KULT Underground

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The Cooper Temple Clause

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SEE THIS THROUGH AND LEAVE / KICK UP THE FIRE, AND LET THE FLAMES BREAK LOOSE

 

Reading è la culla d’una delle band più promettenti della nuova generazione: i The Cooper Temple Clause, band dalle sonorità polimorfiche e dalla camaleontica identità: non si può ascrivere nessuno dei loro due album ad uno ed un solo genere; a volte, si ha la percezione d’ascoltare un disco di brit pop ibridato con un’elettronica figlia magari più dell’esperienza di “Kid A” dei Radiohead che delle sperimentazioni dei pionieri Kraftwerk; altrove, si riconoscono le influenze del postpunk, in particolare della vena grunge che scintillò e si consumò nell’area di Seattle negli anni Novanta; forzando un po’ la mano, potremmo salutare nei primi album dei Mansun e nell’esordio degli Oasis, l’apprezzabile “Definitely Maybe”, la matrice prima del sound di questa band. Che tuttavia, proprio per via di questa parossistica ed esasperata vocazione alla contaminazione, all’ibridazione e all’alterazione dei pattern sembra destinata a poter aspirare alla creazione di qualcosa di originale.

L’esordio, “See This Through and Leave” (2002), s’apre con una ouverture elettronica, Did You Miss Me: è un pezzo rock notturno e malinconico, a metà strada tra “Everything in its right place” dei Radiohead e le atmosfere depresse e postmoderne di “Pretty Hate Machine” dei Nine Inch Nails. D’un tratto si precipita nel rumore, in un ritmo frenetico da club polveroso e underground; s’intuisce un’adorazione per le distorsioni, si sente segno d’una marcata sensibilità psichedelica.

Film-Maker è la conferma dell’interiorizzata lezione postpunk: la voce di Ben Gautrey è senza dubbio influenzata da toni gallagheriani, e questo vale a mitigare l’estremismo e la distruttività dello spirito del pezzo, inquinandolo d’un’accessibilità pop che si perde solo negli ultimi venti secondi del brano.

Ancora elettronica da club in Panzer Attack: New Order out of order, in un certo senso, con ritornello nirvaniano e imponente alternanza di effettini e di distorsioni, fino alla grottesca dissolvenza finale. Prime sensibili concessioni all’armonia, dopo l’esplosione della rabbia, nella ballata Who Needs Enemies?: l’eleganza e l’embrionale ricercatezza dei dischi d’esordio degli Embrace e degli Starsailor incontrano la nausea e il ribellismo dei primissimi Oasis.

Amber è il primo precipizio autenticamente depressivo e autodistruttivo del disco, preludio al superbo psicodramma conclusivo, “Murder Song”. Amber pretende d’essere ascoltata con una degna compagnia etilica, va riservata a un momento di introspezione e di compiaciuta autocritica, senza stancarsi di domandarsi chi mai stia spostando le piastrelle del pavimento: possibile che si confondano e si dileguino con questa naturalezza? Secondo Ben Gautrey la direzione è esatta: e non dimentica di dare qualche consiglio: “Turn and face the wall / I’m only drinking / eyes to the floor / I’m merely sinking / so leave me alone / and why does it have to get like this? / it always seems to get like this / well I never meant to get like this / every night“. Questa è una di quelle canzoni che invecchiando tendono a migliorare e a rivelarsi degne dell’acquisto dell’intero album. A dispetto d’una episodica psichedelia alla Verve prima maniera (“She’s a Superstar“, per intenderci), si sente qualcosa di autentico e di terribilmente convincente nel malessere che sprigiona dall’interpretazione di Gautrey.

Digital Observations può ricordare una variazione sul tema di “No Surprises” dei Radiohead, in apertura: tre minuti e venti dopo, la dolcezza della ballata è frammentata dall’odioso rumore d’un vecchio modem 56 k (o di un fax, se preferite), da un parlato allucinato che può ricordare “Fitter Happier“, infine da una equilibrata reprise del leit-motiv. Let’s Kill Music è uno strange cross tra New Order e Mansun: difficile non riconoscerlo come un pezzo esteticamente affine alle deviazioni più rumorose del secondo disco della band di “Legacy”, “Six”. Onestamente è uno dei pezzi più grezzi e trasandati del disco; una pecca, pure non irrimediabile.

555-4823 è irrimediabilmente acida e digitale. Cavalcata strumentale figlia delle influenze del Dj Shadow, del progetto Unkle e di qualche imprevedibile corruzione lisergica, è un’allucinazione notturna e ipnotica di quasi cinque minuti. Episodici intervalli di parlato, prima femminile poi maschile, in stile Faithless (“Woozy”), inattese (per così dire) campane e folate di pianoforte non mutano l’anima d’un brano che non ha nessun equilibrio; disturba, inquieta e ispira: godibilissimo.

Been Training Dogs è inaugurato da furibonde schitarrate, è ancora postpunk (retrogusto: Stone Temple Pilots, con macchia Muse) e compiaciuta esibizione di rabbia e di dissociazione. The Lake è il preludio al capolavoro del disco: ascoltandola penso ai momenti più introspettivi dei vecchi e gloriosi Soundgarden, conoscendo gli equilibri dell’album sono portato a cercare segni e simboli della splendida traccia conclusiva. E un testo così malinconico e amaro non mi stupisce: è un segnale d’allarme, un richiamo d’un’anima che sta sprofondando e non riesce a tornare alla luce. Terribile. “Help me out / don’t let me drown in here / can’t you see / I’m gonna die in here / please excuse / that outburst / I’m a little scared / I don’t know what came over me / What’s wrong / don’t close your eyes / I don’t want to hurt you I just need a little help“.

È il momento dell’atteso psicodramma, Murder Song. Non ho difficoltà ad affermare che, assieme a “Secret Hell” dei Deus, “I’m the Ocean” dei Venus e “Something in the Way” dei Nirvana sia uno dei momenti più cupi e dolorosi del rock degli ultimi quindici anni. Il refrain ghiaccia il sangue.

Murder Song s’inabissa nella psiche dell’ascoltatore ed implode, sradicando ogni argine e ogni difesa: è un commiato malinconico e disperato.

Please believe me when I say
this is how it has to end
this is easy on us all
well easier than other ways
sleep is all I ask of you
sleep and not to wake again
see this through and leave my friend
tears will come and I will end

I Cooper Temple Clause concludono il loro primo disco con un brano che poteva valere come testamento della loro esperienza artistica: è difficile reperire, ancora oggi, a due anni di distanza dalla pubblicazione dell’lp, cenni biografici adatti a spiegare quale sia stata la genesi di una canzone come questa; vorrei poter raccontare altro che non sia una mia semplice impressione, ma vi assicuro che è stato impossibile trovare informazioni in proposito. Immagino che i cultori della band, oltremanica, ne sappiano qualcosa. Murder Song è eccessivamente cupa per poter passare inosservata: in un album del genere, che conosce rabbia e amarezza ma non atmosfere funebri, è un unicum che non può passare inosservato.

Due anni dopo “See This Through and Leave”, i The Cooper Temple Clause pubblicano “Kick Up The Fire, And Let The Flames Break Loose” (2004). Attesissimo dai critici inglesi, e dalle autentiche anime rock europee, rimaste impressionate (o folgorate) dall’esordio della band, s’è rivelato un album dalle sonorità meno estreme e sperimentali, dalla maggiore riconoscibilità pop e dal diverso equilibrio.

Sin dall’incipit, The Same Mistakes, s’intuisce una nuova fase nella produzione della band: il brano è una ballata assolutamente pop, Gautrey non mostra nessuna vena pseudo-maudit gallagheriana, il livore punk è dimenticato; è neo-romanticismo che sposa il rock, non maledettismo.

Eccettuate parentesi come Promises Promises e A.I.M., brani che avrebbero potuto trovare spazio nel disco d’esordio (niente di diverso nelle distorsioni, nella ricerca della pura sonorità e nella rappresentazione del furore iconoclasta proprio del primo disco), l’album manifesta coerenza e coesione nel suo amalgama: è senza dubbio un disco di brit-pop intimista, malinconico e introspettivo; pezzi come New Toys, In Your Prime, Into My Arms e la seducente e ipnotica Written Apology trasmettono una nevrotica e adolescenziale dedizione alla “soavità della malinconia”. Elettronica e rock ancora vive e ottimamente ibridate in Music Box.

Ragioni per ascoltare “Kick Up The Fire, And Let The Flames Break Loose”? A meno che non siate parte della ridottissima avanguardia italiana di estimatori del primo album dei TCTC, direi che è essenziale avvicinarsi al disco per due brani: Talking to a Brick Wall e Blind Pilots.

Talking to a Brick Wall è una giostra di amarezze sentimentali e di confessioni a cuore aperto ad un’amata perduta. “I’m not quite how I should be / been finding tricks too hard / I’m thinking something must be broken / Cos it wasn’t like this beforesono le prime battute. È pop onirico che incontra un rock amarissimo. Chi è rimasto incenerito dall’ascolto di Murder Song ritroverà qualcosa d’analogo nella struttura e nello spirito di questo brano. Vale la pena godersi l’ascolto di Talking to a Brick Wall, da neofiti della band, nella sua interezza: a partire da 4:10 il crescendo diventerà assolutamente magnetico e la cupa bellezza del brano si rivelerà irresistibile.

Blind Pilots, infine, è il singolo da colpo di fulmine dell’album: i cultori dei videoclip hanno idolatrato un pezzo che ha ispirato immagini d’un nuovo giovinastro-artistoide-dio Pan che, dopo una notte di divertimento e di eccessi di ogni genere, vive due metamorfosi emblematiche. La canzone è fantastica: è a dir poco trascinante, furiosa e fascinosa, segno d’un momento d’ispirazione della band degno dell’eccellente esordio. Non può non piacere, e paradossalmente dubito che volesse piacere. È nichilista, esasperata e incazzata: esprime e incarna un risentimento e un malessere totalmente condivisibili nei confronti dell’amore, della vita e del senso dell’esistenza.

Davvero adorabile.

***

Come ogni band inglese che si rispetti, i The Cooper Temple Clause hanno regalato ai loro autentici fan qualche diamante negli Ep e nelle b-sides dei singoli. Vale la pena segnalare almeno Solitude, scarica di adrenalina pura contenuta nell’Ep “Hardware”, le due diverse versioni di The Devil Walks in The Sand, rollingstoniano tributo al padre della conoscenza e ad una delle prime fonti d’ispirazione d’ogni artista, la dolce e morbosa One Quick Fix e – imperdibile – una delle canzoni che, non ho dubbi, faranno innamorare della band di Reading le nuove generazioni di anime rock: Safe Enough Distance Away. Difficile non amare artisti in grado di scrivere una canzone d’amore come questa. Ascoltare per credere: nessuna introduzione, stavolta, e nessuna associazione d’idee. Voglio scrivere che non mi ricorda nulla di già ascoltato, e che mi fa sognare o sentire qualcosa di diverso ogni volta.

Band prossima a registrare un disco di grande impatto, felicemente contaminata e ancora in cerca d’una identità definitiva, The Cooper Temple Clause possono rappresentare un felicissimo melting pot tra le sperimentazioni dei Radiohead, il fascino dei Mansun e la rabbia pura di chi ha suonato nei garage delle nazioni occidentali sognando d’incarnare nuove icone rock: frattura postmoderna, ribellione, psichedelica ispirazione (sì, ammettiamolo: adesso, digitale allucinazione).

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The Cooper Temple Clause:

Ben Gautrey. Voce.

Tom Bellamy. Chitarra.

Dan Fisher. Chitarra.

Didz Hammond. Basso.

Kieran Mahon. Tastiere.

Jon Harper. Batteria.

DISCOGRAFIA ESSENZIALE e GENESI DEL GRUPPO

 

Kick Up The Fire, And Let The Flames Break Loose, Morning, 2004.

See This Through And Leave, Morning, 2002.

Articoli e approfondimento: Sito ufficiale della band / Nme / Rocklab / Discografia completa / Coopersville.

Originariamente pubblicato su www.supertrigger.com

(le foto live della band sono state scattate da Fiamma Franchi)

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