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Number 23

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A Walter Sparrow (Jim Carrey) viene regalato un libro intitolato Number 23. La lettura del testo diventa sempre più ossessiva da parte di Sparrow che inizia a trovare inquietanti similitudini tra le vicende narrative e quelle della sua vita, senza contare il continuo ripetersi del fatidico numero nelle più svariate occasioni. La storia quindi si sdoppia. Da una parte la vita reale di Sparrow, dall’altra quella finzionale di Fingerling (sempre Jim Carrey) protagonista del libro Number 23. Joel Schumacher ha quindi la possibilità di creare ambienti e situazioni noir per far muovere gli alter-ego narrativi dei suoi personaggi (anche la moglie di Sparrow ha il suo doppio) e per dare un tocco dark alla sua pellicola. Joel Schumacher non brilla certo per inventiva. Né per quanto riguarda la messinscena né per le scelte registiche, tranne per un efficace pianosequenza che rende bene la sintesi tra le esigenze narrative e quelle filmiche. Ed è proprio nel rapporto tra questi due elementi che vengono fuori i dubbi maggiori. La visione di questo film andrebbe comparata con quella di un’altra pellicola, simile eppure profondamente diversa, The machinist (L’uomo senza sonno) di Brad Anderson. Nel film di Anderson la ripetizione di alcune immagini che il protagonista vedeva in diverse occasioni serviva per una ricomposizione finale delle stesse che ne spiegasse il senso. Un senso e una comprensione che diventava prima di tutto filmica. Il valore iconico dell’immagine veniva quindi usato come tassello fondamentale della narrazione cinematografica. In Number 23 invece non c’è nulla di tutto questo. La ripetizione è solo numerica. Schumacher usa le immagini solo come parti di una narrazione che non è filmica, ma letteraria. Una semplice trasposizione in immagini, dunque, che non aggiunge nulla a quanto può narrare una pagina scritta. In questo c’è il limite del lavoro svolto dal regista. Nel non essere riuscito a dare una comprensione della storia prima di tutto tramite le immagini, ma solo, a posteriori, attraverso la loro spiegazione verbale. C’è quindi solo il mestiere di chi usa il cinema come strumento per andare incontro alle esigenze di un pubblico in cerca di una storia che lo sappia catturare.
Si pensi ancora a Trevor Reznick, protagonista di The Machinist. Si pensi a come la sua colpa fosse vissuta fisicamente, a come il suo rimosso psicologico fosse scavato nel suo corpo. Si pensi a come la scelta morale del castigo fosse prima di tutto un’esigenza individuale e non legata alla società in cui si vive. Walter Sparrow si ritrova invece solamente incastrato in una storia di cui deve ritrovare le fila e il senso ma di cui fondamentalmente non ne vive il peso e il dolore, il dramma esistenziale e la sofferenza. Number 23 è solo un altro film che cerca di intrappolare chi lo guarda al suo interno, in una struttura d’intrattenimento ben confezionata, che vende allo spettatore la sua giusta dose di suspense e gioco mentale e che si conclude con una facile morale nella quale potersi identificare.


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