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Thylog Eternalyte

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Thylog Eternalyte

Thylog nacque nel continente di Azeroth, in una tribù di barbari dediti alla ricerca dell’armonia con gli spiriti degli oggetti e alla ricerca di nutrimento spirituale tramite meditazione e comunione.
Gli sciamani più antichi avevano ragginto gradi di perfezione trascendeni ogni concezione, e i loro spiriti mutavano in energia karmica che manteneva solido il tessuto del Piano più o meno come i petitioner che toccano il loro Traguardo Ultimo.
Poi l’uomo inizio a sostituirsi agli spiriti, cercando di essere il traguardo anzichè concorrente del gioco della vita, mirando ad essere
Dio, ignorando le tradizioni e iniziando a cercare di creare la vita, inevitabilmente la fibra planare si inizio a deteriorare, e gli uomini, anche i più colti, iniziarono a temere malattie che le loro medicine non potevano curare, e che i loro sofisticati strumenti non potevano neanche vedere; la pazzia non era nei loro cervelli, ma nelle loro anime che vibravano nell’etere spirituale con una frequenza così debole che venivano travolte dai venti karmici, i quali le deturpavano e le escoriavano.
La pazzia colse anche la famiglia del Neurologo Dr.Thylog Eternalyte, perchè la loro razza era stata la prima a venire a contatto con la tecnologia laica, mentre la sua stirpe aveva radici nella tribù che da adolescente scettico lasciò, incapace di vedere oltre il velo della materia.
Così pensò di tornare alle sue origini per studiare il fenomeno che lo stava distruggendo, e tornò sui passi che mai percorse aprendo i suoi orizzonti a mondi e spiriti mai visti, comprese come curare la pazzia della moglie e delle sue figlie, scartando tutto ciò che in vita sua ebbe creduto. Così fece, ma quando si sparse la voce che solo lui e la sua famiglia erano riusciti a fuggire alla pazzia senza ricorrere ai medicinali, allora la gente di Wredland impaurita si riunì, e di notte andarono a trovarli, con lo scopo di ucciderli, rifugiati dietro stupide superstizioni, convinti che la vera artefice di ciò fosse la magia nera, stupidamente continuando a pregare i loro falsi dei.
La legge arrivò a quel supplizio con estrema calma, quando la gente era già ritornata alle propie case, e Thylog giaceva tremante con le braccia strette attorno a quel sudario di fiamme che aveva avvolto la sua vita.
Fu portato nella sua clinica senza particolari riguardi, visto come un pazzo o uno stregone, venne abbandonato e lì abusato dai suoi stessi pazienti. Infine quando le cose avevano toccato il fondo, inizò a scavare. Ora gli spiriti della pazzia lo toccavano e l’aiutavano, considerandolo il tramite per le faerie spirituali verso il mondo dell’Uomo. I pazzi lo vedevano attorniato da demoni e lo tenevano lontano, temendolo.
L’opinione pubblica era che avesse fatto qualche patto con un Demonio, fatto sta che Thylog sembrava essere tornato sano di mente, anche se, in realtà era ancora più squilibrato di prima. Aveva trovato una strana logicità nella sua lucida pazzia, nelle cose che accadevano, e i ricoverati lo riverivano come un imperatore, ma tutti provavano una grande inquietudine a stargli vicino. E da imperatore cominciò a comandare, ordinò di sacrificare all’Asylum quelli che lo avevano torturato al suo arrivo, mentre gli spiritelli strappavano le anime dai corpi, assistette ad uno strano fenomeno, le scie di luce che le anime tracciavano nell’avvicinarsi a lui erano disposte in un pattern che lui sapeva miracolosamente leggere.
Quando finì di leggerlo, si ritrò nel buio più completo, i soui abiti gonfi di un vento maligno vibrante di vita, e nei suoi mugolii lui sentì l’ultima briciola di umanità abbandonarlo.
Poco ricorda dei suoi giorni come schiavo nelle bolge del Pandemonium, sa solo che per depersonalizzarlo, l’avevano spellato con dolori indicibili, ma invece che morire gli spiritelli lo vollero tenere invita ad ogni costo, perchè lui era il loro unico accesso alla vita.
Fu marchiato con un numero sulla tempia e messo tra gli schiavi più robusti (Ogre e pochi altri con molto potere personale o carisma che rischiava di trascinare gli altri in ribellione) che eran sopravvissuti allo spellamento.
Questi sono i suoi ricordi, terminano qui, a Sigil dove una strana fazione lo aveva cissà come salvato, forse quelli del Bleak Cabal avevano trovato in lui la prova delle loro teorie? Chi lo sa?
Tanto, per lui non importa, nulla ha più significato, o almeno, qui nulla ha significato, sta a vedere se c’è un significato oltre a qui.
Lui l’ha già intravisto…
Un’altro giorno, nell’eterno buio di Maladomini, nel servizio del
Signore delle Mosche, dove i nostri corpi martoriati e spellati non trovano riposo, costretti a scavare a mani nude la terra sterile sotto questo cielo nero e cremisi, per far si che il Duca abbia una strada lastricata sulla quale passare. Sentii le unghie spezzarsi contro la roccia, sentii i miei muscoli esposti accartocciarsi al calore e ai fumi delle cave di metalli, attorno a noi non c’era un solo albero, se non qualche tronco deforme fossilizzato che invocava il cielo a braccia protese per una sola goccia d’acqua. Noi schiavi siamo nelle loro stesse condizioni, malnutriti, nel nostro sangue vivono batteri di malattie atroci, chi ha visto gli stadi terminali di questi virus non sarà più lo stesso, non rimane che un guscio monco e umido di essere umano, mutato al punto di essere irriconoscibile. A noi viene fatto vedere il carro che li trasporta ogni giorno, attorniato da insetti ronzanti. La nostra condizione fisica di debolezza è per le malattie una benedizione, ve ne sono tante qui quante nel reame dell’Oinodaemon, ma non sono queste che uccidono più persone in questa bolgia. Ieri una donna è stata sottratta ai lavori, i diavoli l’hanno sventrata e hanno ingoiato il frutto del suo peccato, un infante ancora gocciolante di liquido amniotico, con gli occhi ancora chiusi e il cranio non ancora saldato nel centro.
E’ questo che uccide noi ogni giorno, la pazzia che questi spettacoli provoca, qualcuno si uccide gettandosi contro le lance dei diavoli, altri muoiono di fame e di stenti, altri perdono troppo sangue dalle vescice e altri non resistono allo spellamento, questo al Signore delle Bugie non interessa, anche se migliaia di anime vengono portate qua nelle rovine di una citta senza nome ogni giorno. La luce qui è rossa e cupa, come filtrata da un rubino, e bacia coni suoi strali i colonnati e gli antichi edifici che puzzano di polvere. Solidi e colossali, ma nella loro opprimente immensità non ispirano reverenza, solo nausea per la loro oscenità; ogni tanto tra le brecce soffiano gorgoglianti nubi dense di vapori neri, che avvolgono noi schiavi in soffocanti volute di polvere.
Non so da quanto sono qui, non ho più le palpebre e non posso riposarmi che poche ore in un dormiveglia febbricitante, ci hanno spogliato di averi, di identità, noi che non siamo petitioners e che possiamo ricordare i nostri peccati per poterli rimpiangere. No, i petitioner giungono qui oggi, in un altro carico, dopo quasi venti giorni dall’ultimo arrivo. Li vedo arrivare su carri trainati da speci di enormi bufali, col pelo grigio e sporco. Tra le nubi di polvere si sentono le grida di aiuto e l’olezzo dei loro corpi sudati. Sono rasati, nudi, ammucchiati come sacchi di grano, quelli sotto sono già soffocati, quelli sopra urlano, o fissano l’indistinto orizzonte tremolante per il calore con sguardo vacuo. I loro corpi sono contraddistinti da un marchio, per nutrirsi alcuni hanno già iniziato a mangiarsi tra di loro, vedo sangue rappreso e arti mutilati, lasciati alle mosche e impalati sulle lame che adornano il carro.
Sanno d’istinto, come animali selvatici, cosa sono i loro tatuaggi: segnano il loro destino come carne che Baalzebul invia ai suoi servi; saranno duecentocinquanta anime dannate che in vita hanno compiuto atti orrendi e qualcosa li ha giudicati e spediti qua. Scendono, disordinatamente in file forzatamente precise, nelle loro borracce c’è polvere, solo in qualcuna c’è acqua che i diavoli si sono divertiti a mescolare tra le altre, cosicchè quando qualcuno viene scoperto con il liquido della vita viene trucidato dai compagni, nel tentativo di impossessarsi della borraccia, con avidità, fino a romperla, con un unico stesso risultato: il liquido che filtra nel terreno.
Volto lo sguardo dai corpi, piegati a leccare grottescamente il terreno polveroso in cerca di un po’ di sollievo, mi ritrovo a rimirare le rovine di un’antica piscina concava, dipinta con disegni ora slavati; ne fisso i contorni mentre rimuovo le pietre insieme ai folletti, gli unici che mi aiutano quando sto per crollare. Non faccio più caso alle urla degli uomini glabri ingoiati dai diavoli spinati, mi concentro sui segni sbiaditi di un’altra civiltà, domandandomi se fosse nata qua o se fosse stata così orribilmente crudele da meritare di essere spostata fino a Maladomini. Penso che tra quei petitioners ci saranno anche quelli che bruciarono la mia famiglia e mi sento subito stranamente soddisfatto, orribilmente conscio del fatto che quella senzazione mi avrebbe legato sempre di più a quell’Inferno.
E’ questo il loro obiettivo, renderti più malvagio, corrompere la tua anima, prima svuotandola e poi riempendola di tutto ciò che è negativo. Le leggende parlano che una Erinye di crudeltà indicibile sia stata inviata dal Signore delle Mosche attraverso i piani per sedurre e uccidere un eroe dallo spirito impiegabile, circa quattrocento anni fa, e che questa diavolessa sia stata costretta con un sortilegio molto potente a mutare comportamento. Sarebbe dovuta morire sul colpo, poichè un’entità che è incarnazione dell’avarizia e dell’odio non aveva modo di esistere con un diverso codice morale. Fu allore che accadde l’incredibile, l’eccezione che conferma la regola, un seme di speranza che ancora mantiene in vita noi esterni qui, nei
Nove Inferi. Fu allora che nacque il il sacro agnello, il seme della speranza germogliato nei cuori di chi la conobbe, poichè lei si era innamorata del cavaliere, e continuò a vivere con lui, rimanendo integra e viva come incarnazione del cambiamento e della speranza, diventando un fulcro di saggezza partorito dai ribollenti budelli di
Baator, ella cavalca ancora su queste terre infinite sfidando il volere del Signore delle Menzogne, il suo spirito è tagliente come una lama che scalfì le mura del sistema che governa questi eterni territori.
Io la vidi, splendente come un’angelo, con l’aspetto di donna diabolica ma il suo spirito era una fenice dalle ali d’argento, di fianco a lei, un nero falco che fendeva i venti abrasivi come un rasoio tra le carni di un Lemure.
Il suo nome in una lingua dei Prime si traduce come calice, ricettacolo dei sentimenti dell’eroe, e della fiducia che molti ripongono in lei. Chalice, la guerriera merita il titolo che porta, perchè se lei che era nata come materializzazione dello spirito di
Baator, e ha potuto cambiare, allora anche noi potremmo uscire da queste olezzanti terre di ferrea malvagità, racchiusa in scrigni di metallo ossidato. Io credo, anzi, io so, che lei ha visto cosa c’è oltre il velo che nasconde la verità da questi falsi dei; lei ha trovato una risposta oltre l’ignoto nella sua cieca credenza Atea.
Temo solo che sia stato volere di Baalzebul che lei diventasse un simbolo, perchè noi soffrissimo di più nello sperare e nell’arrancare a bocca asciutta per la libertà, come i rami degli alberi di un tempo arrancavano verso il cielo eternamente lontano.
Nell’orizzonte lo scheletro di Malagard, maestoso e così imponente da mozzare il fiato sorge come indistruttibile baluardo del male, i suoi occchi sanguinano delle vite degli schiavi che costruiscono ancora le sue mura deformi. Le urla dei quali raggiungono, per un crudele gioco dei sedicenti dei, attraverso le pianure ventose e polverose, lungo le cicatrici sul terreno, fino ciò che un tempo erano le nostre orecchie che ora sono stanche di ascoltare questi strazianti mugolii di pietà.
Ricordo le fosse dove lo sterco dei Barglond veniva ammucchiato, cinque schiavi erano costretti a spostarlo in anguste fosse chiuse da grate di ossa e razorvine; i prigionieri lì dentro morivano di orribili infezioni epidermiche che liquefacevano le pelli con ripugnanti pustole, oppure soffocati dai gas mefitici. Si nutrivano degli insetti scatofagi, che chiudevano la catena alimentare succhiando la linfa dagli escrementi di quei bufali abnormi.
Tra di loro uno solo, ricordo, era sopravvissuto per oltre due mesi, si trattava di una graziosa donna dall’aspetto fiero, sotto lo strato di croste potevo vedere la sua carne bianchissima e le cicatrici sulla schiena. Lei un tempo volava, riuscivo a vedere le traslucenti ombre delle sue ali. Era un magico araldo, un’Archon alla quale era stato tolto la cosa più cara, la capacità di librarsi nei cieli e nei piani.
Sopravvisse molto tempo, la sua anima è sempre stata forte ma il suo corpo si debilitava, priva dei nutrimenti del cibo del Paradiso dal quale proveniva. Non seppi mai il suo nome, ma vederla morire mi uccidette più delle fruste dei diavoli. Non ne rimase nient’altro che un’impronta nel terreno, e con le sue ossa costruirono poi la bandiera di quel baluardo del Male.

Toscan Shaundargull Michele

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