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Saba: appunti per un percorso di lettura

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Molte etichette improprie sono passate sul verso di Umberto Saba e non gli è bastato un cinquantennio di vita dedicata all’arte per garantirsi il giudizio univoco della critica, in un’oscillazione che solo negli ultimi anni va correggendosi, col ricollocarlo, anzi, dopo la posizione minoritaria rispetto ai massimi, proprio nel panteon dei classici del ‘900, scalando persino posizioni rispetto a Montale e a Ungaretti.
Dopo gli studi fondamentali del dopoguerra, tra i quali quelli di Contini, Pasolini, Lavagetto, soprattutto i convegni di studio e le iniziative degli istituti universitari, gli apporti sullo stile (G. Bàrberi Squarotti) e la metrica (A. Pinchera, A. Girardi), le iniziative in occasione del centenario dalla nascita e, recentemente, per l’anniversario della morte hanno ampliato la gamma dell’approccio, proprio come richiedeva un’arte sfaccettata, dalle tante implicazioni e chiavi di lettura qual è l’opera di Saba sotto l’apparente colloquialità.
Ma lo hanno toccato di tanto in tanto aggettivi usati con valenza negativa, come dimesso, antinovecentista, crepuscolare, estraneo alle correnti contemporanee…
Riserve su di lui furono espresse, per esempio, da Scipio Slataper, De Robertis, Bacchelli, Serra e Croce, arbitro della letteratura italiana per almeno un quarantennio, i quali soprattutto gli rimproveravano l’antiquato provincialismo. Eppure Saba incontrò abbastanza presto il critico che ne avrebbe consacrato la grandezza, nelle intuizioni di Giacomo Debenedetti, che scrisse di lui sin dal 1924 su “Primo Tempo“, a tre anni, dunque, dalla pubblicazione del Canzoniere, e nei Saggi Critici del 1929, dove sottolineò la distanza di Saba dalla poesia contemporanea chiusa nel vagheggiamento di una “forma” in sé sola vivente, fondata su valori figurativi e musicali.
Il critico mise in luce anche l’innegabile autobiografismo della produzione poetica e di Saba la natura schiva e malinconica, ambedue lontani dalle faville dannunziane, assolvendo secondo alcuni alla stessa funzione del De Sanctis rispetto a Leopardi, questa volta in simultanea.
La rivista Solaria, poi, nel 1928, gli dedica un numero monografico, cui posero mano, oltre a Debenedetti, anche Solmi e Montale. Insomma, nonostante Saba si sia lamentato per tutta la vita della disattenzione della critica nei suoi confronti, tanto da scriversi in proprio, quasi una tesi di laurea, il commento poetico –Storia e cronistoria del Canzoniere- ha avuto dalla sua parte il fiore dell’esegesi, per di più illuminata.
Saba stesso riteneva per la verità che nascere a Trieste nel 1883 era come nascere altrove nel 1850, ferma, la città, al periodo risorgimentale nel suo alone romantico. E probabilmente era consapevole anche di altri fattori isolanti: come la sua origine ebraica, per parte materna, e perfino della sua omosessualità.
Della marginalità, rispetto alle correnti peninsulari, ebbe coscienza:
 
Gabriele D’Annunzio alla Versiglia
vidi e conobbi; all’ospite fu assai
egli cortese, altro per me non fece.
A Giovanni Papini, alla famiglia
che fu poi della Voce, io appena o mai
non piacqui. Ero fra lor di un’altra specie.
 
Del resto non sentì affini il rombare dei futuristi e il travaglio degli ermetici, soprattutto quello di tipo razional-filosofico di Montale o metrico-linguistico alla Ungaretti. Né pare ci sia l’ombra di Gozzano e dei crepuscolari nella sua poetica, a parte collegamenti del tutto superficiali sul comune canto del quotidiano.
Preferisce uniformarsi alla metrica tradizionale, rifiuta il verso libero per l’endecasillabo in primo luogo e le forme chiuse del sonetto e della canzone. Del resto il titolo di Canzoniere se riprende, come è stato detto, il titolo da un’opera di Heine, si ricollega senza equivoci a Petrarca direttamente.
Nelle sue predilezioni di autodidatta si indirizza proprio verso i grandi del passato: Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Foscolo, Leopardi nei riguardi del quale sentì vera e propria affinità spirituale e addirittura D’annunzio, soprattutto del Poema Paradisiaco, poeta contro il quale sovente lanciò strali, pur senza sottrarsi mai del tutto al suo richiamo. Sul quaderno di nozze della moglie Lina, ad esempio, si trova ricopiato un sonetto dannunziano dalla raccolta La Chimera (1890).
In ogni modo nel saggio del 1912 dal titolo Quello che resta da fare ai poeti, rifiutato dalla Voce e pubblicato postumo solo nel 1959, contrappone, in nome della poesia onesta, proprio D’Annunzio, poeta disonesto e menzognero, all’impeto morale di Manzoni, ricercatore di verità.
La poesia per Saba deve essere rivelatrice della propria intimità e libertà e un vero artista segue la via del cuore, della testa, dello stile, tanto che in un primo tempo il Canzoniere doveva chiamarsi Chiarezza. In una lettera a Carlo Levi afferma pure che la poesia deve sempre conformarsi al dolore del vivere.
 
Amai la verità che giace al fondo,
quasi un sogno obliato, che il dolore
ricopre amica. Con paura il cuore
le si accosta, che più non l’abbandona.
 
Della tradizione non rifiuta neanche il libretto d’opera, dove dice di trovare detriti del passato.
Insomma, l’essere nato sul confine, in realtà, gli conferì un’identità culturale diversa ma speciale, appartata rispetto alle direttrici italiche ma di tutto riguardo. Se lo collocò apparentemente ai margini della cultura vigente, lo pose da una parte sul filo della tradizione più solida e dall’altra in contatto con l’effervescenza mitteleuropea, allargando il suo orizzonte a Heine, a Otto Weininger, a Nietzsche nella qualità di padre del nichilismo novecentesco, alla psicoanalisi, che tanto spazio ebbe per la sua vita e per la sua arte.
Va ricordato che al filosofo tedesco dedica l’ultima poesia di Uccelli:

 

Intorno a una grandezza solitaria

non volano gli uccelli, né quei vaghi
gli fanno accanto il nido, altro non odi
che il silenzio, non vedi altro che l’aria.
 
Saldando anzi le pianure al di qua e al di là della catena delle Alpi, si risolse per un originale binomio Leopardi-Nietzsche: sia pure per via intuitiva, le scelte ideologiche di S., sono coerentemente orientate verso due dei fondatori del nichilismo contemporaneo. Di matrice leopardiana sono alcune delle modalità poetiche: la lacerazione tra l’orgoglio-rimpianto della propria difficile individualità e il bisogno di immersione nell’esistenza; l’attitudine contemplativa da un angolo appartato (il cantuccio, il muricciolo, l’erta solitaria, la finestra); il particolare realismo affidato a figure esemplari e ricorrenti; la stessa opzione per una poesia di sentimento e di riflessione; la “perfetta fusione di termini famigliari e letterari” (lettere ad Alfredo Rizzardi, 1953) (Rosanna Saccani).
La geografia, le caratteristiche della personalità e l’incontro con la psicanalisi come paziente ne fecero alla fine un soggetto e quindi un poeta modernissimo, permettendogli l’analisi di quel male di vivere che scorrerà per tutto il novecento come caratteristica peculiare e dandogli quindi la possibilità di poter dar voce al profondo, in quella sorta di monologo interiore che sarà il vanto di Proust o di Joyce. Per inciso Saba conobbe nelle sue frequentazioni al caffè Garibaldi sia Joyce sia Svevo, che ammirò incondizionatamente.
La relazione tra autobiografia, psicanalisi e scrittura, tra autobiografia e autoanalisi è del tutto simile a quella che si rileva nei romanzi di Svevo, sebbene quest’ultimo preceda Saba di un ventennio e faccia della terapia proprio l’argomento della sua prosa. Analogo tra i due è anche il problema del rapporto con la parola scritta, che doveva passare dal dialetto triestino e dal tedesco all’italiano, come in traduzione.
Occorre ribadire gli elementi che fanno di Saba un poeta del suo tempo, persino in anticipo per alcuni aspetti. Il tema della scissione dell’io, della solitudine profonda e dell’inquietudine che si pongono alla base della poetica sabiana sono spesso collegati in lui alla consapevolezza dei processi intimi che generano le condotte consce. A proposito dell’abbandono paterno, il padre assassino, S. attribuisce al distacco la causa delle sue tribolazioni di adulto, mostrando di ben conoscere la valenza dirompente dei traumi infantili, secondo le teorie di Freud. Tranne Svevo, nessun altro dei poeti e degli scrittori coevi pare sia risalito allo stesso grado di cognizione del cosiddetto flusso interiore.
Una disamina dell’intera opera di Saba in chiave psicoanalitica si deve meritoriamente a Mario Lavagetto, che gli ha dedicato una monografia critica La gallina di Saba e l’introduzione ai Meridiani. Una lettura accurata delle implicazioni freudiane nell’opera di Saba, a suo parere, ne rileva il simbolismo inequivocabile, compreso il rapporto problematico con le sue donne.
Del resto la nevrosi in Saba fu tanto accentuata da fargli confessare a Debenedetti ben tre propositi suicidi e probabilmente spiega la dipendenza dalla droga, da cui Saba fu afflitto dovendo ricorrere a periodi di disintossicazione.
A questo proposito però va fatta una ricollocazione storica, perché all’epoca i fenomeni di dipendenza erano sconosciuti e gli analisti, come pure qualche medico generico, usavano droghe nelle terapie. È noto che Freud, dipendente a sua volta dalla cocaina che somministrava di frequente ai pazienti, fu sconvolto da alcuni studi d’oltre oceano, che per la prima volta indicavano gli effetti indesiderati della sostanza, all’epoca presente in tutti gli sciroppi della tosse e altri farmaci lenitivi del dolore, per la verità fino a tempi piuttosto recenti.
Insomma la poesia del Nostro vive una sorta di contraddizione tra l’assetto formale tradizionale, la calma apparente del verso, il messaggio quasi francescano di afflato mistico e lirico con gli elementi naturali –vedi la nota poesia alla moglie- e il viluppo della personalità che altre cose ha rivelato. Colpisce a tutta prima il bisogno di uniformarsi al gatto al pettirosso alla capra, ma anche agli esseri umani e quella sorta di romitaggio in cui avviluppò la sua esistenza.
Suo ammonimento è quello di saper uscire da se stessi e vivere la vita di tutti, di essere come tutti gli uomini di tutti i giorni: di essere soltanto uomo tra gli uomini.
Dall’auspicio si ritirò ahimè  solo e sempre nella trepidazione.
Sebbene l’opera d’arte abbia valore assoluto e sia libera dal profilo esistenziale dell’autore, in Saba tutti gli elementi entrano sotto la scorza della soavità nella sua poesia. Persino il paesaggismo della sua Trieste, col porto, le erte, il caffè Tergeste, passa, come qualcuno ha detto, dal vedere al guardare, dal sentire all’ascoltare, ossia all’impressionismo del sensitivo Saba e Trieste diventa porto e rifugio della memoria e degli affetti come gli oggetti del mondo si fanno speculari e definitori del suo stato d’animo.
Dopo tutto Pasolini, in Della poesia di Saba, trova anche nello stile elementi del suo turbamento.
Saba è il più difficile dei poeti contemporanei. Al più semplice esame linguistico non c’è parola in Saba, la più comune, il cuore-amore della rima famosa, che non risulti immediatamente violentata o, almeno, nei momenti in cui meno chiara fosse la violenza espressiva, malconcia o strappata al suo abituale significato, al suo abituale tono semantico.
Sappiamo che altri smarrimenti interessarono l’animo del Nostro e che raggiungeranno Ernesto, delicato romanzo postumo, rivelatore del suo orientamento sessuale, del quale Saba quasi certamente si è reso conto almeno attraverso le sedute di psicoanalisi. In una società bacchettona e perbenista anche questo deve essere stato un peso non facile da portare.
Il percorso critico su riportato, del tutto insufficiente, vuole, tuttavia, suggerire il superamento definitivo della pagina sabiana quale luogo della quiete per una lettura più conforme al frastaglio della sua anima e quindi alla stratificazione del verso. Il livello della critica e la quantità delle intuizioni supportate dalla prova ormai non dovrebbero più ingenerare ambiguità.
Ed è una poesia, quella di Saba, di difficile collocazione anche per le mille altre parentele, che richiederebbero ciascuna un saggio a parte: la lingua e lo stile, la triestinità, il rapporto con l’ebraismo della madre e in generale con la creatura femminile, il ruolo che assegna alla donna, la formazione e l’assetto culturale, la qualità della prosa, il messaggio e l’eredità, per citare gli aspetti salienti.
Ma tutto ciò non spiega la seduzione del verso sabiano.
In primo luogo si pone la coerenza del poeta rispetto a un progetto artistico di alto livello. Saba ebbe grande considerazione di sé e sempre intese l’artista come un artigiano. Il ritornare continuamente sulle composizioni ha permesso alla pagina di rarefarsi fino alla completa trasparenza.
Affascina la drammaticità che scaturisce dall’angoscia esistenziale, la consapevolezza del dolore e il tono mesto e mai disperato, l’amore per la natura e gli uomini, specialmente gli umili (Qui degli umili sento in compagnia/il mio pensiero farsi/ più puro dove più turpe è la vita.) in una strenua e sempre delusa attesa di farsi uguale.
È innegabile la sua adesione al sentimento, a modelli di vita semplice, quindi la contiguità al concreto dal quale la parola poetica esita senza l’intermediazione di un apparato razionale di costruzioni stilistiche soverchianti. Nella sua poesia il sangue fu sangue e il pianto pianto.
Ed è questa sincerità che il lettore avverte come dono generoso del poeta. Egli riesce a denudare le sue pene con una naturalezza che mette immediatamente in contatto con la sostanza della sua anima.
Il binomio sincerità-naturalezza costituisce l’emblema della pagina di Saba.
Inoltre, qualità propria dei poeti, egli riesce a vedere nelle cose, che non necessariamente sono la casa e il nido di matrice pascoliana, tutto quello che l’uomo comune non nota, offrendo dalla sua parte una visione non del tutto tragica dell’esistenza. Il poeta in fondo crede nei rapporti della famiglia, ritiene che la felicità sia raggiungibile e, insomma, si allontana dai cocci aguzzi di bottiglia che danno dell’umanità un’immagine di sola sofferenza.
 
 
È tardi. Affronto lieto il gelo
di fuori. Ho in cuore di una vita il canto.
 
All’uomo di oggi del consumismo e della insignificanza del gesto, offre una poesia di discernimento e positività, un sistema di valori, segni che forse spiegano il rinnovato amore per il poeta da parte dei lettori negli ultimi anni. Nello strombazzare di una società che perde punti di riferimento, avvilita dalla sciatteria dei comportamenti e dalla superficialità della cultura imperante, l’uomo moderno forse vi ritrova il bandolo delle cose che contano e di come dalle proprie crisi si possa trarre saggezza.
 
Roma, 22 ottobre ’07

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