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Maria Stuart e Guglielmo Tell – J.C. Friedrich Schiller

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IL CAPPELLO DEL CASTELLANO

 

Letto oggi 3/06/2005 in Ceglie Messapica (BR)

 

Non si può negare che le opere di Johann Christoph Friedrich Schiller risentano d’un certo pensiero illuminista. Egli è figlio del ‘700, di quell’era così contraddittoria e rivoluzionaria e poetica e sanguinaria e libertaria e… fermatemi!

Il corpo politico descritto dal Rousseau, il contratto sociale posto dallo stesso, il dibattito tra diritto naturale e diritto civile (in senso ampio, comprendendo in esso quello che all’epoca veniva chiamato diritto criminale ed oggi penale) influiscono sull’opera di Schiller poeta, romanziere, drammaturgo e storico.

Nell’ottobre del 1794 muore il Rousseau e agli inizi dell’Ottocento Schiller è nel pieno del suo furore creativo. Morirà na soli quarantacinque anni (10 novembre 1759/ 9 maggio 1805). Fino alla fine scriverà di libertà e diritto delle genti. Ci ha lasciato un’opera omnia varia, mutevole, studiata nel minimo particolare.

 

L’attualizzazione della storia è il motivo dominante delle sue opere, motivo più pieno di significato nel “Guglielmo Tell” e più velato in “Maria Stuart”.

La Fabbri editori decide nel 1970 (con ristampa, quindi successo, nel 1973) di accorpare in un solo volume le due opere più famose e “terminali” del poeta. Morto probabilmente già malato di tisi, già diventato professore di storia e filosofia all’università di Jena, per interessamento dell’amico Goethe, Schiller fatica sulle due opere.

La collana del 1970, a firma Fabbri, ci consegna la Stuart e Tell (la prima personaggio storico, il secondo personaggio mitologico) in un’unica soluzione, con una ben fatta introduzione “firmata” soltanto G.G., con l’ottima traduzione di Ervino Pocar.

Le opinioni nell’introduzione espresse non sono dalla scrivente abiurate, perché valide. Vorrei soltanto aggiungere e non togliere a questo meraviglioso bi-libretto, componente di una collana – “I classici della letteratura”. Non ci spiega compiutamente, l’introduttore, le motivazioni editoriali ed intellettuali che hanno mosso l’editrice. L’essere opere “terminali” d’una vita artistica non è la sola possibile giustificazione del reciproco accompagnamento. È naturale, anche se i critici dissentono spesso da simili asserzioni, che uno scrittore possa, anche nello stesso periodo, siglare scritti di diversa natura (e studio).

 

Per un verso, tali scritti hanno un tema comune: la tirannia. Per altro verso sono completamente differenti.

Il primo parla più di diritto delle genti e meno di libertà. Il secondo pare parlare di diritto delle genti, ma parla esclusivamente di libertà.

La libertà è, potremmo dire, il “personaggio” principale dell’opera.

C’è un progresso socio-storico che attraversa il Tell e lo rende altro da Maria Stuart. È un progresso sociale, comunitario. Non a caso l’autore sceglie la Svizzera come sfondo dell’opera; Paese, questo, da sempre sui generis nel quadro europeo: da sempre pacifico; da sempre abitato dalle genti (in senso ampio, da popoli). Genti diverse, eppure legate al territorio, al significato di territorialità.

La Fabbri sembra aver ben scelto l’accoppiata dei due “drammi”, ma senza rendersi conto della motivazione che potesse sorreggere la scelta. E le motivazioni potrebbero essere tante. Non esclusa la situazione psicologica – individuale e collettiva –, l’omicidio di Stato e l’omicidio politico perpetrato dal Tell.

Il Tell ucciderà il governatore (detto castellano) dell’imperatore. Sarebbe egli legittimato alla vendetta, eppure quella potenziale volontà vendicativa si trasforma, come conviene ad un essere superiore (all’eroe, al padre della patria) in presupposto di libertà. Affinché il governatore non possa abusare del suo potere anche in futuro, con i figli della Svizzera, Tell, abile tiratore d’arco, lo eliminerà dalla scena liberando gli uomini dalla di lui tirannia, che potrebbe essere anche tirannia futura.

È simpatico e prode, Tell. Sono simpatici tutti i paesani, la loro lega, il nobile illuminato che, spirando, si renderà conto dell’inutilità attuale della sua classe.

 

È facile credere in Tell; più difficile credere in Maria. Eppure, la portata del dramma è inconfondibilmente superiore, in Maria Stuart; perché è più difficile dare uno spaccato psicologico di pochi individui, soprattutto se realmente vissuti, che d’un intero popolo, soprattutto se non conosciuto. E Schiller in Svizzera, in tutta la sua breve vita, non ha mai messo piede.

Il mondo di Maria è crudele. La sua prigionia è nata da mano creduta sorella. Ella vive i suoi ultimi giorni come una qualunque criminale, privata dei suoi beni e dei suoi servi. Sente tutto il peso della sconfitta. È sola e disperata. Tenta la carta della pietà di Elisabetta Tudor, tenta il coraggio e muore sentendosi regina, ma anche sconfitta, persino bambina; chiederà d’essere sul patibolo sino all’ultimo assistita dalla propria nutrice.

E chi dopo diciannove anni di prigionia, non sarebbe una larva? Chi può ancora sperare, sin quasi alla fine, se non l’alta – ormai irreversibilmente al-tra – patrizia Maria?

Non ha uomini ancora pronti a servirla? Non ha uomini pronti a salvarla? Non ha forse, lei, la Chiesa cattolica apostolica romana a preservarla dal male estremo?

Morrà, questa è la storia, l’8 febbraio 1587, per aver accampato diritti sulla Britannia, sul trono d’Inghilterra, retto dalla rivale-amica-nemica-“sorella” Elisabetta.

 

Il dramma è anche il dramma di due donne, che, pur essendo regine, son donne. Femmine, sono.

In Tell, le donne abbatteranno, infine, in seno alla comunità, i simboli del potere. Rimarrà soltanto un cappello, memoria di ciò che fu.

Scopritene tutto il simbolismo; e tanto di cappello al grande Schiller, che per nostra fortuna fu scrittore e non fece il medico, pur se avviato alla professione dal padre chirurgo militare.

Ma anche Schiller, come Maria, per il suo regno (l’arte) venne rinchiuso in una prigione. Fuggendo dalla prigione di Stoccarda, riparò a Mannheim e si liberò definitivamente dal giogo, non dovendo più seguire nemmeno la carriera tracciata da suo padre.

 

Autore è egli della libertà e dignità umana. Le sue opere, in tal senso, sono dei gloriosi manifesti; piccole perle costruite su grandi scene.

Nei nostri due casi, la scena madre dell’una e dell’altra tragedia sono una oscura tetra prigione e i grandi spazi della natura. Soltanto che il secondo “racconto” (leggendolo capirete perché non uso il “consono” termina di dramma) meritetebbe uno spirito lettore fanciullo, capace di apprezzarne tutta la favolistica; ben armonizzata con lo spiritio critico nei confronti di quella che potremmo definire una lotta per i diritti civili in chiave tutta contemporanea.

La chiave modernizzatrice vince sulle strutture di un’epoca stilistica, e ci consegna un classico ancora attualissimo.

E poi, Schiller aveva cantato l’arte come la guida ideale capace di portare tra gli uomini una forma di superiore armonia [un’armonia destinata] a sconfiggere il tempo (pag. 10 dell’introduzione).

 

Io dico dunque che la sovranità altro non essendo che l’esercizio della volontà generale, non può mai essere alienata e che il corpo sovrano, il quale è solo un corpo collettivo, non può essere rappresentato che da se stesso: il potere si può trasmettere, ma non di certo la volontà.

(da: Jean Jacques Rousseau, « Il contratto sociale o principî di diritto politico ». Superbur Classici, 2000. Traduzione e note di Gianluigi Barni; pag. 73).

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