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Colpo d’occhio

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Il nuovo film di Sergio Rubini mette a cuocere molta carne prelibata, si fa apprezzare per l’interessantissima messa in scena, e quindi – un vero peccato – disperde gran parte del capitale accumulato in un finale incongruo, che mescola poliziesco, tragedia e lieto fine. Il finale delude le aspettative dello spettatore nei confronti di quello che era stato sino ad allora un film originale e sofisticato, che svettava di molto sopra all’orizzonte del prodotto medio italiano.
Il giovane scultore Adrian Scala (interpretato da uno Scamarcio …”scolastico”, per citare una battuta del film) si innamora di Gloria, giovane studiosa d’arte, e amante del potente critico Lulli (un Rubini mattatore, che spicca magistralmente sul coro degli interpreti). Gloria (interpretata da un’altrettanto scolastica Vittoria Puccini) lascia subito Lulli, e presto va a vivere con lo scultore. Lulli però rientra nelle loro vite, braccando il giovane Adrian e il suo talento. Ne carezza l’orgoglio artistico, legandolo a sé con modi sospetti, che non convincono né la bella Gloria, né lo spettatore, di quali siano le reali intenzioni del mefistofelico critico d’arte.
Il film, specie all’inizio, procede per scatti veloci. Ellissi temporali impreviste e stranianti destano curiosità e attenzione nello spettatore, lo immettono e allo stesso tempo lo distanziano dagli eventi.
La messa in scena riesce a staccarsi dal piano medio da fiction televisiva, e ricalca a tratti stilemi espressionistici. Primi piani molto ravvicinati, composti a piani lunghi nella stessa inquadratura; ralenti; protratte dissolvenze sonore. Uno stile, ci si accorge presto, che devia verso il mistery e il noir, senza mai divenire veramente thrilling, in originale equilibrio sui generi…
Il plagio umano e morale operato dal professor Lulli si fa sempre più marcato, e, di attrito in attrito, porta alla crisi della giovane coppia. Adrian è ambizioso, vuole emergere subito, e avrà modo di rendersi conto di quanto ciò possa essere inconciliabile con i sentimenti, con l’amicizia, con l’umanità degli affetti.
Il film è affascinante nell’approfondire il conflitto, che si genera nel personaggio di Adrian, fra l’espressione di sé nell’arte e l’attenzione per gli altri nell’amore, che diventano per lui due opposti inconciliabili. Affascinante anche l’approfondimento, interno al personaggio di Lulli, del rapporto fra critica e arte: di come esso si traduca in cannibalesca volontà di potenza e di possesso, da parte del critico, sull’arte e sull’artista. Chi non crea tende, nell’invidia per chi crea, a legarlo a sé, asservirlo plagiandolo, portarlo alle proprie dipendenze e infine soggiogarlo. L’ aggressiva fragilità di Adrian restituisce con efficacia le conseguenze del potere che lusinga e blandisce, e promettendo successo uccide la vita.
Il finale banalizza quanto il film aveva costruito. Si scopre che Rubini/Lulli era mosso piuttosto dall’amor proprio ferito dal tradimento di Gloria; che ha fatto ciò che ha fatto, per asservire il giovane talento, esclusivamente allo scopo di tornare con la ragazza, e che a questo scopo ha armato la mano di Scamarcio/Adrian per poi fingere una legittima difesa d’altrui persona (peraltro assai dubbio pretesto sotto il profilo strettamente giuridico).
Sarà anche che quando in un film, che si era destreggiato con egregia eleganza fra le psicologie, i drammi esistenziali e la suspense, spuntano fuori le armi da fuoco e la pellicola si converte brutalmente in un poliziesco, ne crolla la credibilità complessiva.
Sarà anche il dettaglio per cui la nuova fiamma di Lulli (interpretata dalla Barale) ci viene rivelata alla fine non essere la sua nuova compagna come ci è stato fatto credere da subito, ma solo una sua assistente: cosa che, senza una necessaria giustificazione etico-estetica, offende la buona fede dello spettatore, in barba ai pilastri della drammaturgia hitchcockiana.
In tutti i casi, nel finale, un’opera ammirevole proprio per le sfumature, le allusioni, le ellissi e le ambiguità, cede di colpo. Il romantico pentimento di Adrian vorrebbe intenerire, ma non è giustificato né convincente dal punto di vista psicologico. E la melodrammatica scoperta conclusiva, da parte di Gloria, di questo tardivo pentimento, serve solo a raddolcire lo spettatore prima che esca dalla sala, ma getta alle ortiche il senso di aspra, spietata crudezza dei rapporti umani (e non solo del destino), che il film aveva saputo comunicare.

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