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Venere, Io T’amerò – Monica Cito

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(Giulio Perrone editore 2005)

Una discesa agli inferi, una sorta di percorso psicanalitico alla Svevo de La Coscienza di Zeno, ma senza ironia, con furore e disperazione, affondando visceralmente nel magma personale e sociale: questo e altro si assiepa nello speciale romanzo d’esordio della scrittrice pugliese che assorbe e affanna il lettore nel suo vortice.
È quasi il resoconto di un’ossessione: rimettere a posto i tasselli, esaminando cosa sia stata la propria vita, in un evidente precoce consuntivo, ma i tempi pur assiepati in un’apparente scansione temporale, quasi diaristica, sono tutti lì compresenti nel loro ottembre, il mese che non c’è, fuori dalla storia e dal sé, per essere oggettivati e inchiodati dalla penna.
Sto facendo un po’ di confusione temporale. Sto accavallando eventi tra loro molto o poco distanti.
La cruda realtà del sud coi suoi tratti di miseria e vita collettiva, ma anche, in generale, la violenza della guerra, l’ipocrisia delle condotte sociali, i rapporti interumani, talvolta improntati alla più oscura aggressività, offrono l’immagine di un’umanità agghiacciante, chiusa nella sua ottusa imperfezione, che giudica e condanna inesorabilmente con le sue etichette: la pazza, la puttana, l’omosessuale.
Da questo punto di vista leggiamo un lavoro in difesa di ogni unicità, troppe schiacciate dal pregiudizio e dal malanimo.
Se L’A. ha bisogno di una confessione straziante per il suo lavacro vuol dire la società ha ancora oceani da valicare.
Anche più sfortunata l’inappagata sete di affetto e di accettazione che la protagonista sperimenta nell’ambito della famiglia, dove si annidano mostri ancor più inquietanti, che l’hanno abbandonata nella culla della sua rabbia da cui poteva uscire folle o illuminata.
Neanche lei sfugge, quasi in una contaminazione collettiva, al suo fardello di livore fino all’auspicio del parricidio, in una confessione che dà un brivido.
Solo il caso, quindi, ce la restituisce integra e come scrittrice già compiuta.
Rivelatore della valenza psicoterapica dell’operazione è il medesimo nome della protagonista che attraversa il buio e l’asfissia del canale vaginale per rinascere nella luce che è tuttavia solo coscienza della putredine del mondo, a cui fa argine, se si è favoriti dal destino, il rapporto duale, ossia l’amore vissuto come condivisione e complicità.
Luce abbandona il mondo dei morti, per lei più reale e difendibile di quello che si impegna ogni giorno a stritolarla nei suoi implacabili ingranaggi, per giungere dunque non alla rassegnazione, ma ad una sorta di consapevolezza delle leggi crudeli che regolano la vita, ancora più inflessibili nelle realtà meridionali dove la mancanza di lavoro, con l’ozio che comporta, concede l’occasione di scrutarsi l’uno con l’altro con ferocia, mentre i bisogni primari continuano per la maggior parte a rimanere disattesi.
Non voglio morire, ho ancora tante cose da capire, aggiustare, ordinare .
Dal su scritto bisogno di chiarificazione nasce questo romanzo vulcanico, in cui sembra che la lingua scappi di mano, non in grado di seguire il gorgo di emozione, di collera, di ribellione che hanno reso alla scrittrice lucida consapevolezza di sé. La lingua si aggroviglia nel tentativo di seguire l’accavallarsi del flashback, si fa incandescente e rivelatrice nel suo intrico rispetto a un intrico ancora più sconvolgente. S’impenna in una modernità tutta sua: sempre inattesa e sorprendente rifiuta tuttavia il non-sense come gesto politico di coloro che con uno stile incatenato intendono sottolineare l’illeggibilità del reale.
Originale e personalissima la lingua di C. non disdegna un timido affaccio al vernacolo, diventa forma della sua confessione assumendone la coloritura in alcuni passaggi quasi incontrollabile.
All’Urlo di E. Munch spesso ho proprio pensato.
Per sua stessa ammissione M. C. ha bisogno di capire e catalogare per umanizzarsi.
Il raggiungimento dell’obiettivo è confermato anche dal dipanarsi semantico e sintattico meno concitato della seconda parte del romanzo. La scrittura d’improvviso si placa come l’animo, che scopre una casa senza più muri, appollaiata dove germoglia la contiguità con l’altro.
Rodulafia, in vero lo spirito critico dell’A. che sa frugare oltre i veli del perbenismo e delle apparenze, è colui che l’ha tenuta in salvezza al di sopra dell’acqua melmosa della palude in cui avrebbe rischiato di perdersi, scomparendo come gli altri tra i miasmi del mondo.
Per raggiungere la conoscenza bisogna prima morire.
Strano compagno di giochi è per una bambina, giallo come i Simpson, a cavallo del suo triciclo, il che ci dà subito conto di una personalità non convenzionale, abitata da sempre dai suoi fantasmi che finalmente possono venire a prendere possesso della pagina.
Rodulafia è colui che riesce insomma ad appropriarsi dell’essenza, non della materialità del mondo e alla fine libera la mente.
La battaglia ingaggiata per effetto dei subiti soprusi, della stanchezza e la perenne ricerca di una via di uscita traveste anche la N. da novello don Chisciotte alla ricerca del sogno o di un romanzo che nel districarsi esorcizzi la sofferenza.
Antica infatti è la vocazione allo scrivere in M. C. che trasfigura in continuazione l’osservazione e il giudizio in altrettante trame di romanzi che ora finalmente possono venire alla luce.
La critica alle istituzioni, dalle politiche per il sud alla scuola, è accanita quanto puntuale, dolorosa e mai cinica, quasi non perda di vista la possibilità che un giorno anche per il sud ci sia consolazione.
I tanti ritratti sociali fanno di questo che leggiamo quasi un romanzo corale. Una schiera di vinti, da Rita, a Graziana, dal padre al fratello, si offre in figure emblematiche dell’emarginazione e del degrado, sulle quali la scrittrice getta disperata la sua impotenza e la sua parola appassionata.

Roma, 17 marzo ’06

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