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Grindhouse – Death Proof

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La pellicola è sporca, rovinata, piena di graffi. A tratti salta. E’ una di quelle pellicole che andavano di sala in sala (le grindhouse) e che venivano proiettate fino a logorarsi. Un’intera stagione cinematografica, quella degli anni settanta, che sfornava film di ogni tipo e di ogni genere, una stagione che Quentin Tarantino porta impressa a fuoco nel proprio cuore.

Perché Death Proof è ancora una volta e prima di ogni cosa un ennesimo atto d’amore di questo regista verso il cinema. E’ prima di tutto un film come Tarantino li vuole vedere, un film per lui, poi per gli spettatori. E allora si ritrovano tutte le cose che gli sono più care. L’intero film è pregno del cinema che ama, che siano locandine o canzoni, che siano elementi scenici o magliette, macchine d’epoca o discorsi su film. Ma Quentin non si ferma a questo e allarga il suo amore anche verso i propri film e allora quel tessuto di immaginario cinematografico non rimanda più solo a quanto fatto da altri prima di lui ma anche ai suoi stessi lavori e allora si ritrovano i dialoghi alla tavola calda delle Iene o quelli in macchina tra Vincent e Jules, gli adesivi e i poliziotti texani di Kill Bill, i massaggi ai piedi di Pulp Fiction.

I piedi, un altro dei grandi amori di Quentin. In questo film trovano la loro sublimazione, attraverso primi piani che ne mostrano la bellezza e la carica erotica. Quentin lavora sul corpo femminile attraverso un’ottica fatta di feticismo e complicità, si sofferma su capelli e volti e labbra e culi, ma con autentica passione, con uno sguardo sincero che ne riesce a cogliere la vera sensualità.

Perché sono tutte donne le protagoniste di questo film, l’uomo è un’altra volta il malvagio, colui che sarà punito. Sembra che Quentin attraverso i suoi lavori abbia compiuto un sistematico spostamento verso personaggi femminili. Nelle Iene le donne erano completamente assenti e si è arrivati a Death Proof che invece si occupa quasi esclusivamente di loro. Donne che non si limitano ad agire e a vendicarsi (come la sposa in Kill Bill vol.1) ma parlano e parlano e tutta la prima parte del film si costruisce quasi esclusivamente sui loro dialoghi, che poi sono quelli che tanto piacciono a Quentin, fatti di quotidianità e sesso, volgarità e modi diversi di vedere le cose.

Ci si muove in un’epoca anacronistica, si ritorna come per magia negli anni settanta. Se ne rivivono i colori, se ne ascolta la musica (come sempre stupenda), si viaggia sulle automobili dell’epoca (le Dodge), si fuma ancora l’erba, ci si incontra in locali ormai introvabili (lo splendido bar messicano di cui Quentin interpreta il proprietario). E allora diventa grandioso seguire il film ed essere spettatori, perché ci sono queste belle ragazze che chiacchierano e ballano e si ubriacano. Ed è un modo magico per passare una serata. Poi inizia a piovere e si va di fuori a fumare erba. E Quentin che offre un altro shot o un altro cocktail a tutti. Questa prima parte del film si immerge proprio in un’altra dimensione temporale, in un mondo (ri)costruito dall’immaginario di un regista, dove si fondono e prendono vita tutti i film che ha visto, quelli che ha girato, i suoi sentimenti, i suoi feticismi, insomma il mondo interiore di un artista.

Poi entra in gioco Stuntman Mike (Kurt Russel) e le cose si fanno diverse. E si inizia a sentire odore di morte. E ce ne sono i segni. La macchina nera con il teschio dello stesso Stuntman Mike, le sue cicatrici. E allora il viaggio verso la casa al lago che le ragazze dovevano fare dopo esser uscite dal locale diventa all’improvviso un incontro con l’orrore. E il sogno si infrange. E Quentin inizia a montare l’azione dell’incidente. E ti incastra con la musica. E rimani lì fisso a guardare e senti i vetri che si spaccano e le lamiere che si attorcigliano e poi quei corpi così magici che iniziano a squartarsi e rimani per qualche secondo in silenzio, ammutolito. Il sangue ti si è semplicemente ghiacciato nelle vene.

La seconda parte del film ripercorre la prima. Stuntman Mike troverà altre ragazze ai cui rovinare la vita ma questa volta non sarà altrettanto fortunato. Quentin compie una vera e propria frattura, cambia completamente scenario, inizia questa parte della storia in bianco e nero, poi passa al colore.

Anche il cast femminile cambia totalmente e purtroppo non siamo all’altezza di quello della prima parte. I dialoghi calano sensibilmente, ma rimane tutta l’azione in strada dell’inseguimento tra Stuntman Mike e le altre ragazze che è adrenalina pura.

Quentin continua a fare cinema come meglio crede e questo è il suo grande merito. La sua scrittura filmica non è semplice citazione è un modo per riscrivere generi e storie, sue come di altri. In questo caso si parte dal road-movie e dallo slasher-movie, ma è solo la base, solo due generi di riferimento, poi inizia tutto un gioco di rimandi e strizzate d’occhio che è come un discorso diretto tra il regista e lo spettatore.

Il cinema di Quentin si allontana a gran velocità dalla realtà, non gliene frega niente, vuole solo costruire storie, per poi riempirle di altre storie, è un cinema che viaggia follemente sulle strade della narrazione e che si diverte a farlo.
Allo spettatore non rimane altro che immergersi in questo vortice, stare al gioco, allacciarsi la cintura e lasciarsi andare.


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