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Percorsi di pace

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Percorsi di pace

Voglio iniziare con una domanda. Si può dire che un mondo dove non si combattono guerre, sia un mondo di pace?
Se la risposta fosse sì, potrebbe derivarne il fatto, che la pace ha valore solo perché esiste la guerra. È improbabile, infatti, che l’uomo possa concepire un valore positivo, se non ha nella mente e negli occhi il suo esatto contrario. Guerra e pace, malattia e salute, Diavolo e Dio, odio e amore, morte e vita, bruttezza e bellezza.
Sembra, quasi, che tutto il bene che l’umanità riesce a esprimere, derivi sempre da una contrapposizione a qualcos’altro, che potremmo definire il male, qualcosa che offende i nostri sensi, ci impaurisce, ci fa provare disgusto, minaccia le nostre vite, mina l’ordine costituito.
Quindi, mi sentirei di dire che la pace non ha valore per se stessa, ma solo se si confronta con quell’orribile cosa che usiamo chiamare guerra.
Del resto, la guerra scaturisce sempre da motivi che nascono in un mondo, in una società, in un gruppo, che fino al giorno prima viveva in pace. E non ci si illuda che conoscendone i motivi, si possa scongiurare il pericolo delle guerre. L’esperienza insegna, che per un certo periodo, almeno fino a quando una coscienza realmente obbiettiva, riuscirà a esaminare i fatti col distacco necessario, il torto apparterrà sempre alla parte che ha perso, e le ragioni saranno dei tanti che hanno vinto. Penso non sia un caso, che si usi dire che la vittoria ha sempre molti padri, mentre la sconfitta è sempre orfana.
Naturalmente, tutto ciò non ci esime dal cercare una strada che guidi verso la pace, e si tenti di disinnescare i meccanismi, che ci aprono davanti agli occhi, gli scenari suggestivi e surreali che la guerra produce.
In un mondo, dove i libri di storia sono pieni zeppi di guerra, si è portati a credere che la guerra sia l’essenza stessa della storia umana, e innegabili sono le fortune che la guerra comporta. Anche se può sembrare assurdo e provocatorio, ogni guerra, dopo avere diffuso morte e distruzione e lutti e pianti, immancabilmente portano nuove conquiste e nuovo benessere, non solo in termini economici e tecnologici o scientifici, ma anche, sfruttando l’incontro ravvicinato tra genti diverse, in termini di civiltà e di cultura. Quando la tempesta è passata, l’incontro tra le diversità, porta sempre alla ricostruzione del bello.
Comunque, nonostante tutto ciò che potremmo definire la positività della guerra, non possiamo senz’altro, né definire la guerra un male necessario, né rinunciare a continuare a sperare di trovare, quel percorso che conduce alla pace stabile e duratura.
Solitamente, prima o poi, le causa rivelabili che scatenano una guerra, che sono sempre cause economiche e di supremazia, vengono scoperte e condannate, ma è solo questione di tempo, e un’altra guerra è pronta ad affacciarsi alla ribalta.
Quindi, si può ipotizzare che qualcosa nell’organizzazione della società, o delle società che formano il genere umano, non funzioni.
È facile puntare il dito contro i signori della guerra, che da essa ricavano benefici e privilegi, o contro l’inconsistenza delle classi dirigenti, che non riescono a superare, se non con la forza e la violenza, questioni anche di scarso rilievo. Tutto ciò è facilmente comprensibile, e basti che si pensi agli intrecci che si intessono tra chi la guerra la ordina, e chi dalla guerra ricava benefici e ricchezza o chi della guerra fa il proprio mestiere.
Quello che si capisce di meno, è come sia possibile che una massa di persone, che almeno in apparenza cercano verità, giustizia, benessere e quiete, a un certo punto diventino assassini, e essi stessi siano disposti a farsi assassinare per il semplice fatto di ricevere un ordine.
Ma anche qui è facile individuare cosa non funziona nei sistemi, e pescando un po’ alla rinfusa, ci si può subito rendere conto che partendo da premesse voluttuosamente sbagliate, ma che sembrano giuste, si arriva a risultati disastrosi: in democrazia la sovranità appartiene al popolo, mentre in realtà, solo pochi, in nostra vece e rappresentanza, la esercitano; Dio è colui che ci ha dato la vita e ci salverà, anche se non si capisce bene da cosa, ma ogni Dio che si è manifestato, pretende, con arroganza, di essere l’unico e il solo, e guai a non crederci, perché egli minaccia pene terribili e promette ricompense inimmaginabili, mostrando paradisi veri o artificiali; l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, facendo così assurgere il lavoro a valore assoluto, mentre tutti sappiamo che il tempo ci è stato dato per vivere e non per lavorare, e non è da sottovalutare l’antico detto di saggezza popolare, che ci insegna che bisogna mangiare per vivere e non vivere per mangiare; lo studio è un diritto di tutti, ma la scuola, da luogo dell’istruzione, che pian piano sta diventando sempre più obbligatoria, invece di istruire e dare i mezzi e insegnare le tecniche, per districarsi nei meandri della conoscenza, si è assunta il compito che non le compete, di educare, riproponendo sempre gli stessi autori e gli stessi titoli e gli stessi valori che allo studente, che è l’unico educatore di se stesso, e deve essere libero di potersi scegliere le proprie agenzie educative, potrebbero anche non interessare.
Gli esempi possono continuare all’infinito, e andando anche solo un po’ ad esaminare la lingua usata per raccontare la guerra, che di solito, nel linguaggio corrente, genericamente scoppia, come se fosse svincolata dalla volontà umana, ci rendiamo conto come a volte la guerra, sia un gioco crudele. Ma ora ci basti semplicemente osservare, che valori, morale, patria, legge, giustizia, identità, appartenenza, sono le parole tematiche, anche se qualche altra si potrebbe ancora aggiungere, che regolano ogni tipo di convivenza. E tutte queste cose, si manifestano attraverso simboli e riti, di cui il più delle volte ci sfugge anche il significato, ma che continuiamo a rispettare e a praticare, pur di non sentirci esclusi dal resto della comunità.
Sembra, quindi, che il quesito sia destinato a restare insoluto: può un uomo pacifico trasformarsi all’improvviso in guerriero capace di uccidere?
Non so se esistono guerre giuste e guerre ingiuste, quello che so è che esistono le guerre, combattute, si dice a volte, per i più nobili ideali, e anche in nome di Dio, e il pepe che ieri spingeva i crociati a muoversi per liberare le terre sante, forse oggi si chiama petrolio o territori strategici. Ma queste sono questioni di cui non abbiamo competenza e che lasciamo agli storici, quello che invece preoccupa, è il fatto che uomini che si ritengono liberi, abbiano bisogno di associarsi e di avere al di sopra di loro un capo che li guidi e li sproni, indifferentemente sulla strada della pace e della guerra.
A leggere bene Freud, scopriamo che la differenza tra psicologia individuale e psicologia sociale o collettiva, non è tanto notevole, con buona pace per l’ottimo Jung, al quale continuando ad attribuire la scoperta dell’inconscio collettivo, non facciamo altro che continuare a appioppare l’etichetta dello scopritore dell’acqua calda. Afferma giustamente Freud in Psicologia delle masse e analisi dell’Io, che "la contrapposizione tra gli atti psichici sociali e quelli narcisistici … non si pone fuori dall’ambito della psicologia individuale e non giustifica una separazione tra questa e quella sociale o collettiva".
Anche la società, deve quindi fare i conti con le istanze dell’Io e degli ideali che da esso derivano. E, del resto, l’umanità non è altro che una grande folla, una massa di gente, che si è differenziata, dividendosi in gruppi e sottogruppi, a secondo delle circostanze e delle necessità, che spesso vanno sotto il nome di società, nazione, stato, chiesa, partito politico, comunità, ma portandosi comunque dietro un retaggio comune, del quale si è forse persa anche la memoria.
Già prima di Freud, il comportamento della massa è stato ben descritto, e sappiamo benissimo che la folla, che "dà sempre la preferenza al surreale rispetto al reale", agendo su di essa, l’irreale, "con la stessa forza che il reale", senza saper distinguere l’uno dall’altro, non ha bisogno di "verità", ma solo di "illusioni", e sappiamo come essa sia sensibile "alla forza magica delle parole, che hanno il potere sia di provocare nell’anima collettiva le tempeste più violente, sia di placarla". E qui, Freud, già intravede un equo accostamento ai sintomi isterici e della nevrosi ossessiva, quasi a volerci dire, quando afferma "che per il nevrotico la sola realtà valida è quella psichica, e non quella oggettiva", che la massa al pari del singolo, può sviluppare il malessere che lo guida verso atti inconsulti.
Ma anche tutto questo, non basta ancora a giustificare, come individui così diversi si associno, e come sia possibile che individualità molto diverse, diventino all’improvviso massa, capace di accettare soprusi e illusioni, uomini capaci di obbedire agli ordini di un’entità astratta che riconoscono come loro capo, guida e condottiero, sia essa un semplice governante, o un dio, una ideologia, o un capo di partito, in cui l’individuo massificato incarna i suoi ideali. Fino al punto di accettare non solo ordini che mettono a repentaglio la propria vita, ma persino regole di normale comportamento quotidiano, e qui penso al mite monsignore Della Casa, che pretendendo di insegnare regole di buon comportamento, fa ritornare alla mente il sempre valido Marcuse, quando affermava che "una delle funzioni più importanti dell’educazione è quella di creare il senso di colpa sociale".
È lo stesso Freud, a sciogliere l’intricato nodo, quando applica alla psicologia collettiva, continuando a far gridare allo scandalo, il concetto di libido. E nella successiva e spietata analisi, che fa di due gruppi artificiali, come la Chiesa, con particolare riferimento a quella cattolica, da sempre attenta a presentare nel migliore dei modi il suo prodotto, tanto che recentemente sembra che a causa di un errore di interpretazione Le tavole della legge siano diventate Le tavole della testimonianza, e all’Esercito, ci mostra come sia possibile che individui tanto diversi siano uniti da legami libidici sia al capo che ai restanti membri della comunità, cosicché la libido diviene il collante che tiene unito il gruppo, che obbedisce agli ordini e fa di tutto per preservare la sua presunta invulnerabilità.
Ma proprio da questo meccanismo di identificazione, incominciano a nascere le prime richieste di un Io costretto a rinunciare a parte di sé, per il solo fatto di essere nato in un gruppo. Il bambino non ha innato il sentimento collettivo, e solo successivamente viene educato, prima dalla famiglia e poi dalla sua scuola, a fare parte della comunità. E naturalmente, il singolo, non potendo fare nulla contro la massa, pretende che almeno si facciano le parti uguali, quindi quello che noi riteniamo un grandissimo valore, la giustizia, è solo un compromesso e il frutto del sentimento della gelosia. Ma l’eguaglianza mette a tacere tutti, e l’umanità è talmente ottusa da non accorgersi che serve solo a tramandare il macabro rito del potere. Le parti uguali illudono il singolo e fanno sembrare giusto il capo, mentre le parti necessarie potrebbero provocare qualche obiezione.
Comunque si guardi la cosa, la realtà è questa, e sembra che il singolo nulla può contro di essa. Scrive Freud, " giustizia sociale vuol dire che ci si nega molte cose perché gli altri a loro volta vi rinuncino o, il che è lo stesso, non possano rivendicarle. Questa rivendicazione della uguaglianza costituisce appunto la radice della coscienza sociale e del senso del dovere. … Così, il senso della socialità è fondato sulla trasformazione di un sentimento in un primo tempo ostile in un attaccamento positivo che, in fondo, è solo un’identificazione".
Ma sicuramente l’identificazione, indica con chiarezza la regressione a uno stato primitivo e la richiesta narcisistica di una propria soddisfazione. Tanto è vero che, è lo stesso Freud a dirlo, "non bisogna dimenticare che la rivendicazione dell’uguaglianza all’interno di un gruppo si applica solo ai membri che lo compongono, e non al capo".
In altri termini, l’uomo è un animale disposto a discriminare chi non fa parte del gruppo, pur di sentirsi al sicuro, disposto a regredire, pur di soddisfare qualche suo bisogno narcisistico, disposto a sottostare a un capo, pur di sentirsi ripetere che è amato come tutti gli altri.
Quindi, a questo punto, bisogna recuperare l’ipotesi di Darwin, che Freud fece sua, dell’orda primitiva sottomessa a un maschio possente. Tutti quanti sappiamo come andò a finire la storia, e se i figli mangiarono il padre, che forse rappresentò il superuomo aspettato da Nietzsche, che distribuiva amore, pur non amando nessuno, e imponeva limitazioni e doveri, tutto rapportando al soddisfacimento dei suoi bisogni, non riuscirono ancora a trovare quiete, e a nulla servì innalzare il padre ucciso alla dignità di Creatore del mondo. Il rimorso rimase forte, e ancora più forte si fece sentire il bisogno di un capo, che imponeva le regole, li privava dei diritti, e di tanto in tanto, li faceva legalmente divertire, consentendo che le regole venissero trasgredite. Così come poi avvenne a Roma con i Saturnali, e come ancora oggi avviene a Carnevale.
Intanto si fanno prove di società perfette, nasce la famiglia, e chi non era stato capace di diventare capo dell’orda, divenne capo famiglia, fino a che con l’avvento della figura dell’eroe, incarnato e immaginato dal primo poeta epico, la figura del padre fece il suo ritorno sotto altre spoglie.
Era la fine dello scorso millennio, quando Freud rifletteva su queste cose. Dopo un secolo i problemi si ripresentano uguali e ancora irrisolti. L’uomo si è forse dato una diversa organizzazione sociale e dispone di altri strumenti, ma ancora si percepisce come egli abbia egoisticamente bisogno di appartenere a una comunità, a un gruppo, a un’orda, e sono sotto gli occhi di tutti, i danni che la società produce sul singolo.
Se la domanda che ho posto all’inizio, necessita di una risposta, io rispondo di no, la società che non combatte una guerra, non è una società che vive in pace. E prima o poi, la guerra si combatterà di nuovo.
Ci è stata data l’illusione che non si può vivere, se non si è integrati in una società, per la quale bisogna fare il massimo sforzo, per renderla eterna e immutabile. E dal momento che, come acutamente osserva Guy Debord, "la più vecchia specializzazione sociale, è la specializzazione del potere", il potere vuole che ogni suo suddito si specializzi in qualche cosa e diventi produttivo, ed è libero fino a che non chiede di entrare a far parte della gerarchia che gestisce le cose della collettività, o compia qualche atto che possa rimettere in discussione la credibilità del potere, minando quella che in gergo tecnico chiamano legittimazione. Quindi uomini specializzati, ma non uomini interi.
Elias Canetti ci insegna che la prima manifestazione del potere, è la sopravvivenza, e credo che il suo discorso si innesti perfettamente nelle intuizioni di Freud, perché anche Canetti ha sotto gli occhi una società fatta di uomini che si riconoscono in un capo, che però ha come solo scopo di vita la sua sola sopravvivenza.
La paura della morte, ci porta a uccidere chi riteniamo possa costituire un pericolo, pensando di acquistare così un’impossibile eternità.
Non è un mistero per nessuno, anche se nessuno sembra farci caso, e come ci fa chiaramente rilevare Gabriella Lelli nel suo libro Il blues della mente, che "la volontà della classe dominante di autoconservarsi attraverso il controllo del pensiero dei propri membri", è "una caratteristica comune a tutti i tempi e latitudini".
Sicuramente, quelle tecniche sono andate sempre più affinandosi e perfezionandosi, tanto da avere spinto il bravo Stefano Re a scrivere un libro sull’argomento. E proprio in questo libro, che si intitola Mindfucking, una parola presa dallo slang americano, che tradotta letteralmente significa "fottere la mente", rendendo meglio l’idea di un generico condizionamento mentale o di altre espressioni simili, ci dà delle importanti indicazioni, ad esempio quando scrive: "la verità è che la società è solo una prigione della mente. La libertà passa attraverso un doloroso risveglio e, una volta ottenuta, va difesa lottando contro chi ci rende schiavi". Oppure quando dice che "una delle premesse più difficili da digerire è che la realtà non esiste. Di fatto, tutto ciò che definiamo realtà altro non è che una serie di impulsi che ci giungono dai sensi, e che noi ordiniamo secondo date relazioni usando principi che la nostra mente ha appreso. Come schiere di filosofi ci hanno insegnato, e come neurologi e studiosi della psiche possono confermarci, per ciascuno di noi LA REALTÀ È CIÒ CHE IL CERVELLO CODIFICA. … Il mondo attorno a noi, e noi stessi, siamo soggetti a criteri interpretativi della realtà, modelli di relazione che normalmente abbiamo appreso e che non mettiamo più in discussione".
Invece è molto importante, anche se ci costerà un prezzo da pagare, mettere e rimettere in discussione il mondo che ci circonda e noi stessi.
Livello di consapevolezza è l’espressione che può determinare il nostro grado di libertà o di asservimento al potere. Ma qualunque sia il livello di consapevolezza raggiunto, il singolo dovrà comunque fare i conti con una società onnivora, che in nome di Dio, della giustizia e della libertà, è capace di rendere schiavi e di fare le guerre.
Dunque, sembra impossibile indicare un percorso di pace, anzi sono sicuro che saremmo capaci di litigare persino su quale sia la migliore strada da percorrere. Non basta, infatti, nascondersi dietro a un non meglio specificato ideale di giustizia e di pace, o dietro un generico pacifismo, che altro non indica, al pari delle moderne ideologie ecologiste, la volontà di sostituire un potere a un altro potere. Inquietanti sono i proclami di quei paladini della pace, che pretendono di difendere tutti, ma dimenticano sempre di ricordare il crimine fondativo, tanto per usare una espressione cara a Ernesto Balducci, su cui si basa la loro presunta nazione, mentre ancora oggi nei vecchi film gli indiani d’America continuano a fare la parte dei cattivi.
Credere, obbedire, combattere è un’espressione di cui conosciamo l’esatta provenienza, quello che invece non sappiamo, è che la stessa espressione, si è più volte mutata nella forma, ma non nella sostanza, è spesso ha assunto il volto degli aiuti umanitari, o la definizione di guerra di pace.
In sostanza tutto riporta all’orda primitiva, che vuole essere dominata e vuole obbedire, per sentirsi potente. E in una società, dove il capo pretende di sapere in modo definitivo, cosa necessita agli altri che a quel gruppo appartengono, serve a poco curare le ferite, alla maniera della virtuosa Teresa di Calcutta, se non si insegna a ognuno, il modo per non ferirsi più. Paulo Freire, con un termine forse brutto, ma efficace, coscientizzazione, indicò la strada per liberare gli oppressi da ogni schiavitù. Egli diceva: "Nessuno educa nessuno, nessuno si educa da solo, gli uomini si educano insieme, con la mediazione del mondo". E credo che al di fuori di questo sentiero, dove il singolo riacquista la sua dignità, e può rapportarsi, da pari, a tutti gli altri, non ci sia salvezza, perché altrimenti, la libertà, diventa una concessione, e non un diritto di natura. Senza libertà, non può esserci pace, e la pace viene solo dagli uomini liberi, che hanno preso coscienza di loro stessi e del mondo che li circonda, invece veniamo educati alla giustizia e a obbedire agli ordini, e quando veniamo feriti, c’è subito pronta la mano pietosa, che ci viene in aiuto per lenire il dolore, e proprio in quel momento, il capo dell’orda, riafferma il suo potere, e rafforza la sua credibilità, creando altri sudditi spaventati, che in cambio di qualche privilegio, sono disposti a obbedire.
Da Adamo ed Eva, fino a Lorenzo Milani, passando per Fromm, l’obbedienza non è mai stata una virtù. "La storia dell’uomo è stata inaugurata da un atto di disobbedienza," scrive Fromm, "…l’atto di disobbedienza ha sciolto Adamo ed Eva dalle pastoie e ha aperto loro gli occhi". E qui finalmente si intravede di nuovo, un possibile percorso da seguire. Fromm ci insegna che "l’essere umano capace solo di obbedire, e non di disobbedire, è uno schiavo, mentre chi è "capace solo di disobbedire, e non di obbedire, è un ribelle (non un rivoluzionario)," perché "agisce mosso da collera, da delusione, da risentimento, non già in nome di una convinzione o di un principio". Però, "per disobbedire, bisogna avere il coraggio di essere solo, di errare, di peccare. Ma il coraggio non basta. La capacità del coraggio dipende dal grado di sviluppo di una persona. Soltanto chi si sia sottratto al grembo materno e agli ordini del padre, … può avere il coraggio di dire ‘no’ al potere, di disobbedire. … La libertà e la capacità di disobbedire, sono inseparabili, e ne consegue che ogni sistema sociale, politico e religioso che proclami la libertà, ma che bandisce la disobbedienza, non può dire la verità".
Di nuovo il singolo, che testimonia ciò che la società è, diventa più necessario della collettività. E se oggi vogliamo seguire un cammino di pace, dobbiamo rivolgerci di nuovo al poeta, che un tempo si propose come cantore e padre, ma oggi ha imparato a ascoltare il silenzio e a volte non sa cosa dire, perché la sua parola si perde nei venti della società.
Però quando la voce del poeta, può farsi sentire, si innalza solenne su tutti i poteri e le disgrazie del mondo, sconfiggendo anche l’invincibile pulsione di morte, come le piccole poesie di Ungaretti, preziose come diamanti, o come nei versi di Neruda, che di guerra ne ha vista, dove la morte è descritta senza paura: "A volte vedo / solo bare a vela / salpare con pallidi defunti, con donne dalle trecce morte".
La morte fa meno paura della società che ci ospita, e l’eroe vero non riesce mai a sopravvivergli: "Qui giace Timòcrito, valoroso in guerra. / Marte risparmia i vili, non gli eroi".
Cito da Anacreonte tradotto da Quasimodo, lo cito per chiedermi dove seppelliranno le voci dei poeti, e cosa scriveranno sulle loro tombe, i potenti che oggi ci fanno ancora credere che la pace sia un valore da conquistare, senza lasciare spazio per quella libertà di disobbedire, che sola può permetterci di rimettere in discussione noi stessi, e quindi la società.
L’uomo che non è libero, non può vivere in pace, e la sua inquietudine si rifletterà sempre sulle società che sarà capace di inventare. Dovrà prima liberarsi da tutto ciò che lo tiene prigioniero, e rendersi cosciente che la sua libertà non vale nulla, senza la libertà degli altri. E l’unico strumento che conosco, per scendere nella profondità dell’anima, dove la libertà di ognuno di noi risiede, è la parola, frutto della continua discussione con se stessi. La parola libera e liberatrice, e non importa che essa sia la parola della psicoanalisi o del santo, perché in ogni caso la parola liberata, è parola di poesia.
Quella parola tanto cara a Jabès, che però non conoscendo il senso del limite, tentava comunque di costruire il libro infinito, e perciò ritornava a far parte di una società gerarchica, sia pure solo letteraria. Pertanto non poté mai esprimere quel senso della solitudine, che solo ci porterà verso l’imperfetta perfezione del poeta e dell’uomo libero.
Al contrario del solito vecchio, ignorante Bukowski, che essendo cosciente che tutto può cambiare, ma il risultato è sempre lo stesso, e quindi non ha bisogno di espedienti stilistici e retorici, e può riportare sulla pagina la sua realtà, come meglio gli piace, usando la parola libera, svincolata da ogni tormento di salvezza: "guerra / l’indescrivibile, / il piacere del / folle / l’ultimo argomento / a disposizione / degli uomini non cresciuti. / deve esistere per forza? / e noi? / e intanto ci avviciniamo / all’ultimo lampo / all’ultima chance che ci resta. / resta soltanto un fiore. / un solo istante. / per respirare così".
Allora è inutile cercare a ogni costo un percorso di pace, è inutile cercare la via della salvezza, abbiamo già tutto sotto gli occhi e a portata di mano. Non significa nulla essere contro la guerra, essere contro qualcosa significa solo alimentare altro odio, perché fa sempre male riportare alla luce, ciò che rappresenta la nostra sconfitta. Ma l’unica strada che possiamo seguire, è quella della discesa nell’inferno di noi stessi, dove troveremo le parole che liberano, e troveremo anche la certezza, che qualunque cosa è accaduta e accadrà, quello stesso potere che ci ha insegnato a condannare Auschwitz ma ad assolvere Hiroshima, o a considerare le armi come un qualsiasi prodotto di consumo, tenterà di ridurre al silenzio il poeta, come storicamente è accaduto a Osip Mandel’štam, al quale Stalin negò persino una data di morte certa.
Il poeta che produce solo parole, che sono fatte di nulla. Ed è proprio quel nulla a fare paura alla coscienza degli uomini, che vorrebbero vivere in pace, ma giocando al gioco della società, restano eternamente infantili, e al pari dei bambini, amano sentirsi protetti dall’autorità, e amano sentirsi ripetere sempre le stesse parole tranquillizzanti che non modificano la loro percezione, ma anzi rafforzano le loro convinzioni, sia che provengano da un apparecchio elettronico, sia che vengano pronunciate da un capo, padre e padrone, sia che vengano scritte da uomini asserviti alle consuetudini di una coscienza perennemente immobile.
Però, ogni volta, la parola del poeta, ritorna dal silenzio della morte, per ripetere il primo atto della creazione, che dal caos tirò fuori suoni, voci e colori, senza distruggere niente, e finalmente risolvere ogni incertezza: "A cantare davvero / e in pienezza di cuore, / finalmente / tutto il resto / scompare: non rimane / che spazio, stelle e voce".



Alfredo Bruni



E mail: alfredofrancesco.bruni@tin..it

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