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Breve saggio di Meccanica Quantistica – 5

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Breve saggio di Meccanica Quantistica
Quinta Parte
Rapporto fra oggetto ed osservatore

La fisica quantistica non è solo una rivoluzione scientifica, ma contiene in nuce anche elementi che possono attirare l’attenzione dei filosofi (o di chiunque si interessi del rapporto tra l’uomo e il mondo che lo circonda, se è per questo). Le implicazioni filosofiche della teoria non sono ovviamente sfuggite in primis ai suoi iniziatori, tanto è vero che personaggi quali Bohr o Heisenberg ci hanno lasciato illuminanti riflessioni in proposito nelle loro memorie. Il tema più affascinante tra quelli proposti è il rapporto fra osservatore ed oggetto osservato.
L’onda lunga della tradizione newtoniana porta ancora oggi la maggior parte di noi a considerare questi due elementi come nettamente distinti e separati, privi di influenze reciproche: il mondo esterno sembra essere come un film che viene proiettato a nostro uso e consumo, e di cui noi non siamo attori protagonisti ma semplicemente spettatori. Potremmo andare oltre e sostenere che, se anche il cinema fosse deserto (ovvero non vi fosse alcun osservatore) il film verrebbe proiettato ugualmente. Tutto questo schema ora viene messo in dubbio, ed anzi chiaramente smentito in alcune parti.
Il fenomeno quantistico non è affatto così indipendente dall’osservatore. Abbiamo già visto precedentemente che l’esito di alcuni esperimenti è strettamente legato alle proprietà che andiamo ad analizzare ed alle tecniche osservative che scegliamo di adottare. Abbiamo inoltre già incontrato il procedimento indicato come collasso della funzione d’onda, ovvero quel fenomeno per il quale una particella, in seguito ad un processo osservativo esterno, è costretta a scegliere uno e uno solo fra tutti i possibili stati nei quali si trovava contemporaneamente. Questo indica chiaramente come l’azione osservativa introduca sensibili cambiamenti nello stato quantico dell’oggetto osservato: l’interpretazione corretta però è più sottile. Detto in questi termini, la situazione sembrerebbe sottintendere che l’oggetto osservato in seguito all’osservazione si limita a passare da uno stato quantistico ad un altro, con quest’ultimo che si configura ne’ più ne’ meno quale esito effettivo della nostra osservazione: le cose però non stanno così, perché precedentemente all’esperimento l’oggetto non occupa uno stato definito, ma bensì tutti gli stati permessi. Tornando all’esperimento dei fotoni lanciati sulla parete, non ha senso chiedersi quale percorso avesse scelto il fotone passato prima di quello che abbiamo osservato in dettaglio: esso ha scelto tutti i percorsi a propria disposizione nello stesso tempo.
Le implicazioni di questi ragionamenti sono molto forti. Le proprietà caratteristiche della materia sembrano in questo modo perdere validità intrinseca, riducendosi a mere risposte che la materia stessa fornisce solo in concomitanza ai nostri tentativi di analisi. La materia non sembra essere fornita di attributi fissi di per se’ ma, per usare un linguaggio piuttosto approssimativo che spero risulti almeno efficace, pare acquisirne solo nel caso in cui noi la sollecitiamo a farlo. Il fotone dell’esperimento non aveva alcuna posizione definita fino a quando noi siamo andati a rilevarne il cammino, costringendolo così a fornirci una risposta inequivocabile in merito.
Su quest’ultima affermazione è necessario fermarsi un poco di più. Possiamo veramente accettare il fatto che il fotone in un certo momento non abbia alcuna posizione, o preferiamo credere che la sua indeterminazione sia dovuta solo alla nostra imperizia di sperimentatori o all’imprecisione dei nostri strumenti? Tutto l’alone probabilistico introdotto dalla fisica dei quanti sarebbe destinato a dissolversi se disponessimo di strumenti più avanzati o è una caratteristica implicita dell’universo che ci circonda? Se facciamo nostra la prima posizione in un certo senso tradiamo i principi della meccanica quantistica e neghiamo che le sue previsioni siano corrette fino in fondo, ma allo stesso tempo salviamo il senso comune ed evitiamo di buttare a mare tutte le nostre certezze; se invece prendiamo per valida la seconda ipotesi, tutto il nostro modo di intendere la realtà e la nostra possibilità di pervenire alla sua conoscenza deve essere rivisto dalle fondamenta e riedificato secondo criteri tutt’altro che intuitivi. In questo si può intravedere un’analogia con il principio antropico cosmologico, ovvero la teoria secondo la quale l’universo e le leggi fisiche che lo governano hanno le caratteristiche fondamentali che osserviamo (valore di alcune costanti, massa delle particelle elementari, intensità delle forze) solo perché noi possiamo essere qui a prenderne atto. Allo stesso modo, si potrebbe azzardare che le proprietà quantistiche della materia siano tali solo ai fini della nostra osservazione: di più, essi sono puri ed inutili accessori di cui la Natura si riveste per soddisfare bonariamente la nostra curiosità di sperimentatori.
Cosa rimane perciò di ‘reale’ nel mondo attorno a noi? Se le peculiarità delle componenti ultime della natura non fossero altro che frutto della nostra immaginazione, si potrebbe ancora parlare di una qualche "realtà" là fuori? Il tema è assolutamente affascinante, e riprende un dibattito già affrontato in passato da numerosi filosofi. In merito alle nostre possibilità di conoscenza, la meccanica quantistica riecheggia in un certo qual modo la distinzione operata a suo tempo da Immanuel Kant fra noumeno (l’oggetto che rimane al di là della nostra portata) e fenomeno (l’immagine, il simulacro di tale oggetto che invece ci è dato conoscere): rispetto a questa visione però si spinge oltre, arrivando ad ipotizzare che in fondo non vi sia forse nulla di paragonabile al noumeno kantiano.
La fisica quantistica non nega ovviamente che vi sia un universo reale, e se lo facesse peraltro potrebbe ben difficilmente essere ritenuta una teoria scientifica degna di attenzione, ma ci mette in guardia dal ritenere che le cose siano proprio come ci appaiono a prima vista. A livello dei costituenti ultimi della materia, dei ‘mattoni’ con cui è costruito il mondo, disegna uno scenario fatto di stati sovrapposti, fluttuazioni imprevedibili ed incessanti processi di creazione ed annichilazione di particelle: un mondo che non possiamo sperare di conoscere a fondo, che si stende al di là del nostro potere (pratico ma anche teorico) d’indagine, ma che nondimeno rappresenta una sfida intellettuale attraente e che non possiamo permetterci d’ignorare.


Continua…

Fabrizio Claudio Marcon

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