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Il volto macchina – Ianus Pravo

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Ianus Pravo ci consegna un’opera che descrive-ritrascrive la propria vita; ma non è vitavita, e non è autobiografia.

Autore/Autrice (chi può saperlo?) di sicura esperienza pratica del mondo editoriale (si presumono letture e valutazioni; traduzioni senza dubbio), ci basisce stupisce sfinisce.

Non è vita d’autore, autobiografia reale, perché, se lo fosse, sarebbe già in qualche galera chi – come Ianus dichiara – dichiarasse d’essere non l’assassino tout court, ma l’omicidio puro semplice vibrante totale dell’umanità.

 

Il primissimo piano stilistico del lavoro è da cogliersi, asseriamo (pur con tema di smentita), nella scelta assoluta di coagulare “trama” e “nome d’autore” in un’unica scrittura onnicomprensiva. Una base che avrà posto la necessità di una progestione e programmazione di profonda finezza, ed avuto una logica sorretta da capacità scrittorie inusualissime.

Solo chi è davvero capace di creare una poetica ed ha infinitamente studiato l’umanità può permettersi un’operazione tanto alta e riuscita e salvarsi dalle cadute operative, tipiche del neofita che voglia cimentarsi con una globalità ed un classicismo di cui presume possedere la conoscenza solo per aver leggiucchiato qualche mito. Per disquisire squisitamente di mitologie, teogonie e prassi loro connesse, non basta qualche appresa lezioncina di greco; occorre lo sgiardo del giusto mezzo, il viaggio illustrato ed una capacità mnemonica e di giudizio onnicomprensivi (o tendenti all’onnicomprensione).

 

La vita è conoscenza assoluta d’un eros e d’una thanatos insopprimibili e rifrangibili sulla carta cum esistenza. È l’esistenza sola e sentita, vissuta e sfibrata, negata, abbandonata, refrattaria e criminogenetica, che permette una scrittura aderente, risarcitoria della vuotezza da rimando, propria di molte-troppe proposizioni editoriali del nostro vacuo oscuro tempo.

Si vuole, col libro, dimostrare la potenza della parola, l’azione cui la stessa reinvia o, ancor più, invita. Il giudizio è sospeso nella mente del lettore, assestato dalla tiratura cesellata dei periodi autoriali: calibrati, precisi, pregni; estremamente infinitamente magniloquentemente “citazionisti”.

 

Le barriere culturali dei consigli al saper scrivere, tipici d’una scolarità didattica e d’una società occidentale nozionistica, sono abbattute, annientate negl’infinitesimali addobbi di conoscenza ad una non-storia (eppure minimal-trama), nelle descrizioni mondane di corpi visti non più come nelle letterature del ‘900. Pregne di individui coabitatori del peccato-tradimento, del modus d’operare del soggetto-personaggio in vista dell’appagamento libero da rivendicazioni morali della società.

L’etica è qui sfumata nel sapere d’un criminale che non è astuto deviatore dell’inquisitore, ma è altĕra lex egli stesso; sviscera l’oscuro di ognuno di noi. Non indottrina e non chiama al messianesimo del sé, non pretende compagnia. Sa che la solitudine, seppure su essa v’è da interrogarsi, è tempo fra tempo, non tempi. Mai ore, mai corse; poliziotti astuti a rincorrerci se violentiamo e uccidiamo, non ve ne sono. C’è la giustizia, anch’essa altra, imparata dal fluire della storia (mai universale, è chiaro!).

Una giustizia risarcitoria non ha più senso; la vera sua essenza è la remunerazione, l’osso goloso al cane-uomo. Per “questo” non v’è l’omicida, creazione “tribunizia”, ma l’omicidio, l’assassinio poetico assoluto; solo argomento capace di richiamare le immagini d’una cultura globale e – perciò – intransigente.

 

Il corpo è non-oggetto, liquido temporale che permetta d’inglobare tra sbarre di conoscenza ultramillenaria una partita di blocchi culturali che sino ad oggi potevano darsi per inconciliabili. Non c’è più un mondo greco, uno ebraico, uno arabo… C’è un mondo e c’è un tempo, non asservibili ai mondi e ai tempi, ed indi modi, tramandati. La tradizione è strumentalizzata al fine (al pari dei “belli e belle” denudati, violentemente amati, uccisi e riposseduti) di disquisire intorno alla nuova proposta ripartizione del Dio Tempo.

Un Dio unico è sospeso oltre il nostro sguardo, e parla tramite le scritture sacre da sempre.

Il Tempo Indagatore, che si è sempre finto anch’esso unico dio, è degno finalmente di analisi. Bisogna costringerlo a svelarsi attraverso sia quadri di storie ed antropologie di volti e luoghi, sia attraverso proposizioni interstiziali che diano la misura di quell’ “anonimità” assoluta che copre lo stesso tempo, lasciandoci a contemplare la smontabilità sospesa delle nostre morte (stanche) membra, come fossimo plastici museali.

 

Il Tempo è il personaggio che sospende arte e morte.

È il teatrante dell’atto e del fatto; così:

Il deserto e la città sono il fondo della mia forma […] (pag.6);

interstizio dell’inintelligibilità (pag. 8);

una tela, una vena; una muraglia…

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