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Sicko

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Vedere quella barca che da Miami parte verso Cuba (anzi verso Guantanamo) con tanto di bandiera americana sventolante, e i contorni inconfondibili di Michael Moore, è un’immagine che colpisce il cuore. Vedere questo uomo, goffo e pesante, fare domande e ottenere risposte, vederlo immergersi nella densità delle cose, degli avvenimenti, dei fatti, vederlo scavare nelle ipocrisie della propria società è prima di tutto un’esperienza emotiva, umana, poi una presa di coscienza.

Ma sono sempre le sensazioni quelle che si muovono in profondità.

Michael Moore ti porta a riflettere sulle cose o a indignarti passando principalmente per il tuo cuore. Facendoti ridere o piangere, facendoti sentire partecipe di una umanità che non conosce confini, toccando le corde giuste della nostra sensibilità.

La sua macchina da presa, sempre incollata a chi parla, sempre pronta a seguirlo nelle sue folli idee, è ancora uno strumento di militanza civile più che politica come è nella tradizione delle lotte per i diritti umani degli Stati Uniti. Questa volta il regista mostra il vero volto della sanità americana, completamente in mano a società assicurative private. Ne mostra le perverse logiche capitalistiche e commerciali, dove il malato diventa merce e quindi solo un elemento di un sistema che deve portare soldi alle società assicurative. Non si pensa alla salute, si pensa a quanto il rapporto tra spese mediche e entrate (i prezzi delle varie assicurazioni) possa essere favorevole per queste società. Michael Moore va anche in Canada, in Francia e infine a Cuba, mondi paradisiaci per i malati americani dove l’utopia di cure gratuite diventa una concreta realtà.

Michael Moore ha la grande abilità di non essere mai pedante o violento nelle sue denunce, i suoi film, al di là della assurde verità che mostrano, fanno, in alcuni momenti, ridere fino alle lacrime. Situazioni talmente paradossali, montate con intelligenza e attraverso molte idee espressive e visive, che sembrano uscire da film comici o demenziali. Solo quando ci si ferma a riflettere, dopo, usciti dalla sala, ci si accorge della drammaticità di quanto si è visto, e allora la mente, il cervello, iniziano a ricollegare, a metabolizzare le immagini e le parole, e cresce l’indignazione e ti coinvolge lo stesso desiderio di cambiamento, di novità. La stessa voglia di resistenza a questo stato delle cose.
Michael Moore porta speranza. Parla prima di tutto agli americani ma anche al mondo intero. E dietro questa figura apparentemente inoffensiva si cela un regista che ancora usa il cinema come strumento di denuncia e che trova nella forma del documentario un mezzo adeguato per le sue inchieste e le sue storie. La sua macchina da presa non si abbassa davanti a nulla, non conosce il fuori campo, è un occhio sempre presente, davanti al dolore come alla gioia. Il suo occhio è testimonianza. Scelta condivisibile o meno, la realtà mostrata da Michael Moore è funzionale alla sua tesi. Una denuncia civile dove il disprezzo per la società americana non cade mai in quello per la razza umana, segno dell’amore del regista per la sua nazione e del suo odio per chi la governa.


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