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Robert Plant – dreamland

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Robert Plant
Dreamland
(Universal, 2002)

Tra le cose degne di essere ricordate relativamente all’estate 2002 annovero senza dubbio il ritorno di Robert Plant. Per ritrovare la sua precedente uscita solista si doveva infatti risalire la corrente addirittura fino alla prima metà degli anni Novanta: gli anni seguenti lo avevano visto sì protagonista della reunion con Jimmy Page e di una serie di tour con i Priory of Brion, senza però che sugli scaffali dei negozi si affacciasse alcun prodotto contraddistinto dal suo personale marchio di fabbrica. L’attesa ora è terminata.
Dreamland non è esattamente un album scritto da Robert Plant, il cui nome compare quale autore di soli quattro brani su dieci e comunque sempre associato ad altri; dicendo perciò che le tracce di questo lavoro sono da lui solamente interpretate ci avviciniamo sensibilmente alla verità. Un album ricco soprattutto di covers, dunque, pescate dal repertorio di autori tanto diversi fra loro quanto possono esserlo fra gli altri Bob Dylan, Tim Buckley, Bukka White e William Roberts. Un album da valutarsi quindi nella giusta ottica: senza cercare particolari conferme sulla vena compositiva del grande cantante inglese; ma limitandosi ad apprezzarne eventualmente la tenuta della voce, inevitabilmente alle prese con gli anni che passano implacabili senza risparmiare nemmeno i miti apparentemente più solidi.
Cinquantaquattro primavere non sono uno scherzo, ed ascoltando alcuni passaggi di Dreamland non ci si può esimere dal notarlo. A Plant non manca il coraggio di ripercorrere pervicacemente le strade che un tempo era solito solcare da dominatore, ne’ si può dire che gli siano venuti a mancare del tutto i mezzi per farlo: certo però che in alcuni momenti, e la mente mi corre ad esempio a One More Cup Of Coffee, le corde vocali del Nostro paiono proprio portate rischiosamente vicino, se non addirittura oltre il loro limite attuale. I vocalizzi estremi che un tempo strappavano elogi e scaldavano i fans oggi appaiono una vestigia forse troppo ingombrante; un’eredità della quale Plant cerca di mostrarsi ancora degno, ma la quale lo spinge al contempo verso interpretazioni talvolta rischiose e ben poco atte a valorizzarlo per quello che è oggi.
Al di là di queste considerazioni, nient’affatto secondarie visto che in ultima analisi un disco di Plant si acquista prima di tutto per la voce, Dreamland non è comunque un album deludente. A mio avviso l’apice della carriera solista di Robert era stato raggiunto, al termine di un percorso per nulla rettilineo, all’altezza del precedente Fate Of Nations; con il quale, in tutta onestà, il presente lavoro non regge il confronto. La scelta dei brani non è particolarmente eccitante, pur non prestando il fianco a critiche specifiche: se questo è quanto si sentiva di interpretare, ben venga. Le interpretazioni in sé variano anche considerevolmente in quanto a qualità, spaziando dall’eccellente apertura di Funny In My Mind (I Believe I’m Fiixin To Die) e Morning Dew alla discutibile versione di Hey Joe, che personalmente mi ha lasciato più che perplesso: il livello medio comunque si mantiene elevato. Il tono generale dell’opera è riflessivo, introspettivo e misurato; il che, considerate le parole spese poco sopra sulle attuali potenzialità vocali di Plant, rappresenta senza dubbio un punto a favore.
Non mi sentirei di consigliare Dreamland a chiunque. Gli appassionati del biondo cantante, in particolare coloro che (pur per ragioni che francamente mi sfuggono…) dovessero averlo apprezzato più come solista che non come voce dei Led Zeppelin, non dovrebbero lasciarselo sfuggire; ma sicuramente non avranno bisogno di sentirselo dire da me. Tutti gli altri sappiano che, per quanto pieno di fascino, belle canzoni e pathos interpretativo, il presente album è ben lungi dal rappresentare il miglior Plant. In altre parole, prendere o lasciare: l’alternativa è far finta che l’ultimo quarto di secolo non sia passato e rimettere sullo stereo Phyisical Graffiti

Fabrizio Claudio Marcon

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