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Il Prete Lungo – Luciano Bianciardi

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Nel 1956 Laterza pubblicherà I minatori della Maremma: documento sul lavoro operaio stilato dal Bianciardi e da Carlo Cassola.

Il 3 settembre del 1971, scrivendo dalla strana località di ABC, Luciano riprenderà la figura del minatore quale padre d’un futuro sacerdote.

Siccome la povertà è anche impossibilità dei mezzi ed incapacità in senso economico, il giovane figlio del minatore ateo, ed anch’egli non credente, dovrà adattarsi, come spesso avveniva per quelli di quelle generazioni post belliche, ad accettare l’idea (prima) e la prassi (dopo) dell’accesso ad un seminario tenuto dai salesiani.

Non c’era altro modo, allora e per molti, di finanziarsi gli studi se non sottostando all’idea e prassi dell’indottrinamento cattolico.

 

Il racconto si basa sul costrutto del sogno-mito-paragone: il giocatore che s’alza da terzino e prova con alta probabilità a superare Caligaris, e l’identità certa del figlio di un operaio e di un paesino maremmano: Prata

«[…] a Prata tutti facevano (ora hanno smesso) il minatore» (pag.9).

Indagheremo il costrutto smesso con cautela, avanzando due ipotesi.

 

La prima, quella che pare evidente nel testo, quasi pudica, vergognosa: per non diventare anch’egli minatore, creda o meno, il figlio di questi deve farsi prete.

La seconda, antecedente sempre al testo, è che il paese di referenza del racconto (simbolo di un’epoca, più che d’un luogo geografico) ed al di là della sua reale esistenza, assurge a simbolo di un’emancipazione forzata, di una scelta obbligata, di una liberazione dovuta all’altro da sé, che, avendo camerate e campetti di pallone e libri sui quali poter studiare, e proprie particolaristiche pornografie claustrofobiche, poteva mutare lo status, costruire e plasmare la coscienza ed il corpo, entrambi rinchiusi in limiti-regole-precetti di socio-ingerenza assolutamente ipocrita, della chiesa cattolica nel tessuto sociale.

 

I presti si sa perché son detti padri, alla fine di tutta la breve prosa.

Son millenni che i preti continuano ad essere padri, più o meno inconsapevoli, del genere umano.

Il fatto è che non si astengono dagli atti impuri, perché tentabili. Queste tentazioni possono portare allo «scandalo» (pag.17) se accolte, vissute.

L’atto praticato s’occulta nella lingua classica dell’istituzione religiosa, del clero: il latino, ed il dialogo tra il prete e Sua Eccellenza diviene amara scoperta, per il lettore, del grottesco e del potere ad esso collegato, della necessità della norma e del perdono come bilancia tra Superiore ed Inferiore.

Finché un perdono è possibile, ossia fin quando sia attualbile la costernazione. Il peccato dell’onanista, quello no… non può essere compreso-bonariamente confessato, perdonato.

Quello è anarchico, è «il peggior peccato che si rammenti nella Bibbia» (pag.17).

È un reato, perché la Bibbia ritorna ad essere un codice di divieti soggettivi, una precettistica d’obblighi morali e pubblici.

Il prete, adesso, va trattato con distacco, e gli va riservata una punizione adatta ai crimini commessi, un esilio, un’uscita dal consesso sociale, un forzato eremitaggio.

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