KULT Underground

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American Gangster

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Ascesa e caduta di Frank Lucas, nero di Harlem, che riesce nell’arco di cinque anni a diventare il re dell’eroina a New York, smerciando roba purissima, la Blue Magic. Frank va a prendere direttamente la merce in Vietnam, elimina qualsiasi intermediario e non lavora per nessuno. Ribalta le regole dell’importazione dell’eroina e crea un mercato monopolistico di cui è l’assoluto padrone. Roba migliore, prezzi più bassi, qualità assicurata.
American Gangster non parla solo di questo, dell’eroina come merce suprema, ma anche di moralità, di corruzione, di denaro e soprattutto è uno splendido spaccato di due vite americane, distanti, diverse, eppure in continua attrazione.
Il poliziotto che metterà fine alla carriera di Lucas è Richie Roberts, uno, per intenderci, che dopo aver trovato un milione di dollari nel portabagagli di un’auto l’ha consegnato ai suoi superiori senza tenersi in tasca nulla. Un poliziotto quindi dall’invidiabile senso morale e del dovere, attaccato al suo lavoro. Ma anche un uomo che non riesce a pensare, come dovrebbe, alla sua famiglia, che ha amici criminali, molto trasandato, che si ingozza in continuazione di junkie-food .
Frank Lucas invece ci riesce a tenere unita la sua famiglia e a coinvolgerla nei propri affari (prendendo come esempio la famiglia italiana nelle sua derivazione mafiosa) e soprattutto è uno che non si mette mai in mostra, che si tiene in disparte (e che nell’unica volta in cui indossa qualcosa di più vistoso rimane fregato), uno che è legato ad Harlem, nella quale ha vissuto da quando era ragazzino e che aiuta regalando tacchini il giorno del ringraziamento e allo stesso tempo  distrugge smerciando eroina ad ogni angolo di strada.
Proprio di questi contrasti vivono i due personaggi. E quell’attrazione tra le loro identità, di cui si diceva prima, esploderà in tutta la sua forza (grazie alla bravura degli attori, Denzel Washington e Russel Crowe) nel faccia a faccia finale, in cui i due si fronteggiano, giocando a carte scoperte, mettendo uno di fronte all’altro quello che hanno in mano, senza assi nascosti, per vedere chi sarà a vincere, per vedere uno dentro l’altro cosa li ha spinti per arrivare a quel punto, per capire in che modo la vita li ha trattati per farli diventare quello che sono. Fino al momento in cui le loro identità si fanno meno distinte e tra i due scatta qualcosa, forse la comprensione reciproca, forse il bisogno di fidarsi.
Ridley Scott racconta un pezzo della malavita americana dei primi anni settanta con una narrazione di grande respiro, autonoma, in gran parte, da tutto il cinema precedente che si è immerso in questo mondo, per ricostruirlo o rappresentarlo fedelmente (Scorsese, Coppola, Friedkin, Ferrara), scegliendo una regia equilibrata nella forma e nella messinscena, classica nel non essere mai invadente nel narrare, con immagini livide e fredde, grazie anche a una fotografia capace di cogliere il gelo e le luci delle strade invernali di New York.
Ai margini della storia rimangono la guerra del Vietnam e l’esplosione del consumo di eroina, elementi sociali che meriterebbero ampli approfondimenti, magari in altre storie, in altre testimonianze.
American Gangster è l’incontro di due approcci morali diversi all’esistenza, speculari e dialettici, capaci alla fine di venirsi incontro, quasi nella necessità di darsi una seconda chance, quella che tutti dovrebbero avere, per riaffacciarsi sul mondo, un domani, con occhi e orecchie diversi, per accorgersi che forse quel mondo non è più come te lo ricordavi.

 
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