesa agli inferi. Il pudore, il rispetto per la sofferenza e la memoria, il senso della dignità umana, la ricerca di un atto riparatore, dovrebbero fermare ad un certo punto la sua mano.

Per questo molte persone, di cinema e non, ritengono che per conoscere e far conoscere la realtà, e questo è un dovere per tutti, il mezzo più idoneo è la presentazione della pura nudità documentaria. Si può anche andare oltre per raccontare, attraverso i documenti, i luoghi e i volti, come ha fatto Claude Lanzmann con il suo film "Sho’ah", film per eccellenza sullo sterminio degli ebrei nei campi di concentramento, nel quale l’autore fa "la scelta estrema di non rappresentare l’irrapresentabile1".
Diversi e di diverso spessore sono stati i modi con cui il cinema ha affrontato la Sho’ah: la Sho’ah come sfondo, come universo concentrazionario sul quale aprire una finestra e fissarne un segmento o anche un solo frammento, come matrice di ulteriore orrore e sofferenza, ed altri ancora.
Non desidero fare confronti ma mi preme tuttavia ricordare la "Schindler’s List" di Steven Spielberg. In questo film l’autore prende potentemente di petto la realtà, vi si immerge, si ferma davanti alle camere a gas e ne esce incontaminato; pur rimanendo nel registro della tragedia ha la volontà e sente il dovere di porre al centro del suo racconto la storia di un uomo e della sua azione riparatrice che salverà più di mille persone dallo sterminio. Oskar Schindler è una persona realmente esistita, il suo nome è iscritto nel Viale dei Giusti tra le Nazioni a YAD2 VASHEM2 di Gerusalemme e più volte, anche in virtù di questo film, è stato citato e preso ad esempio nelle terribili circostanze della guerra oggi in atto nei Balcani. Il tema della salvezza lega questo film al film di Benigni, pur nella loro sostanziale diversità. Ma vi è un altro legame importante e significativo. Ne "La vita è bella" Benigni cita, credo consapevolmente, la "Schindler’s List". Penso che tutti coloro che hanno visto questo film ricordino la bambina dal cappottino rosso (unico colore del film in bianco e nero): nella più totale anonimia dell’opera di spersonalizzazione avvenuta nei campi di sterminio è il simbolo della unicità e irripetibilità di ogni persona che per 6 milioni di volte nell’inferno della Sho’ah è stata annientata. Quale ondata di orrore e di pietà in più ci coglie quando la riconosciamo morta fra altri cadaveri. Nel film di Benigni questa bambina è diventata la bambina con il gattino, che prima vediamo insieme ad altri deportati e che poi sparisce alla vita e alla nostra vista, mentre il gattino si aggira miagolando e frugando in mezzo ai vestiti dismessi e ammonticchiati davanti alle camere a gas. L’aver scelto questa citazione, ed averla inserita nel racconto del film, non all’interno del gioco, ci testimonia il suo rispetto e la sua pietà.

Ma come si avvicina Benigni alla Sho’ah? "La vita è bella" non è un film sulla Sho’ah.
È uno splendido film, di grande intelligenza creativa, è un film altamente drammatico, ma con una sua commedia interna, è un film potente, di grande forza evocativa, nel quale il regista, consapevole dell’intimo intreccio fra tragedia e commedia, attribuisce sapientemente all’aspetto comico una possibilità di comprensione dei fatti umani e della tragedia proprio perché si mette da un’angolazione diversa, fa un passo indietro rispetto all’oggetto del suo raccontare e, avendo nelle sue corde il riso e il sorriso, riesce ad attirare l’attenzione in modo intenso sulla realtà: "Lo humour e il riso sono fra le risposte appropriate alla realtà, e questo ha una funzione rassicurante, perché suggerisce che la tragedia non ha né l’unica parola né quella finale3" . "La vita è bella" è un film che narra di un grande amore paterno, è la storia di un padre, Guido, che salva la vita al proprio figlio, Giosuè, internato con lui in un campo di concentramento, inventando una favola, trasformando per il bambino e ai suoi occhi, lo spietato ordinamento concentrazionario in un gioco a premi che prevede concorrenti, prove da superare, acquisizione di punti, eliminazione di concorrenti e, per il fortunato che arriverà primo nella corsa ai 1000 punti previsti, la vincita di un carro armato.
Ma il film in sé stesso non è né una favola né un gioco. È il racconto di una tragedia che racchiude una preziosa favola quale contrappunto all’assurdità della tragedia stessa.
La geniale architettura dei diversi piani narrativi: la favola e il gioco nella realtà del lager, la magistrale orchestrazione dei diversi registri tragico e comico che accompagnano tutto il film, fanno sì che lo svolgersi del dramma sia contrastato dalle potenti invenzioni che caratterizzano il gioco e che sorprendono in modo crescente: tutto ciò rende più credibile la favola che, ricordiamolo, non esisterebbe senza il dramma che la sostiene.
C’è in questo film un gioco di intrecci, rimandi, combinazioni e, per l’urto emotivo dato dalla sorpresa, non finiamo di stupirci per il susseguirsi dei fuochi d’artificio disseminati nei momenti cruciali della storia e del gioco in essa racchiuso.
La frizzante e incalzante comicità della prima parte, tutta tesa a comunicarci la visione che Guido ha del mondo e della vita, che egli piega ai suoi desideri con un abile e inesauribile succedersi di artifizi, se da un lato anticipa la capacità inventiva che Guido dimostrerà di avere nel lager, dall’altro, nel suo essere punteggiata dai presagi del dramma che sta per compiersi, si lega in armoniosa coerenza alla seconda parte del film. Non vi sono fratture tra la prima e la seconda parte del film, esse sono distinte ma non scisse.
Non c’è mai uno scambio confusivo fra tragedia e commedia, fra realtà e favola; vi è piuttosto un diffondersi solidale dei diversi piani e registri narrativi, ma la distinzione è
chiarissima. Ciò salva completamente il film e i suoi autori4 da qualsiasi sospetto di non riconoscimento pieno della tragedia della Sho’ah. La crudele assurdità della situazione ci è sempre presente anche se il film non presenta mai alla nostra vista le atrocità pur percepite.
È proprio nella consapevolezza dell’orrore persecutorio del lager che Guido inventa la favola e il gioco come contenimento della tragedia stessa, perché il piccolo Giosuè possa prenderne le distanze, non prenderla sul serio (certo, i dubbi ogni tanto lo attraversano) e vivere una esperienza che costituirà per lui un sofferto ma sereno ricordo.
Momento a questo proposito cruciale è la scena dell’ingresso di Guido e Giosuè nella baracca che ha come unico arredo lugubri loculi di legno. Confesso che all’inizio di questa scena sono stata presa da un forte attacco di angoscia: la cupa asfissia della baracca aveva reso affannoso il respiro e accelerato il battito del cuore; ero fisicamente vicina a Giosuè immerso nell’indistinto gruppo dei compagni di sventura, ma ben distinguibile in mezzo a loro, grazie a una sapiente organizzazione percettiva figura-sfondo, e aspettavo con lui cosa sarebbe accaduto. Entrano le guardie, grosse, urlanti e minacciose, per imporre il regolamento del lager: Guido, con veloce determinazione, si offre di tradurre dal tedesco ai compagni, ma soprattutto a Giosuè. Ed ecco che Guido, ribaltando la situazione, improvvisa la "traduzione" che trasforma il regolamento concentrazionario nelle regole del gioco a premi, dove il superamento delle prove per la sopravvivenza reale si trasformano nelle prove della gara ad ostacoli per vincere il premio finale. La mia ansia a questo punto si è placata e non sono stata più capace di togliere gli occhi di dosso a Guido e a Giosuè.
È questa una scena di grande cinema, di forte impatto emotivo; di fronte a Guido determinato, serio, ma anche spaventato, e che inventa, c’è Giosuè che risponde con un sorriso complice, pieno di meraviglia e di stupore, grato nel momento in cui scopre che il padre aveva ragione: si tratta proprio di un gioco! E questa fiducia nel padre è più potente di qualunque altra cosa che noi sappiamo accadere nel lager, che non vediamo ma che però immaginiamo mentre Giosuè grazie a suo padre non vede e neppure immagina. È il valore della favola che affranca dalla natura persecutoria e annientatrice dei luoghi e dei tempi in cui essi si trovano.
Questa fresca curiosità, questa serena disposizione, non abbandona mai Giosuè fino alla fine della favola ma anche del film. Guido muore, viene fucilato nel tentativo, fallito, di ricongiungersi con la moglie; Giosuè esce dal nascondiglio nel campo ormai abbandonato e ora deserto, e per nulla impaurito, ma in stuporosa attesa, vede avanzare verso di lui il tanto desiderato carro armato che, premio reale all’interno del gioco e della favola, è al tempo stesso simbolo di vittoria e di libertà nella realtà della fine della guerra. E nell’"abbiamo vinto!" gridato da Giosuè che ha ritrovato la mamma, si ricompongono solidalmente i diversi piani narrativi: favola e realtà finiscono per coincidere.
Il caro amico che mi ha suggerito la visione del film mi ha anche comunicato un suo pensiero: se tutti i cittadini tedeschi si fossero appuntati al petto, fin dall’inizio, la stella gialla, forse la Sho’ah non si sarebbe compiuta, così come il coro dei "grazie", da Guido abilmente orchestrato, che mimetizza Giosuè tra i bambini tedeschi invitati ad una merenda nel lager, e alla quale egli partecipa per un equivoco, disorientando le guardie, gli salva la vita.
Pur nella distinzione dei timbri e dei toni di voce, la geniale trovata di Guido ricompone nel coro e nella parola "grazie" le differenze di lingua, razza e nazionalità.

Cari fratelli ebrei, sia che lo siate per nascita, per religione, per tradizione, cultura, sia perché vi sentite tali, vi auguro di vedere il film "La vita è bella" per quello che veramente è e per ciò che spero io sia riuscita a esprimere e trasmettere con questo mio scritto. Il riconoscimento profondo della Sho’ah rimane intatto nel film e anche dopo di esso. So bene che nella realtà pochi sono stati i bambini scampati e sopravvissuti, e questo pensiero riaccende dolori e fa bruciare ferite ancora aperte, ma spero che il bambino salvato dalla favola sia per ognuno di noi simbolo di salvezza ma anche un invito alla nostra intelligenza e alla nostra coscienza alla giustizia e al rispetto del valore delle persone.

Renata Ottenfeld
renafeld@tin.it
Imola, 13 aprile 1999 – giornata dedicata alla memoria dell’Olocausto.

1
Titolo di un articolo di Alberto Crespi su Claude Lanzmann apparso oggi, 13.04.99, su L’Unità.

2
Letteralmente "Una stele e un nome", è il monumento commemorativo dell’Olocausto.

3
In: D.C. Maguire e A.N. Fargnoli: L’etica come arte e come scienza. EDB, Bologna, 1998, pagg. 163-174 (sul ruolo della tragedia e della commedia nella crescita della coscienza morale).

4
Mi pare il momento di citare Vincenzo Cerami quale coautore della sceneggiatura e validissimo compagno di invenzioni.

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